di Daria Baglieri
Con la domanda sull’essere come βίος e ζῳή – Che cos’è la vita umana? Che cos’è la vita in generale?[1] – che è un interrogativo fondamentale dell’attività filosofica prima che del suo resoconto storico, si apre Chronos. Questi scritti affondano le radici nella grecità del pensiero, più che nel pensiero greco cui pure fanno costante riferimento, una grecità che certo ha avuto la sua collocazione spaziotemporale, ma che si ripropone come modo di osservare, dire, interpretare l’intero, il cui essere (suggerisce la domanda poc’anzi citata) non si identifica con quello umano, e anzi lo ricomprende. La vita umana trova infatti la sua definizione – per niente riduttiva – in quella dell’intero stesso, come «una parte della materia universale che acquisisce caratteristiche di metabolismo, omeostasi, percezione, reazione»[2].
Vita è differenza, e la vita umana è esperienza della differenza. Questa è la chiave degli scritti raccolti nel volume, che tanto della storia quanto della teoresi fanno il loro metodo, senza rinunciare alla lettura diacronica e filologica delle fonti tipica dell’una né alla prospettiva rigorosamente olistica e sincronica caratteristica dell’altra. Ne risulta un cammino verso la comprensione dell’intero nella sua differenziazione e delle parti nella loro unità, un’econtologia, il discorso sull’essere come ambiente-mondo, realtà vivente e animata. Situato in esso, l’umano, e per la sua struttura cognitiva limitata in capienza e potenza, e per la finitudine, non è che un’effimera «vita che è mentre muore»[3] mentre la terra, gli astri, l’universo, immenso ed eterno, si perpetuano. Implicita ma chiara è quindi la quasi-identificazione tra la più alta conoscenza e l’intima consapevolezza che il mondo continua a esistere indipendentemente dal nostro essere; quasi, perché nel tra si dà la necessità del cammino che schiude la possibilità di conoscere, «un percorso iniziatico […] dentro l’essere, la verità, il tempo»[4] .
La grecità come atteggiamento del pensiero consiste esattamente nel mettere a tema il tra, nel comprendere, in quel percorso, anche sé stessi in quanto «trascurabile errore della materia»[5] che viene alla luce nella differenza, nell’alterità, nella frattura. Chronos, così, coniuga una struttura di pensiero apollinea, come «lucida e disincantata coscienza»[6] della vita che pensa sé stessa, alla dionisiaca multiformità «della misura dolente dell’esserci»[7]. Un dolore che trova un’insuperata espressione nel sapere tragico e gnostico i quali, difatti, prendono la parola in tutti questi scritti e non solo in quelli relativi all’antichità greca, pagana, politeista. Essi, allora, non presentano direttamente una cronologia del sapere filosofico, quanto anzitutto, e senza contraddizione, il percorso teoretico ed ermeneutico per «diventare parte del flusso infinito»[8] di cui non siamo che un attimo.
Di quel cammino è memoria il μῦθος, che nella poesia tragica si fa memento di Ἁνάγκη, la necessità avversa all’umana tracotanza. E questo, insegna il De rerum natura di Lucrezio, non perché la dismisura con cui l’uomo invade «la serenità della materia, la dolcezza del nulla»[9], sia degna anche solo di una punizione – il morire non potrebbe che placare le pene, ricorda paradigmaticamente Edipo – ma perché «L’Eone (Αἰών = ciò che sempre è) è un fanciullo che gioca»[10]. Perché il tempo, la generazione e la corruzione di tutte le cose non è che la festa in cui «la fortuna, il caso, gli dèi danzano […] sulle vite individuali e sulla storia»[11]. Semplicemente perché il cosmo ignora la rabbia che cerca vendetta e la disperazione che pure – una costante che va da Eschilo a Euripide, da Serse a Oreste – non impara la misura.
E tale misura, rivelano in ultimo le Baccanti, risiede nella gioia di Dioniso, nell’ironia e nella distanza, nella tregua dalla razionalità costituita che consente di volgersi alla pacifica inquietudine della terra con l’enigmatico sorriso di chi conosce, vive, e accettandola oltrepassa, l’insensatezza dell’essere al mondo. Non stupisce, allora, che dionisiaca sia la descrizione del governante o Oltreuomo platonico[12], «capace di gustare sopra ogni altro piacere la danza degli astri [e dunque] di proiettare sulla materia politica l’ordine, il rigore, la freddezza della materia celeste»[13] perché del sapiente è la serenità del distacco, la gioia della solitudine di chi intuisce le proporzioni del tutto nella differenza senza indifferenza di quel distacco.
Naturalmente, la vicenda teoretica del logos attraversa – con gli occhi dell’umano, del filosofo e del cittadino – ogni tempo, e nel caso di Chronos si colloca «al culmine della modernità che non crede nella sacralità del mondo e della materia»[14]. Un tempo, un’attualità, che della sua secolare ὕβρις paga ormai lo scotto persino «nella forma di un microscopico virus»[15]. Secolare, quella tracotanza, non solo e non tanto per la sua durata – insignificante, rispetto alla vita del pianeta e dell’universo – quanto nell’accezione teologica di distante, sedicente affrancata, dal sacro, qui concepito non come il trascendente o l’invisibile o l’ineffabile, bensì in quanto materia. Al sacro, qui, non si accede con una presunta liberazione dalla carne, da un corpo-prigione, quanto piuttosto nell’αἴσθησις, nel ritorno al sensibile, ai corpi, alla carne, segni del limite originario da cui l’esperienza stessa del sacro trae origine.
Sorgente del sacro, così, non è nessuna dogmatica rivelazione, ma lo scandalo della sofferenza che affligge tutti gli enti eppure si fa consapevole, e chiara nella sua assurdità, solo nell’umano, anzi, per l’umano; una consapevolezza, un’angoscia, un’impossibilità di svincolarsi che si abbatte su quest’unico, inerte e prepotente, nodo di tempo e materia. Tempo e materia, tuttavia: nessuna salvezza si dà, in queste pagine, al di fuori dell’immanenza transeunte di ogni cosa che è, l’uomo compreso, che in nessun modo può sottrarsi all’organicità, all’animalità, al limite fisico e cognitivo. Ecco dunque, perché la seconda parte, dedicata alla modernità, si apre con un discorso sull’animalità che coniuga l’anticristianesimo con l’antispecismo: i fattori da cui a partire dal XV-XVI secolo origina la nuova forma di organizzazione politica che è lo Stato moderno – la circoscrizione del territorio e la difesa dei confini, l’autonomia e indivisibilità del potere, l’uniformazione a regole e costumi sociali che ne impediscano il sovvertimento – hanno origine nella natura animale dell’umano. Il «dramma del potere»[16] origina certo nella servitù volontaria associata a una tendenza abitudinaria per cui gli umani facilmente cedono la loro libertà a qualcuno che li governi, «non per costrizione di forza maggiore ma perché sembra siano affascinati e quasi stregati dal solo nome di uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la forza, dato che si tratta appunto di una persona sola, né amarne le qualità poiché si comporta verso di loro in modo del tutto inumano e selvaggio»[17]. Ma, come mostra il «disincanto antropologico»[18] di Machiavelli – molto diverso dalla «antropologia fantastica»[19] di Rousseau – tale servitù non avrebbe ragion d’essere al di fuori della temporalità e materialità dell’umano, se non si sapesse, come si sa, di dover morire, nonostante l’utopia umanista dell’immagine e somiglianza con un Dio da cui si differisce “giusto” nell’essere mortali. All’insediarsi del potere come modo della sopraffazione prettamente umano, corrisponde nella modernità la rimozione – nell’accezione specificatamente freudiana della negazione di un fatto inaccettabile – dell’animalità. È significativo notare che nel momento storico in cui la scienza sfida l’umanesimo, quando cioè la biologia «accomuna di nuovo i viventi [facendo] emergere la vita dalla continuità della materia tutta»[20], un papa, Leone XII, ordina la costruzione di quello che sarà il primo mattatoio della storia; così, «mentre fa di tutto per allontanarsi dall’animale che è, l’Homo sapiens mostra l’animale che rimane»[21].
Nella «impoliticità»[22] della conoscenza della natura, della propria natura animale, sta invece la sapienza capace di spezzare l’illusione della libertà e aprire, spinozianamente, alla concezione di una realtà in cui il “comprendere” non è lo sterile esercizio di una supposta intelligenza che distinguerebbe l’uomo dall’(altro) animale, bensì l’accettare e vivere «la necessità ontologica, gnoseologica, etica»[23] del divenire razionale e necessario di tutte le cose. Ed è in direzione dell’inserimento dell’umano in una Natura necessitata e necessitante che Spinoza, non a caso nel Tractatus politicus, affermava che per scrutare le cause dell’agire umano conviene «non deridere, non compiangere, né tanto meno detestare, le azioni umane»[24] bensì comprenderle «come proprietà della natura umana»[25].
Quest’umano che non può che essere ciò che è, è dunque una miseria che solo la pietas del pensiero può redimere, in un’ottica ancora una volta gnostica che pervade non solo ogni filosofare ma anche il poetare in cui si imbattono questi scritti. Così accade nel sofocleo δεινότατον, che qui passa attraverso lo heideggeriano Unheimliche, ‘senza casa, senza dimora’ per caratterizzare lo spaesamento del «più inquieto degli enti perché il più lontano dalla propria origine, da lui perduta ma verso la quale nutre una costante nostalgia»[26]. Altrettanto è nello Zibaldone di Leopardi e per L’Étranger di Camus, protagonisti l’uno di una vita e l’altro di un romanzo in cui «l’uomo che comprende […] in questa comprensione diventa straniero al suo mondo»[27]. Ancora nella sapienza è la salvezza indicata dal farsi parola del mondo – nel mondo che parla e nell’essere-detto poetico del mondo – che Biuso legge nell’opera di Mazzarella, il cui «silenzio pensato»[28] si sporca le mani con il buio, il dolore, l’angoscia, la morte, senza rassegnarsi a nessuno di essi perché questa poesia-filosofia «diventa una teologia della bellezza e della pena, dell’anima che si trasforma in onda, dell’io come scintilla del divino»[29].
La vita «nella sua pienezza tragica, nel suo essere qui e ora, senza senso alcuno al di là di se stessa»[30], un “in sé” per niente antropocentrico e, al contrario, del tutto antropodecentrico, è dunque l’obiettivo ultimo della filosofia che si rinviene nella cronistoria del pensiero, nella millenaria amicizia per il sapere e sapersi materialità plurale, organica, differenziata. Non semplicemente poli-teista, infatti, è lo sguardo di Biuso, bensì pan-teista e naturalista, improntato, è ora evidente, sul deus sive natura di Spinoza, radicalizzato inoltre in direzione del materialismo di Lucrezio, un materialismo dell’immanenza rivolto all’intero cosmo. È chiaro allora perché il cuore di Chronos, le due parti centrali delle sei che compongono il volume, sia dedicato a Nietzsche (parte III) e a Heidegger (parte IV, quest’ultimo, peraltro, a precedere il Novecento come sua voce più significativa), i due filosofi che del tempo hanno esplorato la natura in chiave ontologica, fenomenologica, antropologica, anche cronologica, con sguardo teoretico e atteggiamento greco.
Nietzsche, in questa storia teoretica, parla attraverso i discussissimi Wahnbriefe, i biglietti cosiddetti “della follia” (1888-1889) che per Biuso sono testi a tutti gli effetti filosofici e in continuità con la produzione da essi solitamente distinta come lucida, perché in Nietzsche salute e malattia sono incatenate, con differenze di grado, e non di natura. Se follia può certo essere un modo di essere distanti dalla realtà, i Wahnbriefe non sono però l’espressione di quest’accezione, giacché mostrano l’impagabile lucidità di colui che sa a quale distanza porsi dalla realtà. «Imprimere al divenire il carattere dell’essere»[31], nei Wahnbriefe, diventa l’atto di semantizzare con la vita, con l’azione, con la benedizione dei καιρός, il gioco del mondo posto in essere dal già richiamato fanciullo eracliteo. E filosofia è saper divenire, è immergersi nell’eterno ritorno non per esorcizzarne l’insanente fluire, ma per giocare con il destino anche di dissoluzione che tutti – e tutto – affligge e che però solo a chi sa divenire offre quel «convergere in armonia di tutto ciò che ci costituisce – corporeità, razionalità, sentimenti, l’immanente trascendenza del tempo»[32] che è Dioniso mascherato da Apollo, è ancora una volta il βίος che si riempie, significa, impregna di ζῳή.
È quest’idea di vita come organicità, tempo, attività di cui l’umano è al più una delle espressioni, e neanche la più alta, che intrama anche l’opera di Heidegger, tutt’altro che esistenzialista e mai distaccatosi dalla fenomenologia del maestro Husserl. A costui è dedicato Sein und Zeit non solo per l’intercorso rapporto teoretico e umano, ma in segno dell’essenziale e mai dismessa condivisione di una tesi radicale, quella che si legge nelle Lezioni per la fenomenologia della coscienza interna del tempo e che fa della fenomenologia un’ontologia del tempo[33]: «tanto nella sfera di realtà immanente quanto nella sfera di realtà trascendente, il tempo è la forma ineliminabile delle realtà individuali»[34]. Sul solco tracciato da Husserl, Heidegger sviluppa la tesi dell’equivalenza tra divenire e possibilità, fino a concepire il divenire ultimo, quello della morte che ci ricongiunge alla materia, come la più decisiva di tali possibilità: la morte è Sein-zum-Tode, la struttura ontologica del Dasein che ne determina la costante proiezione al futuro, all’istante prossimo, all’altro e all’oltre rispetto a sé stesso. La morte è la possibilità che recide tutte le altre ed è la più caratteristica dello stare al mondo; fino a quando sono nel mondo, infatti, «mi auguro di rimanere un vivente […]: fino alla morte – non in vista di e neppure per la morte»[35], traduce da Sein-zum-Tode Ricœur.
L’ontofenomenologia è dunque l’esperienza radicale, sentita, vissuta dell’essere nell’unità e reciprocità di tutta la sua manifestazione: l’ente riluce nell’essere, l’essere traspare nell’opacità degli enti, e il divenire dell’uno negli altri è la husserliana forma che precede ogni sintesi d’identità della coscienza che sa. Tale forma è il tempo, la ragione più fonda e più chiara dell’essere e per questo la dimensione del sacro: ancora una volta, non la fissa eternità, né l’atemporalità della trascendenza, ma la temporalità plurale degli enti animati e inanimati, costituisce la sfera della verità dell’essere. In ciò consiste la grecità di Heidegger, nell’indagare l’essere senza irretirlo nelle categorie logico-gnoseologiche della metafisica tradizionale, ponendovisi non con «l’imprecisione di chi lascia correre, bensì [con] il rigore di chi lascia essere»[36].
Questo è il fondamento teoretico di quella che in apertura si è definita econtologia: nessuna storia della filosofia, anzi nessuna filosofia e nessuna storia, si sarebbero mai date al di fuori della differenza che sempre siamo. Eppure, della differenza originaria e costitutiva del nostro essere al mondo, della possibilità stessa che per l’animale umano si dia un mondo che non si dà per la pietra – per la quale, tuttavia, non si dà neanche sofferenza e perdita –, non prendiamo consapevolezza che nello scontro con l’ambiente che ci offre sostentamento, con l’altro in cui ci specchiamo, anzitutto con l’animale che siamo e con il corpo che abitiamo. «Animale» – scrive Biuso con implacabile realismo – «è parola di guerra»[37] perché animale è il nostro corpo, animale è la nostra alterità, animale è la differenza contro cui la noia della serialità tecnoscientifica e l’opportunismo della biopolitica egualitaria si scagliano in nome dell’identità di una specie che ha perso il suo significato, origine, collocazione in quell’intero cui pure è sempre rivolta. Ma all’intero è ancora rivolto il sapiente, colui che soppesa, gusta, conosce ogni porzione del mondo con «la lucida e dolorosa consapevolezza che tutti gli enti sono frammenti del tempo […] sono il frutto effimero e cangiante dell’intero»[38] e che del suo stesso essere coglie l’insignificanza senza perire al terrore del nulla, del proprio nulla.
Da questi scritti emerge in definitiva la «profonda unità fra vita e sapere»[39] che con Platone si è fatta μέθοδος, ‘ricerca’ «del necessario nel contingente, del modello nella copia, della psyché nel soma, dell’eterno nel tempo»[40], e con Nietzsche e Heidegger si attua come ‘cammino’ nel sapere e ‘percorso’ della gnosi. A che punto è questo cammino? sembra oggi l’unica domanda sensata da rivolgere a una “storia” della filosofia. Ma la risposta non potrebbe che essere teoretica e consistere nella proposta di un modo comprensivo – che ‘capisce’ e ‘accoglie’ – nei confronti delle differenze, che di esse si faccia osservatore e custode sensibile e distaccato. La proposta, insomma, è copernicana e fenomenologica, insieme e senza contraddizione: è guardare al mondo dal punto di vista del mondo, portando l’osservatore oltre ciò che può osservare perché l’invisibile non è né immateriale né trascendente, ma semplicemente al di là dello sguardo di chi osserva questa «evidenza incompresa di teorema»[41], la sacralità della materia-luce, la trasformazione senza perdita di coerenza e integrazione con il tutto, la differenziazione senza dimenticanza, la temporalità senza dispersione che si fa visibile solo nell’opacità dei corpi, spaziali, materiali, mutevoli, corruttibili, dove il tempo stesso diventa visibile, e la vita si fa pensiero senziente e organicità pensante.
[1] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano 2023, p. 11.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 76.
[4] Ivi, p. 25.
[5] Ivi, p. 20.
[6] Ivi, p. 87.
[7] Ivi, p. 32.
[8] Ivi, p. 24.
[9] Ivi, p. 92.
[10] Eraclito, Fr. 241 Mouraviev, in Eraclito. La luce dell’oscuro, a cura di G. Fornari, Leo Olschki, Firenze 2017, p. 51.
[11] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, cit., p. 53.
[12] Cfr. ivi, § I.5.4, pp. 80-85.
[13] Ivi, p. 74.
[14] Ivi, p. 33.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, p. 107.
[17] É. de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (Discours de la Servitude Volontaire, 1576), trad. e cura di L. Geninazzi, Jaca Book, Milano 1979, p. 17.
[18] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, cit., p. 118.
[19] Ivi, p. 140.
[20] Ivi, p. 115.
[21] Ivi, p. 112.
[22] Ivi, p. 86.
[23] Ivi, p. 133.
[24] B. Spinoza, Trattato politico (Tractatus politicus, 1677), trad. O. Proietti, a cura di F. Mignini, I Meridiani Mondadori, Milano 2007, p. 1108.
[25] Ivi, p. 1109.
[26] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, cit., p. 213.
[27] Ivi, p. 153.
[28] Ivi, p. 367.
[29] Ivi, p. 371.
[30] Ivi, p. 26.
[31] F. Nietzsche, La volontà di potenza. Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Forster-Nietzsche (Der Wille Zur Macht. Versuch einer Umwerthung aller Werthe, 1906), a cura di M. Ferraris e P. Kobau, trad. di A. Treves, Bompiani, Milano 1995, n. 617, p. 337.
[32] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, cit., p. 189.
[33] Cfr. ivi, §V.3.1, «La fenomenologia come ontologia del tempo», pp. 297-305.
[34] E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins: 1893-1917, 1966), trad. di A. Marini, Franco Angeli, Milano 2014, Nr. 39, «Il tempo nella percezione», p. 279.
[35] P. Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare (Das Rätsel der Vergangenheit. Erinnern – Vergessen – Verzeihen, 1998), trad. di N. Salomon, intr. di R. Bodei, Il Mulino, Bologna 2017, p. 29.
[36] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio (Unterwegs zur Sprache, 1959),trad. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1988, p. 75.
[37] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, cit., p. 253.
[38] Ivi, p. 38.
[39] Ivi, p. 65.
[40] Ivi, p. 67.
[41] E. Mazzarella, Il singolare tenace, I Quaderni del Battello Ebbro, Bologna 1993, p. 27.