di Matteo Zonta
1. Quali valori? Uomini e indigeni
Nonostante il dibattito sui rapporti tra uomini europei e indigeni non sia più tra i temi principali della letteratura antropologica e filosofica e la stessa categoria di indigeno sia fortemente rivista e messa in discussione, non passa mai di moda uno sguardo critico sul passato e sulle modalità brutali di dominazione su mondi altri operate da uomini del Vecchio Continente. Ci si interroga, anche in recenti dibattiti pubblici, su come l’Occidente non sia stato solamente portatore di cultura e di valori ma anche un creatore di dispositivi di dominio e di sopraffazione. Esempio chiaro ed evidente di queste modalità coercitive e dispotiche di relazione con altri popoli è il colonialismo.
Si è scelto qui di fermarsi su un piccolo ma preziosissimo contributo di Jean- Paul Sartre. Il filosofo francese, nel 1961, scrive una prefazione al testo I dannati della Terra[1] di Frantz Fanon. Quest’ultimo, medico e psichiatra della Martinica, ebbe la fortuna di formarsi in Francia dove compì anche studi filosofici e dedicò la sua troppo breve vita a scrivere degli oppressi del terzo mondo e a lottare per le loro condizioni. La sua morte avverrà pochi giorni dopo la pubblicazione del suo capolavoro che diventerà un classico dell’antropologia postcoloniale. L’anno successivo, nel 1962, l’Algeria, protagonista delle riflessioni del testo di Fanon, otterrà la sua indipendenza.
Sartre sottolinea che il testo di Fanon è un grido di aiuto, ma non rivolto alle élites culturali e politiche europee, delle quali lo stesso Sartre fa parte, bensì ai colonizzati stessi. Questo testo non è per gli europei in quanto sarebbero oramai asserviti alla logica coloniale. Fanon non cerca un dialogo con i coloni ma, al contrario, di far ribellare il terzo mondo e questo atteggiamento rivoluzionario gli porterà critiche e censure. Più di cento anni dopo l’invito marxiano al proletariato ad unirsi, Fanon si rivolge agli incatenati del terzo mondo e ne auspica una ribellione. Pur con le dovute distinzioni da fare tra i diversi contesti, vi è una certezza che accomuna tutti i paesi legati al processo di colonizzazione: la storia coloniale è una storia di oppressione.
2. Le ragioni di una storia
La difficile domanda alla quale Sartre ci vuole aiutare a dare una risposta è sull’opportunità e il senso di leggere un testo che non è dichiaratamente rivolto agli europei. Secondo l’autore de L’essere e il nulla, ci sono due ordini di motivi: il primo è legato alla nostra consapevolezza storica e il secondo è da collocare in una più ampia riflessione di filosofia della storia. Conoscere cosa è stato il colonialismo europeo in Africa, a partire dalla spartizione del Continente nella seconda metà dell’Ottocento, ci permette di illuminare anche le pagine più buie della nostra storia e scoprire che spesso si è massacrato e ucciso proprio in nome di quei valori occidentali di cui possiamo e dobbiamo andare fieri. La culla dell’Umanesimo e dei diritti dell’uomo ha finito per disumanizzare, trattando i colonizzati come bestie sacrificabili. Secondo Sartre, il testo di Fanon può parlare realmente a ognuno di noi, al fine di farci uscire dall’incontro con questo scritto più svegli e preoccupati. Svegli rispetto alla coscienza degli orrori dell’Occidente e preoccupati che questa furia e oppressione coloniale sia anche la fine di un certo tipo di civiltà europea e l’inizio di un qualcosa di diverso. Con la sua prefazione[2], Sartre lancia la sfida agli europei rendendo il testo diretto anche a loro.
A questo punto Sartre interviene mostrandoci le ragioni all’interno dell’accadere storico. L’idea coloniale basata unicamente sull’addomesticamento e non sulla convivenza pacifica non potrà che generare forze e ribellioni violente da parte dei colonizzati. Con una prosa curata e accattivante, Sartre spiega come, attraverso la ribellione, l’oppresso si possa sentire nuovamente libero. L’indigeno, reso selvaggio da chi aveva il potere di stabilire dove iniziava la civiltà, torna uomo. Ecco, dunque, il nodo della filosofia della storia di Fanon, che diventa una dialettica in senso hegeliano. La violenza dell’oppressore, unico valore conosciuto, diventa il solo strumento utile per la libertà. Attraverso la violenza, ci si può riconoscere nuovamente umani e si torna in possesso del proprio destino. Ci si afferma negando.
Quando questa reazione arriva, l’europeo non può accettare di averla generata con la sua oppressione e allora ricorre a spiegazioni basate sugli istinti selvaggi, riportando subito l’oppresso alla sua bestialità, a partire dall’uso di un lessico ferino. Questa reazione è però destinata ad arrivare e Sartre ne trova conferma in quello che stava accadendo nel suo tempo. Nel 1960 molti paesi africani avevano appena ottenuto l’Indipendenza e altri l’avrebbero ottenuta a breve. La Francia era dilaniata dalla guerra contro gli indipendentisti algerini e il dominio coloniale europeo non sembrava più così solido.
E il colonizzato si guarisce dalla nevrosi coloniale cacciando il colono con le armi. Quando la sua rabbia scoppia, egli ritrova la trasparenza perduta, si conosce nella misura stessa in cui si fa; da lontano noi consideriamo la sua guerra come il trionfo della barbarie; ma essa procede da se stessa all’emancipazione progressiva del combattente, fuga in lui e fuori di lui, progressivamente, le tenebre coloniali.[3]
Sartre descrive questa lotta come chiaramente impari. Da una parte abbiamo eserciti armati e dall’altra nullatenenti che lottano con la sola forza della disperazione. E forse, in questo suo non avere nulla da perdere, questa lotta avrebbe, secondo il filosofo francese, proprio la sua arma più forte. Gli oppressi non conoscono altri strumenti per liberarsi e non vedono altra soluzione che nella lotta armata contro i coloni. Un altro vantaggio del ribelle è che non può temere la sconfitta perché inizia questa guerra proprio da sconfitto e da oppresso.
3. Quali coloni? Pensiero e rivoluzione
Questo libro non aveva bisogno d’una prefazione. Tanto meno in quanto non si rivolge a noi. Ne ho scritta una, tuttavia, per portare fino in fondo la dialettica: anche noi, gente d’Europa ci si decolonizza: ciò vuol dire che si estirpa, con un’operazione sanguinosa, il colono che è in ciascuno di noi.[4]
Non possiamo, leggendole, non sentire le parole di Sartre rivolte anche a noi. Ci vediamo costretti ad accogliere la provocazione di Sartre alla luce di un mondo che ha mutato ma non abbandonato l’idea del dominio coloniale: l’idea di un diverso da civilizzare, sfruttare, annullare e mai comprendere. La volontà di dominare e di affermarsi a discapito del più debole porta il colono a negare i presupposti dell’esistenza di altri popoli con le relative culture, produzioni artistiche e tradizioni. Chi avesse la pazienza di leggere integralmente il testo di Fanon, noterà l’insistenza continua dell’autore sul tema della cultura nazionale. Il sentimento di una identità culturale nazionale è necessario per la sopravvivenza della nazione stessa. L’obiettivo più spietato che un colono possa avere è annientare sul nascere ogni tentativo di conservazione di una cultura nazionale, per creare così i presupposti ideali alla negazione dell’esistenza dell’altro.
Occorre quindi interrogarsi su come eliminare concretamente questo colono che è in tutti noi. La proposta che esce da tutto il testo di Fanon e dalle pagine di Sartre è chiara. Dobbiamo abbandonare quel senso di superiorità nei confronti delle altre culture in modo da permettere alle stesse di esistere, di crescere e di non essere considerate minori. Il tutto deve partire da un cambiamento di atteggiamento di ognuno di noi, una vera e propria rivoluzione che ci faccia smettere di ridurre e schiacciare gli altri per far crescere noi stessi. Questo tipo di rivoluzione nel pensiero necessita di avvenire e può avvenire solo grazie allo studio del passato.
[1] F. Fanon, I dannati della terra (Les damnés de la terre, 1961), Einaudi, Torino 2007.
[2] Ivi, pp. XLV-LXVI.
[3] Ivi, p. LVIII.
[4] Ivi, p. LXI.