Il paesaggio che ci riguarda. Un progetto collettivo, un metodo sovversivo

Recensione a:

Franco Farinelli

Il paesaggio che ci riguarda. Un progetto collettivo, un metodo sovversivo

Touring Club Italiano

Milano 2024

Pagine 117

€16,00

di Mattia Spanò

Paesaggio è uno dei termini-simbolo della nostra epoca: il suo impiego così ricorrente, e nei più disparati regimi semantico-discorsivi, lo sottopone però al rischio d’inflazione che corre ogni fenomeno ipertrofico. Stabilirne una definizione univoca è opera vana, percorribile solo pagando il prezzo di cadere nell’equivoco che vi sia un’esatta corrispondenza tra parole e cose. Assunto, quest’ultimo, fortemente  anti-paesaggistico: come si vedrà, al contrario, la parola-cosa paesaggio è uno dei principali teatri di manifestazione (ed elaborazione) del rapporto di mutua contaminazione ed ininterrotta negoziazione tra soggetti ed oggetti. Ma bordare i contorni degli orizzonti da cui discende e che, al contempo, si promanano dal concetto-scenario di paesaggio, è possibile quanto necessario; anche e soprattutto poiché da quest’operazione di ricostruzione genealogico-critica del termine, si squaderna la possibilità di comprendere in che termini, oggi, il paesaggio ci riguardi ancora e in che misura possa restituirci slanci d’ordine teorico ed operativo.

In un’operazione simile si è cimentato il geografo Franco Farinelli – che del paesaggio è uno dei più grandi esperti contemporanei – nella sua ultima opera Il paesaggio che ci riguarda. Un progetto collettivo, un metodo sovversivo. Protagonista indiscusso del saggio – edito dal Touring Club Italiano – è chi, forse più di chiunque altro, del paesaggio è stato teorizzatore innovativo, nell’intento di renderlo una nozione dalla portata scientifica: Alexander Von Humboldt, figura difficilmente inquadrabile in qualunque delle categorie che, storiograficamente, vengono impiegate per definire perlomeno la tendenza dell’operato di qualsivoglia figura abbia avuto l’onore e l’onere di imporsi nel corso della storia.

Humboldt, che al di fuori della Prussia preferiva celare le sue nobili origini, fu filosofo, naturalista, botanico, geografo, esploratore, autore del «più costoso viaggio di esplorazione scientifica mai compiuto da un privato, dopo il quale l’immagine occidentale del mondo non fu più quella di prima» (p. 11). Per brevità – si intende – perché tanto altro si potrebbe dire della sua vicenda, intimamente e complessivamente mossa da un proposito di fondo che Farinelli non tarda ad esplicitare: l’innesto di una radicale manovra scientifica e politico-sociale sull’allora fermentante – ma, ai suoi occhi, ancora oltremodo statico – ceppo della riflessione estetica.

Tramite di quest’ambizioso intento è proprio il concetto-scenario di paesaggio, così assiduamente tematizzato in termini artistico-culturali ma, fino a quel momento, miccia ancora timida sul versante scientifico, epistemologico, metodico e, dunque, politico: l’immagine della bruma che «avvolge ogni cosa» (p. 19), infatti, funge al contempo da «metafora di ogni […] progettualità politico-sociale: sempre all’orizzonte ma mai raggiunta» (p. 20) e da fondamento della strategia conoscitiva humboldtiana, improntata sulla consapevolezza del «carattere […] fatalmente incompleto sebbene teso alla totalità di quel che vediamo, strutturalmente incompiuto di ciò che sappiamo, programmaticamente partigiano di quel che facciamo» (p. 19). Ed è proprio a partire da questi fondamenti teorico-operativi che Humboldt intese innescare una rivoluzione politica che si fondasse su una preliminare mutazione culturale del corpo collettivo, imperniando il suo ambizioso intento sulle trame dispiegantesi dal concetto-scenario di paesaggio. Innumerevoli sono le direttrici che, in quest’intreccio multipolare e scalare, motivarono la peculiare manovra humboldtiana, riassumibili in almeno due assi tematico-prospettici di fondo.

In primo luogo, perché il paesaggio? Si può parlare, in questa cornice, della faccia, per così dire, strategica del poliedrico progetto di Humboldt; accusando la necessità di rivolgersi ai «rappresentanti della riflessione comune […] sui fondamenti dell’ordine sociale», agli «esponenti dell’opinione pubblica allora in Germania allo stato nascente» (p. 42), questo «stratega del pensiero civile» (p. 32) ritenne più opportuno costruire sul già costruito, incardinare un rinnovato impianto teorico su basi già solide: la «matrice estetica della cultura borghese» (p. 31), così intimamente legata alla natura rappresentata perlopiù artisticamente; e nei confronti della quale – nella co-esistenza di innumerevoli concezioni della natura – la pittura andava ergendosi come mezzo, obiettivo, significato, «esperienza vissuta della comunione della vita con la Terra» (p. 42). Si trattava, allora, di mettere in moto la gittata ancora latente di un tema già assiduamente frequentato, sebbene diversamente, dai destinatari del messaggio humboldtiano: era necessario trasformare «dall’interno la cultura borghese, o civile che dir si voglia, a partire dalla sua natura soltanto estetica, cui il dominio dell’aristocrazia feudale l’aveva fin ad allora inchiodata» (p. 29). E di rendere, dunque, «coloro che si sono formati attraverso l’immagine […], cioè i quadri» (p. 28), «osservatori e osservatrici della natura» (p. 27): veri e propri conoscitori del mondo, depositari e agenti di un sapere che li avrebbe potuti condurre alla proficua amministrazione dello «“spazio riempito di cose terrestri”, come diranno i geografi tedeschi dell’Ottocento» (p. 64). In tal senso, secondo Humboldt, la forma (e via) estetica sarebbe stata «la sola in grado di indirizzare il soggetto borghese, che allora nasceva, verso il discorso scientifico» (p. 87).

In seconda battuta, per accedere ad un approccio capace – almeno in linea potenziale – di condurre ad un discorso che chiamasse in causa l’emancipazione politica, era necessario che il paesaggio non si esaurisse nella fissità di un perimetro nozionistico ma che, al contrario, si attestasse come un (se non il “più”) potente canale critico-cognitivo, vero e proprio filtro ermeneutico-orientativo, punto di innesco ed approdo mobile (e non mero esito) del lavoro intellettuale. Intorno alla metà dell’Ottocento, allora, Humboldt si cimenterà in una mastodontica operazione di tornio teorico dall’anelito operativo «che si avvicina molto» all’istituzione di «ciò che oggi intendiamo come complessità, se non globalità» (p. 27).

Se, agli occhi dei suoi contemporanei, il paesaggio appariva come la forma del «mondo inteso, semplicemente sul piano estetico e sentimentale, come una totalità armonica, ancora anteriore a ogni analisi razionale» e coincidente, dunque, con l’immediata «facoltà psichica del soggetto» (p. 25), Humboldt introdurrà una curvatura prospettica, che ne estenderà la gittata, destinata a permanere per decenni.

Tre sono gli elementi-termini attorno ai quali orbitava l’intento di ripristinare, sul piano scientifico, questa «sentimentale totalità originaria» (p. 27): Eindruck (impressione), Einsicht (esame) e Zusammenhang, ognuno dei quali corrispondeva – secondo Humboldt – ad una delle fasi del processo conoscitivo umano; il primo si riferisce all’impressione (Druck) tendenzialmente unificante (Ein) maturata dall’individuo (Ein) che, di volta in volta, si imbatte nel paesaggio-mondo. A questo primo impatto totalizzante, dovrebbe poi seguire un’analisi razionale che, transitando dalla vista (Sicht), conduce ad una dissezione in singole unità (Ein) dell’armonia originariamente (solo) sentita nel paesaggio. È, poi, il turno del terzo stadio conoscitivo, che si configura come la risalita “scientifica” alla complessità del paesaggio che, scisso analiticamente durante la fase intermedia dell’esame, è ora accolto come «una totalità costituita dallo stare insieme (Zusammen) in un rapporto di mutua interdipendenza di tutti gli elementi di cui la “faccia della Terra” si compone» (p. 27). In tal senso, allora, per Humboldt «la conoscenza scientifica era nient’altro che la conferma e la spiegazione del primigenio sentimento dell’unità della natura» (p. 66) che, già gorgogliante nell’impressione pittoresca, necessitava di un ulteriore affinamento.

Riassumendo, dunque: se, da un lato, risulta insufficiente arrestarsi alla mera contemplazione suggestiva del paesaggio (proiezione psichica povera di rigore) dall’altro lato, non meno incompleto si rivela quell’approccio volto alla mera scomposizione tipizzante e disincarnata per elementi di tutto ciò che – a diverse scale – sta intorno all’osservatore (razionalizzazione astratta che ha ben poco a che fare con l’esperienza vivente). In questo solco si innesta il gesto di Humboldt, inteso a mostrare come in qualsivoglia lettura del reale tanto il soggetto quanto l’oggetto siano entità mobili e performative. Perché l’essere umano – in apparenza solo “osservatore” ma, a ben vederci, anche “osservato” – è l’erede in cammino di ciò che si prefigge di interpretare: esso stesso è, dunque, interazione che studia interazioni, frammento interconnesso alla totalità relazionale che tenta di interpretare dalla sua situatività (che è già relazione tra relazioni). Così, il paesaggio, non è una cosa in sé, “semplicemente” da contemplare, ma si configura anche come una modalità di rappresentazione e modellizzazione della complessità del reale.

È molto interessante notare come, a tal proposito, Humboldt, riconoscesse agli strumenti utilizzati un ruolo performativo di prim’ordine nella conoscenza del mondo, ponendo in essere – pur in termini diversi dagli attuali – il tema della mediazione: non solo, allora, «ogni sguardo» non può che derivare «da un presupposto» già situato, «da una posizione preesistente di ordine generale che indirizzi l’intero processo» (p. 88); ma ogni osservazione si co-costituisce con gli strumenti (e ambienti) impiegati, che abilitano o disabilitano all’emersione di determinati aspetti del mondo. Così, a differenza di Goethe – che non «ammetterà mai l’uso di strumenti nell’indagine della natura, […] sostenendo che a conoscere basta l’occhio così com’è, senza bisogno di alcune protesi» (p. 18) – Alexander von Humboldt riporrà una smisurata fiducia nella fotografia, ritenendola la «correzione e prosecuzione» (p. 68) della pittura.

Ironia della sorte volle, però, che proprio a questo punto le cose, per il paesaggio, si complicarono, a causa di un complesso intreccio di ragioni che, tra le altre cose, chiamò in causa per l’appunto anche la fotografia. Quest’ultima, infatti, non di rado – e sulla scorta di una visione, sostiene Farinelli, direttamente discendente dalla prospettiva classica sorta a «Firenze nella prima metà del Quattrocento» (p. 72) – ha contribuito «a far dimenticare […] la natura soggettiva, locale, della visione spaziale cui essa obbedisce, a fornire cioè al paesaggio una valenza oggettiva mai posseduta in passato» (p. 70). Degli innumerevoli tracciati di riflessione che muove il fenomeno fotografico, Farinelli si sofferma, dunque, su un aspetto specifico: la parvenza di oggettività restituita dallo scatto che, soprattutto alla fine dell’Ottocento, contribuì all’erosione della complessità del paesaggio ritratto; quella che lo scrittore italiano Gianni Celati ha definito, a più di un secolo di distanza, «l’illusione fotografica», ovvero «la credenza in un vedere “oggettivo”, non determinato dalla nostra esposizione alla visibilità», quando, a ben vederci, «la visione comporta» sempre «un legame tra il vedere e l’essere visti»[1]. Un dispositivo analogo a quanto Humboldt intendeva tutelare con la ricomposizione “scientifica” del concetto-scenario di paesaggio ma disgregato, alle fondamenta, dall’incrocio tra l’illusione fotografica ed i sincronici e diacronici movimenti di pensiero che si sono avvicendati nel tempo sul tema.

Traiettoria – questa – magistralmente narrata da Farinelli in quella che può definirsi, a pieno titolo, una breve ricognizione storico-critica del sapere geografico nei suoi costitutivi ed ineludibili sconfinamenti disciplinari. Tra Suess, Ritter, Ratzel, Hettner, Passarge, Davis, Schlüter, Kramer, Biasutti, Gambi e una breve incursione nell’opera geografica kantiana, Farinelli evidenzia come il paesaggio «da maniera oltremodo interessata e consapevolmente strumentale di percepire il mondo in vista di un progetto sociale» sia stato gradualmente «ridotto a un semplice insieme di lineamenti, di cose» (pp. 76-77).

In tal senso, in quanto esito – e non premessa e approdo mobile: dunque, processo – di un lavoro conoscitivo perlopiù additivo, statico, «oggetto stesso alla cui comprensione avrebbe dovuto, in origine, servire», dal paesaggio scompare immediatamente il soggetto, «e con esso ogni possibilità di spiegazione» (p. 82). In altri termini, il paesaggio inizia a guadagnare il ruolo di fronte oggettivo meramente osservato e costruito da un polo soggettivo sempre più dimentico del fatto che, nell’osservazione – a diverse scale – del mondo, sia esso stesso già-mondo. Un paesaggio disincarnato, formalizzato, tipizzato: niente di più che un (presunto) «oggettivo complesso di forme» che, proprio in quanto tale, mostrerà «dopo la Seconda guerra mondiale […] tutti i propri limiti» (p. 88) come modello critico-cognitivo.

In effetti, bisognerebbe chiedersi – come fa Farinelli in dialogo con l’opera del geografo Lucio Gambi – come può «quel che è visibile, cioè il paesaggio» esprimere la realtà se è esso stesso «plasmato e edificato da quel che invece è invisibile» (p. 89)? Tanto più se, mai come oggi, si è manifestata una strutturale difficoltà nel «giudicare dell’interdipendenza delle cose» che si vedono «a causa della miniaturizzazione, della smaterializzazione e dell’informatizzazione, cioè dell’applicazione congiunta della telematica, della cibernetica e dell’elettronica alla produzione e alla comunicazione» (p. 102). Ma tutto ciò vale – come si è visto – solo a patto di comprimere indebitamente il paesaggio nell’angustiante perimetro di una somma di elementi.

Se, invece – anche rievocando la manovra humboldtiana, come ha fatto Farinelli – si tenta di ricomprendere il paesaggio come modello critico-cognitivo, nel segno della consapevolezza dell’interdipendenza di soggetto ed oggetto, le cose cambiano drasticamente. Se, come evidenziato da innumerevoli studiosi del paesaggio, ci si muove dalla consapevolezza che questo sia un dispiegarsi in cui il soggetto «è un osservatore interno al sistema osservato» (p. 105), riemerge uno scenario irrevocabile: ogni essere umano agisce nell’essere già agito dalle coordinate spazio-temporali di volta in volta attuali. E il paesaggio «rimane […] la forma dell’originario patto cognitivo dell’umanità moderna con la Terra» (pp. 102-103), «proprio in forza della sua connaturata e calcolata ambiguità» (p. 111) che lo ha visto emergere, «fin dall’inizio, per venire a patti con la crisi del mondo, il suo vacillamento, il suo tremito» (p. 112). Prospettiva, quella di «ricomprendere il senso del paesaggio, e della sua natura di modello» (p. 106), che è quanto mai necessario ravvivare in un’epoca in cui il legame uomo-territorio-Terra suggerito dall’etimologia stessa del termine – a dispetto dell’impiego così ricorrente del vocabolo – è, entro certi limiti, notevolmente distante dall’orbita dell’immaginario collettivo. Tanto più se, almeno negli intenti, si sta tentando – anche sul fronte politico – di rendere evidente come non vi sia paesaggio senza un soggetto mobile e non vi sia soggetto mobile senza paesaggio.


[1] G. Celati, Conversazioni del vento volatore, Quodlibet, Macerata 2011, pp. 64-65.

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