di Mattia Spanò
Hai ragione, tesoro,
non so così importanti cose.
Ma tu domanda ancora.
Sentiamo
quanto è grandioso
l’ignoto. Ci consola
da questo inganno del sapere
le cose. Restiamo galleggianti
fra le tue domande
sontuose. Ascoltiamo insieme
il loro grande sottostante vuoto[1]
Mariangela Gualtieri
1. Quali mondi possibili per una specie folle?
Nel 2024, a sei anni di distanza dalla prima edizione, Antonio Moresco ripubblica la versione riveduta e rimodulata dell’opera Il grido. L’esigenza di rimarcare quanto fino a quel momento osservato in un serrato confronto con la sesta estinzione di massa[2] è tale da condurre lo scrittore italiano ad intervenire sul rinnovato testo già a partire dal titolo, che diventa La specie folle. Operazione dettata dalla volontà di spingersi fino «alla radice» delle questioni affrontate e fotografare così «la nostra reale e sbalorditiva condizione di specie»[3]. Ma alla follia Moresco – è bene specificarlo subito – non riserva un trattamento univoco: allo stesso impulso che porta gli uomini a comportarsi come dei cani che, nel piombare giù da un dirupo, continuano imperterriti a mordersi, lo scrittore italiano riconosce altresì un’inaudita e sublime potenza capace di «riaprire i possibili bloccati della nostra specie»[4].
Quello di Moresco si profila, allora, come un accorato pamphlet che si tiene a debita distanza dal rischio di cadere in qualsivoglia gesto di matrice oleografica, sulla trama del quale non vi è spazio per alcuno sconto. Docile, l’autore mantovano, non lo è neanche nei confronti di un autorevole scienziato, nonché una delle figure più amate dalla cultura di massa: l’astrofisico e cosmologo Stephen Hawking che, a più riprese nel corso del tempo, ha espresso pareri favorevoli circa la possibilità (o, addirittura, necessità) di affrontare l’attuale crisi globale optando per la colonizzazione di altri pianeti[5]. A Moresco, che si confronta anche con altre voci che del rapporto uomo-ambiente-mondo si sono occupate, la cosa non va giù e ingaggia il suo dialogo con l’opera del celebre astrofisico enumerando una sequela di motivi per i quali il trasloco su altri pianeti sarebbe una non-soluzione.
Tra queste svetta l’abbraccio mortale sul quale si avvilupperebbe l’umanità nel caso in cui decidesse di trasferirsi su un altro pianeta. L’immagine cucita da Moresco, di rara e formidabile eloquenza, rimanda alla superficialità astraente di un tale mega-trasloco di massa; che, proprio in quanto di massa – ammesso che si possa, un giorno, non solo essere capaci di realizzarlo ma anche, e soprattutto, di maturare la predisposizione al coinvolgimento dell’intera umanità – chiamerebbe in causa anche chi, oggi, vive nella miseria. Ma in che modo?
“Prego, signora, faccia presto, il missile la sta aspettando davanti alla porta della sua casa di fango per condurla sul tale pianeta. Si accomodi. Cosa dice? Ah… vuole portare là anche la sua capretta? Ma certo, non c’è problema! Viaggerà anche quella alla velocità della luce […] la materia di cui è costituita e le sue molecole verranno scomposte e poi ricomposte sul nuovo pianeta […], la potrà mungere domani stesso anche là, di fronte alla sua casa di fango che ritroverà tale e quale ad aspettarla in un luogo e in un tempo riprodotti e clonati sul nostro”[6].
Moresco – insomma – rintraccia, denuncia e ripudia la futilità della mera traslazione fisica di un intero assetto culturale che «terminale» – parola che ricorre assiduamente nel testo – rimarrebbe, poiché copia anastatica dell’attuale modo di stare al mondo dell’uomo. Ma un ulteriore limite renderebbe improbabile, se non impossibile, l’imbarco su questa fantomatica novella arca di Noè: le (drasticamente) ostiche condizioni atmosferico-ambientali di tutti i pianeti, ad oggi, raggiungibili, a partire dal presupposto che le condizioni di possibilità d’esistenza organica dell’uomo al di fuori dell’atmosfera terrestre siano davvero ristrette[7]. Il range ottimale – quello per il quale non ci si congeli a temperature agevolmente sopportabili da altre specie o non ci si affanni esizialmente in una rarefazione che per altri esseri è un gioco da ragazzi (non umani) – della vivibilità è, per l’essere umano, estremamente ridotto. Al di là dell’attuale ricerca su possibili esopianeti[8], al momento, considerando gli ammassi cosmici realisticamente raggiungibili in archi temporali umanamente sostenibili, saremmo disastrosamente incompatibili con qualsivoglia scenario percorribile.
La cosa, sebbene a percorrerla e simularla nel dettaglio, possa rasentare tanto la comicità quanto la drammaticità[9], rende evidente un fatto che (fin troppo) spesso sfugge: l’uomo, come ogni altra specie, in quanto intreccio mobile di ontogenesi e filogenesi quale è, non può prescindere bio-tecno-culturalmente dall’ambiente dal quale proviene e verso il quale procede[10]. Il paradigma, allora, si ribalta: siamo inadatti ad altri ambienti cosmici non in quanto attuale (e mobile) figura di una specie scadente fino al parossismo e poco adattabile; ma poiché entro la Terra si sono date le condizioni della nostra, a tratti inspiegabile e peculiare, emersione. Da lì, il nostro cammino, che – in quanto cammino – non si dà mai, una volta per tutte, in quanto cosa in sé. In altri termini, si potrebbe dire, che chiunque sia gettato in inizio già iniziato[11] e che arduo, se non impossibile, sia scovare – dal punto di vista umano – qualcosa che possa sorgere ex nihilo.
2. Felici aporie: scoperte, invenzioni, emersioni tra origini ed avvenire
Innumerevoli volte, e in un mosaico di codici, il per brevità chiamato artista Roberto Vecchioni mi ha fatto innamorare della parola. Ed ha continuato a farlo nella sua ultima opera, L’orso bianco era nero. Storia e leggenda della parola, che a quest’intento è consacrata. Poiché la «lingua è il mezzo più alto, più accreditato, più indispensabile per arrivare al centro dell’uomo, la strada maestra per un umanesimo universale»[12]. Tuttavia riscontro una certa difficoltà a seguire quanto campeggia in quarta di copertina: la parola, argomenta Vecchioni, come l’arte in generale, è l’unica vera invenzione umana, tra tutto il resto delle cose che, già presenti nel mondo, sarebbe semplicemente bastato scoprire. Tra queste il non solo scrittore-e-cantautore cita la ruota, per poi spingersi fino al bosone che, forse, in misura somma, senza parola-e-tecnica, non sarebbe mai potuto emergere; al contrario – si potrebbe osservare in dialogo con Vecchioni – il bosone affiora proprio dall’affinamento dello sguardo eco-tecno-simbolico umano, senza il quale nulla di simile avrebbe infranto il muro dell’invisibilità: paradossalmente la visione del bosone, come di qualsivoglia ente carpito dall’essere umano, è “abilitata” dall’elevato grado di raffinatezza raggiunto dalle nostre lenti e, contestualmente, retroagisce su saperi e pratiche.
La dinamica rivela un meccanismo, ben reso dal filosofo Carlo Sini[13], solo apparentemente paradossale: l’origine è sempre scandagliata dal più estremo punto dell’avvenire, per cui – e qui è lo scrittore Michele Mari a parlare – «quando muori muori come l’ultimo degli scoliasti»[14] (pur nell’effimera transitorietà del momento).
Allora, tornando a Vecchioni, e scendendo, per quanto si può – si badi bene, pur sempre linguisticamente e tecnologicamente – alle origini della parola, anche la stessa si è data in un indissolubile e mai del tutto ricostruibile intreccio di scenari: dalla necessaria presenza dell’osso ioide ai fini di un’agevole articolazione dell’apparato fonico alla predisposizione neurobiologica all’emersione di un qualcosa come il linguaggio, transitando per l’ininterrotto e mai univocamente comprimibile coacervo di pressioni (ad un tempo spunti-e-vincoli) ambientali. Così, come evidenziato da Edgar Morin, «l’autonomia del vivente può mantenersi solo nella dipendenza dalla sua ecologia», da cui il concetto di «auto-eco-organizzazione» e il paradosso per il quale «l’autonomia ha bisogno di essere dipendente per essere autonoma»[15]. In questa cornice, «i sistemi, nati dall’associazione organizzatrice di costituenti diversi, creano emergenze, qualità nuove, sconosciute agli elementi isolati»[16] che si estrinsecano, a scale diverse, anche nella creatività umana, in linea di continuità e discontinuità con gli altri esseri viventi.
Nell’interrogarsi sulla parola linguisticamente, si riscontra più di qualche difficoltà a pensare che lo strumento-linguaggio sia sorto seguendo dinamiche diverse da come, ad esempio, l’uomo abbia – a detta di Vecchioni – scoperto e non inventato la ruota: quest’ultima, come tutto del resto, diventa ruota – per come e, al contempo, diversamente da come, la si intende da millenni – nell’universo simbolico-culturale-operativo umano, intersoggettivamente; e, di stratificazione in stratificazione, si fa resto sociale che, in un movimento tecnologico plurisecolare, l’ha vista transitare dai più rudimentali carri ai più evoluti velivoli. Come si sia passati dal mugugno dotato di una certa simbolicità e pregnanza semantica alla parola (sempre per come la conosciamo e frequentiamo oggi) è difficile, almeno ad oggi, che lo si possa definire in termini indefettibilmente esatti né che lo si possa inquadrare nell’alveo dell’esclusiva invenzione: anche questa è frutto di costanti retroflessioni ed estroflessioni ed è già un doppio, una particolare assunzione-e-modulazione, dell’esperienza vivente[17]. Tanto più se – stando ai più recenti studi – anche altre specie del nostro genere disponevano, pur rudimentale e ancora distante dall’attuale linguaggio, di un sistema di comunicazione: in altri termini, «la mente umana rinasce continuamente: le nostre modalità di pensiero e percezione cambiano senza sosta, alla luce del mondo che cambia intorno a noi. Nuove tecnologie, nuove parole, nuove architetture influenzano ciò che possiamo fare con il nostro cervello, spesso cambiando il cervello stesso»[18].
E, infatti, lo stesso Roberto Vecchioni, inaugura il suo straordinario concerto di linguistica proprio con una ammissione-monito che, per certi versi, rimanda al «non chiederci la parola» con cui Montale mette in guardia dall’uomo che, andandosene sicuro, non si cura che la sua ombra si stampi «sopra uno scalcinato muro»[19]: «non provateci nemmeno per scherzo a chiedermi come nasce il linguaggio. Al massimo si è arrivati al “dove”, al “quando” e al “perché”»[20].
3. Il comporre del comporre: matrici, posture e retine culturali
Qualche tempo fa, a Messina, ho avuto la fortuna di discutere – tra le altre cose – di musica con Silvio Perrella, che ama definirsi scrittore e musicista mancato. Nel presentarmi come autodidatta sgangherato e, per di più, arrugginito, ho subito pensato che – mi si conceda la licenza s-poetica – l’autodidatticità, in quanto tale, sia una chimera: non è possibile rintracciare e trascrivere complessivamente quanto abbia composto (e continui a comporre) il comporre di ognuno, al di là del fatto che si segua o meno un percorso, per così dire, canonico. Ma in uno spettro che va dal contesto spazio-temporale in cui si nasce – tessitura entro la quale arriva una certa proposta musicale e si compone un determinato quanto metamorfico canone – alla canzone sentita, per strada, quasi per caso, circola ininterrottamente materiale da consumare, rielaborare e codificare musicalmente (e non solo). Qualcuno sostiene che le canzoni – come qualsivoglia ulteriore artefatto – stiano lì, nell’aria, e che agli autori tocchi solo scovarle. Scoprirle, insomma, e non inventarle. Ma, poste queste ipotetiche premesse, bisognerebbe allora chiedersi quale sia il manto semantico della considerazione: se è vero, da un lato, che in una qualsivoglia forma di assemblaggio di elementi viga una certo slancio inventivo, è altresì necessario, dall’altro lato, riconoscere che ogni autore di queste inedite interazioni tra elementi è esso stesso esito mobile di interazioni. Sul tema, un indirizzo dalla profonda gittata lo fornisce un passaggio di Lazzari Felici, straordinario brano di Pino Daniele del 1984, contenuto nell’album Musicante:
Chesta musica ch’è mariola
Pe’ dinto ‘e carusielle
S’arrobba ‘a vita e sona[21].
Da questo spazio contenuto tracima il dispositivo in oggetto: la musica (e non solo), che discende dalla vita, si immerge – da bonaria ladruncola – nella vita stessa, per poi codificarla in suoni in un incontro di mondo che si scompagina tra gli autori e ciò che li circonda: gli ambienti di volta in volta attuali già, in buona parte, umanizzati. O, comunque, assimilabili ed elaborabili solo ed esclusivamente transitando – più o meno consciamente – da quelli che Italo Calvino definiva gli ineliminabili «precedenti culturali» quando, in occasione di una conferenza tenuta a New York, chiedeva provocatoriamente – e nella consapevolezza di invitare l’uditorio ad un ineludibile scacco – di descrivere un paesaggio (esso stesso un costrutto) da zero[22]. Dispositivo che la lingua francese rende con il termine, in ultima analisi intraducibile in italiano se non ricorrendo ad una complessa sequela di considerazioni, terroir: territorio – si potrebbe dire – nel senso di «matrice e […] coscienza di ogni esistenza interconnessa […]. Nulla vive fuori da una interconnessione»[23]. Tanto che autore ed autrice del testo appena citato, nel tentativo di sviluppare la tesi sostenuta, continuano: «Le idee inedite non vengono mai dal nulla (il Nulla?)»[24].
In ogni caso, allora – dal e al di là del fenomeno musicale – più che di scoperte o invenzioni, forse, agisce un meccanismo di costante miscela, incrocio, contaminazione, traduzione. Poiché, dal punto di vista umano, dire la terra è – in una qualche misura – farla, come sostiene il geografo Marcello Tanca in dialogo con la viva voce dell’opera di Angelo Turco (a ben vederci, infatti, stiamo continuando a dire la Terra in quanto frammenti della stessa, pur mossi dall’esigenza di evidenziare come l’ineludibile frequentazione culturale del mondo non si possa che dare nel segno di una più o meno fondata e proficua parzialità). In ragione del fatto – per dirla, ancora, con le parole di Augustin Berque[25] – che il rapporto che intercorre tra l’uomo e la terra non può che essere eco-tecno-simbolico: non ci si può, in altri termini, liberare – in termini assoluti – non solo dai nostri «precedenti culturali» (Calvino) ma anche dai luoghi che, pur in maniera peculiare e non meno della cultura, indirizzano lo sguardo (non solo visivo) umano[26]. E ancora: ambienti e strumenti, se l’uno può diventare l’altro, in un interscambio pressoché alla pari, in termini di mediazione del reale[27]. Ma questo dire, questo interpretare, questo pensare-agire, questo sapere – ogni conoscenza e saper fare – non nasce dal nulla, non è mai disincarnato o istituito astrattamente: è, ancora-e-sempre, una risposta (di volta in volta) attuale al complesso orizzonte relazionale da cui si proviene e verso il quale si procede[28].
Allora, tornando al trittico scoperta-invenzione-emersione si potrebbe, addirittura, sostenere che lo sviluppo cognitivo dell’uomo non si (sia dato e non si) dia che nell’incontro di mondo tra l’essere umano stesso e le, più o meno estese, affordances distribuite-carpite-e-elaborate in peculiari quanto mobili coordinate spazio-temporali. In altri termini: se la ruota non è accolta ed elaborata come tale (e la ruota, oggi, non è comprimibile entro uno spettro semantico-operativo univoco ed immutabile), non è ruota, ma semplice frammento di scompaginazione dell’esistente puro e semplice. Così, seguendo uno dei pilastri di sostegno ed orientamento dell’assetto metodologico-prospettico di Charles Sanders Peirce: «Il mondo si trova […] coinvolto nelle inferenze abduttive degli organismi viventi non meno e non diversamente da come queste inferenze si trovano coinvolte in quello e da quello»[29].
Ancora lo scrittore Silvio Perrella ha utilizzato, in tal senso, un’immagine verbale vividamente pregnante, parlando di «retina culturale», espressione che riunisce l’inestricabile legame umano tra corporeo e simbolico e che funge da segnavia dell’intero (e mai conclusivo) attraversamento a doppia mandata visuale-verbale di Napoli dipinto in Doppio scatto: la verticalità della città partenopea, «immutabile e mai ferma»[30], suggerisce peculiari posture, traiettorie, versi, motivi; a volte estranei, a volte fratelli, della densità di pensiero e movimento che – ora si addensa, ora si scioglie – nei più disparati luoghi: perlopiù orizzontali, di confine, a specchio o avvolti, contornati, da una più o meno visibile, geometrica-e-caotica, oltrepassabile catena di Terra naturale-artificiale. Ma, in maniera ancora più radicale, non bisogna dimenticare – come si è tentato di mostrare – che la terrestrità dell’uomo sia, in prima battuta, un concetto-scenario d’ordine ontologico: «La vita, l’essere vivi, è per ogni organismo biologico il frutto di relazioni con l’ambiente circostante. Questo vale per la dimensione microscopica delle cellule […] fino al livello macroscopico dei singoli organismi […]. Tuttavia, per noi essere umani, il mondo non è solo agito, ma anche rappresentato»[31].
4. Siamo figli della terra: sull’esperienza e traduzione parziale di una totalità intotalizzabile
Da questa più estesa prospettiva – almeno in questa sede – si intendono inquadrare le parole del geografo francese Eric Dardel che, pur riconoscendo una certa insondabilità del rapporto che intercorre tra uomo e terra, chiosa: «La terra, come base, è l’avvento stesso del soggetto, fondamento di ogni coscienza che si svegli a se stessa»[32]. E – prosegue Dardel – in quanto base, la Terra si configura «non soltanto» come un «punto di appoggio spaziale e supporto materiale» ma anche in termini di «condizione di ogni “posizione” dell’esistenza»[33]. È quanto di radicale, paradossale e problematico – nonché di indebitamente obliato – si sprigiona dall’espressione «siamo figli della Terra», impiegata da Sini per riferirsi ad un complesso intreccio di pratiche, vicende, scenari che si co-costituiscono a più livelli: dal fatto che l’uomo erediti «la potenza del mondo», essa stessa materia delle «nostre verità viventi» e, dunque, «il sottinteso del suo stesso articolarsi nei saperi», alla constatazione per la quale «tutto quello che sappiamo l’abbiamo imparato dalla Terra»[34], incluso ciò che si sta dicendo. E non solo ed esclusivamente per ciò che attiene l’orientamento – o senso geografico – che, a quanto pare, «ci venne da subito, almeno da quando scendemmo dagli alberi»[35] e osservammo terra e cielo; ma anche in relazione al linguaggio che, secondo Sini, «abbiamo imparato» nel caotico avvicendarsi intrecciato di «abiti viventi, […] procedure dotate di successo, […] comportamenti collettivi, […] fortune operative. E grida, e gesti e sguardi. E pianti e inni, e delle Parche il canto»; da lì in poi la vox significativa, esito mobile di un cammino e, al contempo, interfaccia d’accesso ad un «reale» che «è il da farsi e le sue cicatrici» che «sono i fatti»[36]. Così, anche i più strenui sostenitori dell’effettiva esistenza di uno scarto netto e dirimente che dividerebbe, sul piano linguistico, Homo Sapiens e gli animali non umani, riconoscono che – nonostante tutto – il linguaggio non sia nato dal nulla[37].
Linguaggio che, parlandoci[38], “parla” del corpo ma, soprattutto, da un corpo: che è l’irrevocabile, e di volta in volta attuale e peculiare, strozzatura di mondo in cui si configura un cammino onto-filo-genetico-ambientale plurimillenario e si configura, al contempo, come la prima e insopprimibile soglia di mediazione del reale; fenomeno complessivo, ben reso dalla cosiddetta «simulazione incarnata», fenomeno «responsabile di una “sintonia” tra chi osserva e ciò che viene osservato», inquadrabile come «il nostro corpo che guarda il mondo e lo incontra»[39].
Rimanendo sulla scia del corpo, è interessante notare che il filosofo italiano Massimo Cacciari risponda all’interrogativo «perché abbiamo bisogno di luoghi?», appellandosi a «qualcosa che attiene alla nostra stessa dimensione fisica più originaria […] alla physis nel senso più proprio»: «È mai concepibile uno spazio-senza-luogo se è vero, come è vero, che ‘resiste’ quel luogo assolutamente primo che è il nostro corpo?»[40].
Non esagera, probabilmente, allora neanche lo scrittore e poeta Franco Arminio a sostenere che «Noi siamo geografia, siamo terra scritta»[41] e, a tal proposito, si può aggiungere: terra scritta dal complesso di interazioni che costituiscono l’orizzonte che, per brevità e a varie scale, chiamiamo Terra; e terra ri-scritta, senza posa, nella frequentazione culturale e trasformazione operativa che facciamo della stessa. Nella costruzione, in altri termini, di paesaggi, nella cui etimologia[42] fermenta una gittata teorico-operativa che rende pienamente la portata del dispositivo relazionale che intercorre tra l’attuale figura assunta da Homo Sapiens e la Terra (nelle sue potenzialmente illimitate declinazioni in con-testi più o meno ampi): «fare-paese», gorgogliante e mai sopito atto di ri-semantizzazione di uno spazio astratto in un luogo intriso di significati che si innesta, pur sempre, in tutto ciò che semplicemente è. Un paesaggio dal quale, nell’incrocio biologico-culturale, proveniamo e verso il quale, asintoticamente ed ininterrottamente, ci muoviamo nel segno della perfettibilità. E che, seguendo la metafora del paesaggio come teatro costruita da Eugenio Turri, rivela un ulteriore aspetto dell’inestricabile e vicendevole rapporto che lega indissolubilmente – e già da sempre – uomo e territorio: quest’ultimo non riguarda solo o principalmente «la sua parte di attore, cioè il suo agire, trasformare la natura o l’ambiente ereditato, ma anche se non soprattutto il suo farsi spettatore. Infatti soltanto in quanto spettatore egli può trovare la misura del suo operare, del suo recitare, del suo essere attore che trasforma e attiva nuovi scenari»[43].
L’uomo, insomma, che dal proprio assetto spazio-temporale non può che dipendere, si precisa – a volte ingarbuglia – al variare della scala: dalla più ampia (a volte sommamente stretta) dipendenza biologico-culturale dalla Terra all’influsso di ogni mosaico in cui quest’ultima si frammenta-e-ricompone senza posa nello sguardo-e-gesto eco-tecno-simbolico umano, che non può che maturare esperienze parziali di una totalità intotalizzabile[44]. Parzialità che, paradossalmente, proprio poiché inoltrepassabile, non può che fungere da orma di ogni nostro ulteriore passo di un cammino che, da figli della Terra, siamo chiamati ad onorare nell’indomito esercizio dell’interrogativo «che cosa significa esseri umani?».
[1] M. Gualtieri, Ruvido Umano, Einaudi, Torino 2024, p. 35.
[2] Su ciò cfr. E. Kolbert, La sesta estinzione: una storia innaturale, a cura di C. Peddis, Neri Pozza, Vicenza 2014.
[3] A. Moresco, La specie folle, Feltrinelli, Milano 2024, p. 9.
[4] Ivi, p. 14.
[5] Su ciò cfr. S. W. Hawking, Le mie risposte alle grandi domande, a cura di D. Didero, Rizzoli, Milano 2018. Nel corso dell’opera appena citata, Hawking si esprime a più riprese sulla questione – «stiamo finendo lo spazio e l’unico rifugio dove andare sono gli altri pianeti» (p. 140) – paragonando il rifiuto di lasciare la terra al «naufragare su un’isola deserta e non provare nemmeno a fuggire» (p. 153). Se la possibilità di intendere il futuro in termini propositivi, secondo lo scienziato, non può prescindere dalla colonizzazione dello spazio – ultima frontiera per «unirci di fronte alle sfide comuni» (Ibidem) e «far rinascere l’entusiasmo […] per la scienza» (p. 155) – non manca comunque, nell’opera, accanto ad un accorato appello per l’incremento dei fondi destinati ai viaggi spaziali, la configurazione di una solida e realistica panoramica dell’attuale stato di cose in termini di effettiva possibilità tecnica di raggiungere scenari cosmici (più o meno) abitabili.
[6] Ivi, p. 57.
[7] È doveroso ringraziare Emma Spanò – acuta e sensibile osservatrice del mondo e studiosa di scienze biologiche – per gli innumerevoli spunti che mi ha restituito sul tema.
[8] Su ciò cfr. C. Impey, Mondi senza fine. Esopianeti e il futuro dell’umanità, a cura di C. Ghinamo, Apogeo, Milano 2024.
[9] Su ciò cfr. E. Intini, Bastano pochi giorni nello Spazio per alterare la biologia umana, Focus.it, 18/06/2024. Testo disponibile al sito: https://www.focus.it/scienza/spazio/bastano-pochi-giorni-nello-spazio-per-alterare-la-biologia-umana (consultato il 15/03/2025).
[10] Su ciò cfr. C. Sini, C. A. Redi, Lo specchio di Dioniso. Quando un corpo può dirsi umano?, Jaca Book, Milano 2018.
[11] Su ciò cfr. C. Sini, Inizio, Jaca Book, Milano 2016; M. Spanò, Danzare la vita. Verso una geografia dell’intelligenza emotiva, Lekton, Acireale 2025, pp. 205-217.
[12] R. Vecchioni, L’orso bianco era nero. Storia e leggenda della parola, Piemme, Milano 2025, p. 34. A tal proposito, diverse sono le teorie avanzate sulla (effettiva e ulteriormente potenziale) gittata del linguaggio. Nell’andamento chiaroscurale di questo ampio ventaglio di prospettive, occorre non dimenticare anche la proposta di chi si sofferma su un aspetto che è, al contempo, un ammonimento: la capacità d’astrazione concessa dal linguaggio restituisce tante occasioni propositive quante letali insidie. Su ciò cfr. A. Pennisi, A. Falzone, Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive, il Mulino, Bologna 2010.
[13] Su ciò cfr. C. Sini, Intelligenza artificiale e altri scritti, Jaca Book, Milano 2024.
[14] M. Mari, Locus Desperatus, Einaudi, Torino 2024, p. 28.
[15] E. Morin, Conoscenza Ignoranza Mistero, a cura di S. Lazzari, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 62.
[16] Ivi, p. 73.
[17] Su ciò Cfr. c. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
[18] T. Pievani, G. Remuzzi, Dove comincia l’uomo. Ibridi e migranti: una breve storia dell’avventura umana, Solferino, Milano 2025, p. 181. È sempre in quest’opera che sono riportate e discusse le più recenti teorie appena evocate, nella soglia d’incrocio tra sapiens, altre specie – dello stesso genere e non – ed ambiente (su ciò cfr. pp. 181-197)
[19] E. Montale, Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi, F. D’Amely, Mondadori, Milano 2016, p. 58.
[20] R. Vecchioni, L’orso bianco era nero. Storia e leggenda della parola, cit., p. 10.
[21] P. Daniele, Lazzari Felici in Musicante, Milano, EMI, 1984.
[22] Su ciò cfr. I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 2002.
[23] A. Giardina, C. Aiello, Terroir. Metafisica del territorio (e del vino), Pungitopo, Gioiosa Marea 2024, p. 19.
[24] Ivi, p. 46.
[25] Su ciò cfr. A. Berque, Essere umani sulla terra. Principi di etica dell’ecumene, a cura di M. Maggioli, M. Tanca, Mimesis, Milano-Udine 2021.
[26] Su ciò cfr. J. N. Entrikin, The Betweennes of Place. Towards a Geography of Modernity, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1991.
[27] Su ciò cfr. F. Parisi, La tecnologia che siamo, Codice, Torino 2019.
[28] Su ciò cfr. C. Sini, Filosofia e memoria. La vita come scrittura, il Saggiatore, Milano 2025.
[29] C. Sini, Peirce. Abduzione e cosmologia, in F. Cambria (a cura di), Lo spazio del segno, vol. I tomo I delle Opere, Milano, Jaca Book 2017, p. 257.
[30] S. Perrella, Doppio scatto. Una città riflessa, La Nave di Teseo, Milano 2024, p. 314.
[31] V. Gallese, S. Moriggi, P.C. Rivoltella, Oltre la tecnofobia. Il digitale dalle neuroscienze all’educazione, Raffaello Cortina, Milano 2025, p. 22.
[32] E. Dardel, L’uomo e la terra. Natura della realtà geografica, a cura di C. Copeta, Unicopli, Milano 1986, p. 42.
[33] Ivi, p. 41.
[34] C. Sini, Intelligenza artificiale e altri scritti, cit., p. 179.
[35] A. Vanoli, L’invenzione dell’Occidente, Laterza, Bari-Roma 2024. Sebbene, per «subito» non si intenda – in questa sede – nulla che possa essere anche solo assimilabile ad uno scarto im-mediato: sempre per lo stesso principio ogni «saper fare» e «saper dire» e, ancora più radicalmente ogni «poter fare» e «poter dire», co-emergono e si co-evolvono nelle peculiari quanto mobili coordinate spazio-temporali in cui sono situati. Su ciò cfr. A. Vanolo, La città autistica, Einaudi, Torino 2024.
[36] C. Sini, Intelligenza artificiale e altri scritti, cit. p. 179.
[37] Su ciò cfr. L. Pinna, Quattro ipotesi sull’origine del linguaggio. Dalla comunicazione animale alla parola, Codice, Torino 2024.
[38] Su ciò cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo., Mursia, Milano 1973.
[39] V. Lingiardi, Corpo, umano, Einaudi, Torino 2024, p. 6.
[40] M. Cacciari, La città, Pazzini Editore, Villa Verucchio (RN) 2004, pp. 37-38.
[41] F. Arminio, Caraluce. Atlante dei paesi invisibili, Rizzoli, Milano 2025, p. 211.
[42] M. Cortelazzo e P. Zolli, (a cura di), Il nuovo etimologico. Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 2021.
[43] E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia 1998, p. 16.
[44] Su ciò cfr. P. Furia, Spaesamento. Esperienza estetico- geografica, Meltemi, Milano 2023.