Gli imbecilli al tempo dei social network

di Paola Giordano

 

Tutto quello che vogliamo combattere fuori di noi è dentro di noi; e dentro di noi bisogna prima cercarlo e combatterlo.

Leonardo Sciascia, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia

 

Non li ha inventati il web: gli imbecilli esistono dalla notte dei tempi. Come l’istinto, quell’impulso innato nell’animale – e nell’uomo – che spinge, di fronte ad una certa situazione, a reagire in un determinato modo, con immediatezza e irrazionalità. Istintivamente, appunto.

«Nel linguaggio quotidiano con il termine imbecille si suole definire a titolo ingiurioso, chi, nelle parole e negli atti, si mostra poco assennato o si comporta scioccamente, senza garbo, da ignorante, in modo da irritare»[1]. Un concetto analogo all’espressione usata nei confronti di colui che, specie in passato, veniva ribattezzato – o meglio etichettato – come lo scemo del villaggio. In ogni paese, grande o piccolo che fosse, c’era sempre una persona che con il suo essere sempliciotto suscitava l’ilarità o, più spesso, l’indignazione dei suoi concittadini, combattuti tra il provare tenerezza e l’essere infastiditi e scocciati dai suoi ragionamenti infelici. Le sciocchezze che la sua bocca partoriva restavano confinate nella piazza, nella viuzza, nel caffè in cui venivano pronunciate. Di fronte alle sue idiozie si rideva o si annuiva, istintivamente, nella maggior parte dei casi per toglierselo dai piedi. Mai si tentava di rispondere, intavolando una discussione, men che meno lo si contraddiceva. Si sa: a lavare la testa all’asino si perde il tempo, l’acqua e il sapone. Era insomma una causa persa in partenza.

L’imbecille solitamente non aveva seguito proprio in quanto persona avente limitate capacità logiche e privo di buon senso. Le sue affermazioni non causavano alcuna reazione, né di dissenso né, tantomeno, di consenso.

Quella dell’imbecille non è stata dunque un’invenzione del web: sarebbe ingiusto attribuire alla ragnatela che virtualmente ha connesso il mondo questo merito.

Il merito del web, semmai, è un altro: ad esso si deve l’aver – ahinoi – alimentato dell’imbecille l’ego. In una misura spropositata, offrendogli un palcoscenico vasto, multiforme, in continuo divenire: i social network. Un palcoscenico che fino ad allora non aveva mai osato calcare. Per timore, per imbarazzo, per inconscia consapevolezza dei propri limiti

Si badi bene: tutti abbiamo dei limiti oltre i quali non possiamo andare. Siano essi spaziali (non possiamo andare su Marte, per lo meno finora), temporali (non viviamo in eterno), giuridici (non possiamo invadere la proprietà altrui), o meramente quantitativi. Il vocabolario Treccani definisce il termine “limite” come «confine, linea terminale o divisoria» ma anche, in senso più astratto, come «termine spaziale o temporale o comunque quantitativo che non può o non deve essere superato, o il cui superamento ha per effetto un mutamento di condizioni»[2].

Ci sono poi i limiti della mente, quei concetti che non riusciamo a spiegarci, che fatichiamo a digerire perché lontani dalla nostra forma mentis – o semplicemente sconosciuti ad essa – e che, non di rado, vanno a braccetto con la paura perché a spaventarci è spesso ciò che non sappiamo decifrare, che non conosciamo o riconosciamo come familiare e che, pertanto, ci blocca, ci frena, ci limita.

Nel corso dell’incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, il 10 giugno di ormai cinque anni fa, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” per aver «arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica»[3], Umberto Eco ebbe a dire parole che suscitarono allora – ed in realtà ciclicamente anche dopo – un polverone mediatico che in qualche modo confermò quanto da lui affermato:

 

I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.[4]

 

Un’invasione che oggi ha raggiunto limiti che sembravano invalicabili. Limiti, di nuovo. Questa parola, nelle sue molteplici sfaccettature, tornerà spesso in questo articolo. 

I commenti indirizzati alla senatrice a vita Liliana Segre – specie dopo l’istituzione della Commissione parlamentare di indirizzo e controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza da lei fortemente voluta – ne sono un esempio lampante.

Nel 2019 l’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea ha registrato 251 episodi di antisemitismo, un numero nettamente superiore rispetto a quello del 2018 (197). I dati riportati nella relazione annuale “Antisemitismo in Italia 2029” costituiscono una sottostima del fenomeno perché riflettono le denunce esplicite e non la moltitudine di casi che restano ignoti: «È più facile avere notizia degli atti più gravi mentre le offese verbali o scritte vengono più raramente denunciate». Nel corso dello scorso anno – si evidenzia nella relazione – i picchi di eventi antisemiti sono stati rilevati attorno al Giorno della memoria e, per l’appunto, in occasione dell’istituzione in Senato della Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza[5].

La senatrice è stata bersagliata – e continua ad esserlo – da attacchi politici e religiosi, da insulti e maldicenze per il semplice fatto di essere una donna di confessione ebraica sopravvissuta – e dunque testimone – agli orrori del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

A seguito delle minacce via web – che si sceglie qui di non riportare – e dello striscione di Forza nuova esposto nel corso di un appuntamento pubblico cui partecipava a Milano, il prefetto di Milano Renato Saccone ha deciso di assegnarle la tutela. Il limite di una donna di 89 anni che, suo malgrado, è costretta, a causa dei cosiddetti haters (odiatori), ad essere costantemente accompagnata dalle forze dell’ordine per essersi battuta affinché venisse costituito un organo che controllasse i dilaganti sentimenti di odio nel nostro “Bel” Paese, è agli occhi di chi la contesta l’essere ebrea e l’aver vissuto l’orrore dei campi di sterminio. Un orrore di cui lei, come chiunque altro ad esso è sopravvissuto, porta ancora i segni. Marchiati con l’inchiostro sulla pelle e scolpiti nella mente.

Uno di quei segni rimasti impressi nei suoi ricordi è il momento del suo ingresso a Birkenau, nel febbraio 1944:

 

Entrammo nel lager e ci trovammo di fronte a quella che ci parve un’allucinazione: vedemmo centinaia di donne-scheletro rapate, vestite a righe, che trascinavano bidoni, pietre, mentre schiere di diavolesse, le SS donne, le picchiavano selvaggiamente aizzando i cani contro di loro, in una furia di elementi, di fischi, di vento, di latrati… Era un inferno fatto di ghiaccio. Il fuoco lo avremmo conosciuto dopo, quello dei crematori.[6]

 

Liliana Segre, insieme a quanti subirono la deportazione, venne privata dell’essere individuo. Dopo averle inizialmente risparmiata, per pura casualità, l’umiliazione di essere “spogliata” anche dei capelli, diventò un numero, il 75.190[7], la cui vita ruotava solo attorno al momento in cui le davano da mangiare. E ciò, spiega la senatrice nel libro in cui ha raccontato quell’orrore che andava oltre la sua capacità di comprensione[8], voleva dire che si era scesi al livello delle bestie[9]. Non era così in realtà e il perché lo si trova in un altro passo del libro. I tedeschi, ormai coscienti dell’imminente sconfitta, costrinsero i pochi sopravvissuti a marciare verso nord. Quando ebbero la consapevolezza che la zona stesse per cadere sotto il controllo russo, abbandonarono armi e divise e iniziarono a cercare abiti civili per poter scampare alla cattura.

 

Ricordo di aver visto il capo del campo buttare la pistola per terra. Era un uomo terribile, crudele, che picchiava selvaggiamente le prigioniere, e in quel momento una parte di me avrebbe voluto raccogliere la pistola e ucciderlo. Fu un istante di vertigine, durante il quale mi sembrò che si fossero invertite le parti: forte io e debole lui. Guardavo l’arma, feci per prenderla convinta di potergli sparare, sicura che ne sarei stata capace. La vendetta mi sembrava a portata di mano.

Ma di colpo capii che non avrei mai potuto farlo, che non avrei mai saputo ammazzare nessuno. Questo fu l’attimo straordinario che dimostrò la differenza tra me e il mio assassino. E da quel preciso istante fui libera.[10]

 

Un Paese in cui, permettetemi di osservare, non si riesce a provare il senso più nobile della parola pietà[11], tutto è fuorché “bello”. È un Paese, il nostro, che ha perso quanto di più caro possa identificarlo: la propria civiltà. Perché il problema degli attacchi a Liliana Segre non si limita a meri insulti sul web: l’offesa virtuale può innescare una spirale viziosa, diventando lo strumento atto a raggiungere l’obiettivo cui si vuole approdare. Se l’insulto – per usare il linguaggio dei social – riceve molti like, nella testa dell’autore può scattare l’infausto meccanismo per cui quei like equivalgono al consenso sull’idea espressa e dunque ad una popolarità in ascesa, tale da giustificare e supportare la messa in pratica dell’odio covato. Si prendano in considerazione, a tal proposito, gli episodi meramente vandalici relativi alle scritte sulle porte di abitazioni degli ebrei.

Se poi, come purtroppo è accaduto, quegli episodi vandalici, di matrice antisemita nel caso appena citato, raccolgono plausi e finiscono sui social, producono un traffico mediatico attorno alla vicenda che, inevitabilmente, ne accresce la visibilità e dunque la popolarità.

L’antidoto al dilagare di fenomeni come questo è puntare proprio su quello che si sta perdendo, il senso civico, e difenderlo con gli stessi strumenti degli odiatori seriali. Come ha fatto il primo cittadino di Milano, Beppe Sala, che in risposta alla scritta apparsa sulla porta di casa di Aldo Rolfi, figlio della partigiana Lidia Beccaria Rolfi, a Mondovì (Cuneo) ha risposto pubblicando una foto su Instagram con la scritta «Antifa Hier» («Qui vive un antifascista»).

Non è sempre facile contrastare l’odio, specie in un Paese come il nostro, in cui non si riesce a partecipare al dolore di chi ha sofferto o soffre. È un’Italia in decadenza. Socialmente e culturalmente. Come spiegare altrimenti la campagna di odio che ha travolto Silvia Romano, giovane cooperante milanese rapita in un villaggio del Kenya il 20 novembre 2018 e tenuta prigioniera per un anno e mezzo, insultata per essersi convertita alla religione islamica? Si è arrivati perfino a minacciarla di morte tanto che gli inquirenti milanesi hanno avviato un’indagine per identificare gli autori delle minacce sui principali social network e verificare eventuali legami tra loro e ambienti dell’estrema destra.

In che modo combattere l’imbecillità che dilaga sui social network? Non con la stessa moneta – il linguaggio scurrile, spesso trasudante ignoranza – bensì ignorandola. O rispondendo con l’unica arma che spiazza l’odiatore sociale: il garbo, la gentilezza, l’educazione. Come, ad esempio, ha fatto la senatrice Monica Cirinnà di fronte ad una utente che, celandosi dietro un nomignolo (peraltro di dubbio gusto), le aveva augurato un cancro. Questa la risposta della senatrice all’indelicato augurio:

 

Grazie !! ma stia tranquilla sono stata operata già 2 volte alla mammella sinistra e sono ancora qui. Conosco il dolore e la paura di morire. Piuttosto lei rifletta su quanto odio ha dentro di se, quello si che può farle del male. io la ignoro felicemente![12]

 

Non lasciarsi sopraffare dalla collera per un insulto sui social network è dunque la prima regola (e probabilmente l’unica): i leoni da tastiera non aspettano altro. Per il solo fatto di aver accesso a quella che – per chi sa usarla – è una fonte inesauribile di sapere, il web, si concedono il diritto di sentenziare su tutto e tutti, ergendosi a tuttologi. Basta leggere qualche titolo sparso qua e là per diventare medici, avvocati, fisici, ingegneri, in barba agli anni di “studio matto e disperatissimo” – per usare una nota espressione leopardiana – di quegli sciocchi che hanno “perso” anni sui libri. Se poi quei titoli letti a caso e con alta probabilità condivisi sui propri profili social si rivelano precorritori di notizie false cosa importa?

Il web è sì una fonte preziosa ed immensa di conoscenza cui oggi più di ieri si può attingere in ogni luogo e a qualsiasi orario ma può rivelarsi anche un nemico della verità. È facile lasciarsi ingannare dall’attrazione di odisseica memoria[13] di un titolo ben congeniato, intriso di parole che arrivano dritte alla pancia di chi lo legge. Bisogna però andare al di là del titolo e soprattutto valutare l’attendibilità di quello che si legge, di chi lo scrive, delle fonti citate a supporto di quanto affermato. Solo così ci si può salvare dall’essere quello scemo del villaggio che millanta di conoscere tutto ma che in realtà si affida al contrario di quel tutto: il nulla.

 

 


[4] Ibidem.

[6] E. Mentana, L. Segre, La memoria rende liberi, Bur, Milano 2015, p. 101.

[7] Ivi, p. 102.

[8] Ivi, p. 95.

[9] Ivi, p. 115.

[10] Ivi, p. 144.

[11] «Sentimento di affettuoso dolore, di commossa e intensa partecipazione e di solidarietà che si prova nei confronti di chi soffre». http://www.treccani.it/vocabolario/pieta. Consultato il 25.05.2020.

[13] Il riferimento è al canto delle sirene che tentarono di ammaliare Ulisse nel corso del viaggio di ritorno ad Itaca.

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