Arthur divenuto Joker

di Enrico Palma

Joker

Stati Uniti d’America

2019

Regia di Todd Phillips

Con: Joaquin Phoenix (Arthur Fleck/Joker), Robert De Niro (Murray Franklin), Zazie Beetz (Sophie Dumond), Frances Conroy (Penny Fleck), Brett Cullen (Thomas Wayne)

 

Lo scopo della vita è lo sviluppo del proprio io: realizzare perfettamente la propria natura è il motivo per cui siamo qui.[1]

 

Il primo tema che si profila all’apertura del sipario è l’immondizia. Mentre ascolta questa notizia alla radio, Arthur Fleck si trucca per scendere in strada a sventolare allegramente il cartello pubblicitario di un negozio. Come la mamma gli ricorda sempre, svolge il suo lavoro per portare felicità nel mondo, far ridere e sorridere. È difficile solo poterlo pensare, ancor più difficile inserire questo stato d’animo nella pratica quotidiana. Arthur, come contrappasso al suo desiderio di bontà, viene infatti picchiato, marginalizzato e deriso continuamente. Un clown dovrebbe suscitare la risata invece che esserla lui stesso.

Soffre di un disturbo assai curioso, per scusarsi del quale mostra alla gente incredula un biglietto in cui ne spiega la natura: attacchi incontenibili di riso. È l’esatta espressione del detto ridere per non piangere. Il riso è la maniacale reazione di Arthur agli attacchi di tristezza che, anziché prorompere in lacrime, si tramutano in un inquietante e scomposto sghignazzare.

È uno psicotico, scostante e represso rifiuto sociale: vuole far ridere ma viene preso a calci; vuole far sorridere i bambini ma le madri lo respingono; vuole ricevere affetto ma ciò che ha in cambio è invece odio e violenza. La beffa spiraliforme della serie di incidenti e raggiri, in cui non ha colpa apparente ma per i quali viene sistematicamente punito, accumula in lui una tensione che erompe nel plurimo omicidio sul tram: tre giovanotti di successo e dipendenti della Wayne Company molestano una giovane; Arthur, colmo di disprezzo per la scena a cui è costretto ad assistere, cede a uno dei suoi soliti attacchi di riso che viene male interpretato dai cialtroni; troppo stanco per dover continuamente subire e rimanere inerme, all’ennesimo calcio allo stomaco, Arthur inforca la pistola e li finisce tutti a bruciapelo.

Un uomo folle non può accudire una madre, non può vivere da solo, non può far ridere i bambini, non può detenere un’arma, non può difendersi. C’è tutta una serie di cose che un pazzo non può o non potrebbe fare, eppure la chiusura, l’incomprensione e l’abbandono hanno esacerbato il male, hanno reso Arthur un mostro. Il pagliaccio che uccide freddamente i giovanotti spocchiosi e arroganti – simbolo del sistema sordo ai bisogni dei diseredati – assurge a contro-simbolo della rivolta violenta e a maschera di rivalsa.

Arthur, adagio, continua intanto a salire la sua scala per appropriarsi di se stesso. Il film ne è pieno, in discesa e in salita: è quella del luogo di lavoro, dell’ospedale psichiatrico Arkham, della metro, per tornare a casa e, infine, per divenire trionfalmente ciò che è. Arthur, apprendendo il suo passato e la storia che il delirio della madre aveva costruito dalla sua infanzia, approda al fatto, a ciò che può fare e a come farsi notare, e diventa una scheggia impazzita che colpisce chi vuole senza volere e senza neanche farci troppo caso. È il lento percorso di trasformazione di Arthur: da spettatore inosservato a protagonista principale e padrone della scena.

Voleva fare il comico. In uno spettacolo di cabaret pronuncia difatti la battuta più appropriata, quella più vera: da piccolo voleva far ridere la gente ma ora che fa il comico non ride nessuno. Uccide la madre bugiarda e psicotica, uccide il collega primo responsabile del suo licenziamento venuto a fargli visita, lascia andare l’omino che a suo dire era stato l’unico gentile con lui.

Invitato allo show televisivo più amato da lui e dalla madre, il bozzolo si trasforma in una farfalla variopinta, come il suo viso truccato. Quello stesso show, quel Murray Franklin a caccia di fenomeni con cui fare audience, lo battezza con il suo nuovo nome, lo chiama Joker. È il sistema stesso ad aver generato il suo germe distruttore. Lì fa il suo ingresso trionfale: Arthur divenuto se stesso, divenuto Joker.

Ecce homo!, allora, sentenza a cui Friedrich Nietzsche avrebbe aggiunto: «Wie man wird was man ist», come si diventa ciò che si è. Joker confessa in diretta i suoi crimini e anziché suicidarsi, cercando un senso alla sua vita in una morte autonomamente decretata, urla in faccia il senso del suo divenire, il come è potuto diventare questo mostro agghiacciante e ghignante. Parafrasando le sue parole, questo è ciò che succede quando un malato di mente viene lasciato solo dalla società e trattato come immondizia.

Joker è l’agente del caos, dell’anarchia contro il sistema, degli emarginati al potere, del disordine che sferza gli esecutori di un ordine bugiardo e che con folle risentimento gli ritorce contro la sua stessa volontà di potenza. Joker è la conquista filosofica e sanguinaria del mondo. Perseguitato dall’essere felice a tutti i costi e dal dover comunicare questa stessa falsa felicità al mondo, Joker, giunto alla comprensione, ne decreta l’inconsistenza, l’insensatezza, il suo morire. Joker è la felicità, divenuta burla, di una società umana alla sua continua ricerca e che per proteggere se stessa dalla pazzia emargina tutti gli Arthur Fleck. Ma di fronte a un Joker così è invece tutto il resto a essere follia.

Il Joker di questo film sembra fedelmente adombrare lo Zarathustra nietzscheano del capitolo Vom höheren Menschen, tradotto in Dell’uomo superiore. Arthur vive in un grande mercato, proprio come Zarathustra all’inizio del testo nietzscheano disceso dalla montagna e giunto tra la plebe. Essa lo sottomette, lo deturpa, lo svilisce continuamente. Egli ancora non sa di essere un uomo superiore, colui che con coraggio ha ucciso Dio, simulacro dei valori razionali ed egualitari. Al termine della sua crescita, a conclusione del suo cammino, Arthur divenuto Joker è l’uomo che ha superato se stesso. Non si dimena più nelle falde melmose di un assistenzialismo rovesciato, di politici che promettono ma che nulla operano (Thomas Wayne), di genitori ammalati la cui follia ha costruito improbabili progetti di realizzazione di sé. Joker pone da sé e risponde con sé alla domanda di Zarathustra: «Come può essere superato l’uomo?»[2].

La città di Gotham, la società di cui Joker è un reietto, uno scarto, un mostro insulso e incomprensibile, non ha cura del prossimo, del miserrimo, del più sofferente, del migliore. La società che uccide Arthur e che fa sorgere Joker è la donna gravida da cui nasce lo Übermensch. «Gli uomini del grande disprezzo sono, infatti, quelli della grande venerazione»[3]. Chi viene disprezzato sarà presto venerato, ed è ciò che accade a Joker nell’ultima scena, adulato dalla folla per la quale è ispiratore, lume e icona. Dalla caduta ha potuto risorgere. «Voi creatori, uomini superiori! Si è gravidi solo per il proprio figlio»[4]. Arthur è gravido solo di suo figlio, il figlio che è egli stesso, la creatura che porta in grembo e che infine diviene Joker, qualcosa che non è più un uomo, né un umanoide, ma qualcosa di più, una febbre di violenza e follia che fa soccombere tra le fiamme tutta la città. Arthur era malriuscito (mißriet), ma da quando ha smesso di essere un uomo per divenire Joker ha coraggio, disprezzo, furore, passione. Il riso si è totalmente impossessato di lui.

Dice Zarathustra: «Imparate a ridere di voi come si deve! Uomini superiori, oh quante cose sono ancora possibili!»[5]. Alla folla osannante Joker sembra rivolgere questo invito, questo convinto comando. Il riso, fin lì da nascondere, rigettare e ripugnare, deve riempire i loro cuori di giubilo, sgorgare di gioia, ultimare la loro Verwandlung, la loro trasformazione. Arthur è la transizione e il tramonto di se stesso; Joker l’aurora del nuovo sorgere in un perenne sorriso, in una risata senza fine. «Tutte le cose buone ridono»[6], e la loro bontà prorompe a suon di disordini e guerriglie. «La corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: io stesso ho posto sul capo questa corona, io stesso ho santificato la mia risata»[7]. La lucida follia di questo clown, il suo percorso evolutivo segnato da abbandoni, menzogne e ripulse, termina con un’acclamazione, la città in preda al delirio, l’omicidio dell’espropriatore Thomas Wayne, una danza generale in cui la risata è il marchio dell’alba del nuovo giorno.

«Questa corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: a voi, fratelli, getto questa corona! Io ho santificato il riso; uomini superiori, imparate da me – a ridere»[8]. Joker è il santo novello di questo vangelo rinnovato e invita gli altri a imparare, danzare, ridere e sorridere. Ha compiuto il suo cammino, può adesso testimoniare al mondo come si diventa uomini superiori.

«L’umanità si prende troppo sul serio: è questo il peccato originale del mondo. Se gli uomini delle caverne avessero saputo ridere, la Storia avrebbe avuto un altro corso»[9]. Così avrebbe detto il Lord Henry wildiano. Sarebbe stata, forse, una Storia meno umana, un destino di umani folli e in qualche modo superiori poiché avrebbero saputo cos’è il riso.


[1] O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray (The picture of Dorian Gray, 1890), a cura di B. Bini, Feltrinelli, Milano 2006, p. 30.

[2] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (Also sprach Zarathustra, 1885), nell’edizione critica «Opere complete» a cura di M. Montinari, vol. VI, tomo I, Adelphi, Milano 1986, p. 349; «Wie wird der Mensch überwunden?».

[3] Ibidem; «Die großen Verachtenden nämlich sind die großen Verehrenden».

[4] Ivi, p. 353; «Ihr Schaffenden, ihr höheren Menschen! Man ist nur für das eigne Kind schwanger».

[5] Ivi, p. 355; «Lernt über euch lachen, wie man lachen muß! Ihr höheren Menschen, o wie vieles ist noch möglich!».

[6] Ivi, p. 356; «Alle guten Dinge lachen».

[7] Ivi, p. 357; «Diese Krone des Lachenden, diese Rosenkranz-Krone: ich selber setzte mir diese Krone auf, ich selber sprach heilig mein Gelächter».

[8] Ivi, p. 359; «Diese Krone des Lachenden, diese Rosenkranz-Krone: euch, meinen Brüdern, werfe ich diese Krone zu! Das Lachen sprach ich heilig; ihr höheren Menschen, “lernt” mir – lachen!».

[9] O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, cit., p. 53.

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