Morte, terra e sacro nei dipinti siciliani di Caravaggio

di Enrico Palma

 

Le persone grandi sono meteore destinate ad ardere affinché la Terra possa essere illuminata.

Napoleone Bonaparte

 

L’attacco del tema in discussione può essere inteso in primis come luci meteoriche che di passaggio sulla Terra irradiano ciò che è circostante, in secundis come uomini che con il loro ardere divengono riferimenti stilistici o esistenziali per un’intera epoca. La parabola napoleonica potrebbe dunque venire accostata alla luce stellare di un altro personaggio del secolo, non politico ma artistico: Caravaggio. Sebbene l’importanza e l’uso della luce abbiano raggiunto livelli parossistici e rovinosamente inflazionati, l’elemento luminoso rimane uno dei principali della rivoluzione artistica e teoretica all’approccio naturalistico al reale. Come indicato da Longhi, inoltre, è inutile nascondere la spigolosità o – per meglio dire – la pericolosità del carattere dell’artista, le quali mostrano un uomo truce, oscuro e buio[1].

Attraverso questo indizio sottotraccia del critico e una rapida incursione nella ristretta selezione dei dipinti appartenenti all’ultimo periodo siciliano dei mesi compresi tra la fine del 1608 e i primi del 1609, si tenterà quindi di articolare un’ermeneutica dei testi pittorici dell’artista incentrata sui tumulti tenebrosi della produzione tarda.

 

Il seppellimento di Lucia 

 

Per la seconda volta in fuga e con un bando capitale emanato dallo Stato Pontificio – a cui è da aggiungere il secondo dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni – Caravaggio evade in modo rocambolesco dalle carceri maltesi e approda in Sicilia. L’itinerario seguito dal pittore è a tutt’oggi nebbioso nei particolari, con le due permanenze certe a Siracusa e a Messina attestate dalla realizzazione di tre fra i massimi capolavori della sua produzione e di tutto il Seicento pittorico.

Giunto a Siracusa e ospitato dall’amico pittore dei tempi romani Mario Minniti, su commissione del senato cittadino realizza un dipinto volto a declamare la grandezza della città siciliana e a rivendicare il culto della loro santa più venerata Lucia – martirizzata nel tardo IV secolo d.C. (princeps Diocleziano) e le cui spoglie erano state trafugate, condotte a Costantinopoli e infine tradotte a Venezia dove attualmente riposano.

Approfittando della presenza del maggiore pittore italiano, i siracusani commissionano una pala d’altare per la chiesa di Santa Lucia al Sepolcro, raffigurante l’adunanza della comunità cristiana sulle spoglie della martire: si tratta della scena svoltasi esattamente nel luogo in cui, in ossequio al martirio della Santa, la tradizione vuole che sia stata costruita la stessa chiesa che avrebbe dovuto ospitare il dipinto. Viene dunque rappresentato un seppellimento. In questo primo dipinto – di quello che potremmo chiamare un breve ma intenso ciclo di rappresentazioni – è individuabile il Leitmotiv di tutta la serie: la terra, indice congiunto di morte e sacro.

Il quadro, rispetto alle pale d’altare precedenti e tutt’al più contemporanee, nonché al resto della produzione caravaggesca, è insolitamente di grandi dimensioni. I personaggi della scena sono concentrati in basso, sovrastati da una verticalità oscura, opprimente e finanche macabra. Secondo la calzante definizione di Montanari il dipinto è «uno spettro»[2], per via dell’importante deterioramento occorso all’opera. I due facchini, intenti a scavare la fossa in cui inumare la Santa – un collegamento ideale tra fossa, altare e sepolcro storico di Lucia a Siracusa – sono a dir poco sconcertanti, non per la posa, le terga in mostra e la preponderanza fisica, bensì per le dimensioni sfasate nell’economia prospettica del dipinto: si ha l’impressione di due mitici giganti che, incalzati dall’armigero in disparte a destra che li induce a far presto, dissodano la dura e nuda terra con la loro forza possente. Tra i due tuttavia si apre un vuoto, un risucchio scenico che attira lo sguardo verso il diacono-vescovo con indosso il manto rosso, la «religiosa plebe che fa da corona alla salma della martire»[3] e in seguito Lucia stessa, un cadavere qualunque adagiato in orizzontale tra i corpi viventi invece eretti in verticale. Il corpo di Lucia richiama prepotentemente il «dipinto supremo»[4] La morte della Vergine, nel quale la posa analoga della Madonna è troppo evidente per lasciare il riferimento inevaso.

Le componenti teatrali del dipinto – già di per sé piuttosto attonito – che vi immettono dinamismo possono ritenersi marginali: il vescovo, l’armigero, l’uomo che porta la lanterna, gli omoni che scalfiscono il suolo. L’opera è un risultato così smagliante del cosiddetto materialismo naturalistico caravaggesco da assumere tratti persino surreali. A scavare la terra, imprimere la forza decisiva sulle vanghe dei facchini, impietosire il diacono e isolare il cadavere di Lucia, è l’ambiente pittorico, che certamente non è terso, né nebuloso, ma oscuro. Lo slancio delle dimensioni in verticale è congeniale a tale estetica tellurica per aprire una ferita nel terreno, uno squarcio in cui Lucia può finalmente ritornare. Scrive Graham-Dixon in merito:

 

L’iconografia dell’opera suggerisce ingegnosamente speranza e redenzione, ma il suo umore dominante è cupo. Nessun angelo è sceso dal cielo a inneggiare all’anima della martire portata in cielo. Quasi metà del dipinto è scura e nuda pietra: muro e arco che isolano e, nello stesso tempo, sembrano spingere verso il basso le figure affollate attorno al cadavere. L’immediatezza da istantanea dell’immagine, con i suoi effetti, estremamente innovativi, di ritaglio e occlusione, suggerisce alienazione e abbandono.[5]

 

Questo brano è particolarmente significativo per diverse ragioni. La speranza e la redenzione di cui ci parla Graham-Dixon promanerebbero proprio dalla morte resa al Signore Gesù Cristo – metafora di Pasqua di Resurrezione – e dal suo riconoscimento da parte della comunità cristiana riunita dinanzi alle spoglie spettrali di Lucia. Se il fedele accorso in preghiera andava in cerca di pace e di rasserenamento dei propri peccati per intercessione del dipinto, non era questo ciò che trovava. Lì, ai piedi di tutti, ci sta solo una fanciulla vessata, uccisa e in decomposizione.

È importante che anche Graham-Dixon segnali l’assenza di figure angeliche nel tripudio di buio che sovrasta i personaggi. Tuttavia, alla sua carenza documentaria sopperisce invece Montanari, che attingendo da Susinno (citato però più avanti anche dallo stesso Graham-Dixon), l’autore de Le vite de’ pittori messinesi e di altri che fiorirono a Messina, riflette sull’inserto angelico assente, desumendo da ciò la totale mancanza di elementi trascendenti. Potrebbe non esserci traccia della trascendenza testimoniata dagli angeli poiché: in quest’opera è come se nessun’anima andasse in cielo; il quadro non illumina un luogo celeste albergo degli ultimi sospiri; Caravaggio ammaestra su ciò che per necessità accade ai corpi, cioè ritornare alla terra. Il sacro, infatti, è proprio quel buio e quell’oscurità ctonie. Il buio del dipinto spinge verso il basso, verso l’infera terra, nella solitudine di quel corpo che deceduto dalla vita trapassa nella terrosità.

Non si ascende in nessun cielo; semmai, adagiandosi sul contorno orizzontale del terrestre, si discende. Come Lucia, infine, si muore, e si muore soli. La terra è la verità, e il dipinto caravaggesco non ne è che lo «spicco»[6]. La Lucia caravaggesca è una novella Antigone.

 

I dipinti messinesi

 

Consegnato il Seppellimento e lasciata Siracusa Caravaggio, forse braccato e con il fiato dei maltesi sul collo, si dirige in tutta fretta a Messina, punta estrema della Sicilia e porto ultimo verso la Penisola. Vi arriva alla fine del 1608, equipaggiato più come un militare che come un pittore. Una volta in città è presto detto che la notizia della sua permanenza si diffonda tra le famiglie notabili, sicché uno in particolare, il facoltoso mercante Giovan Battista della nota famiglia di origini genovesi de’ Lazzari, riesce nella difficile impresa di suscitare i favori dell’artista, commissionandogli un dipinto anch’esso di grandi dimensioni per «la cappella centrale della chiesa dei padri crociferi, una confraternita di ospitaleri dedicata alla cura degli infermi»[7]. Questa chiesa, infatti, veniva chiamata dai messinesi della buona morte o del buon morire. La trattativa mette d’accordo le due parti su controproposta dello stesso Caravaggio, optando per una Resurrezione di Lazzaro.

Se il dipinto precedente poteva definirsi allucinogeno o oscurogeno, quest’opera messinese può dirsi senza troppa difficoltà allucinata. La tentazione di definire questo dipinto il pendant del Seppellimento siracusano è molto forte, aggiungerei anche corretta. Nota Montanari che non a caso nel primo dipinto una morta viene sepolta e nel secondo un morto viene disseppellito. Come gli enormi manigoldi di Siracusa, le figure che campeggiano ai lati del quadro sono a destra una Marta velata prona sul fratello e a sinistra un Cristo statuario, quasi un calco del memorabile Messia della Vocazione di San Matteo della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma. Gesù ha il braccio alzato, immobile, proteso in avanti, e disteso in modo perfettamente orizzontale e parallelo al suolo. Il suo gesto è racchiuso nella mano, nel suo indice leggermente abbassato, diretto al corpo di Lazzaro in putrescenza ma in restituzione alla vita.

Riporto all’uopo un magnifico lacerto di una lettera di Rilke, che in modo mirabile descrive l’atto di Cristo:

 

La volontà di Cristo era certamente la stessa. Indicare. Ma qui gli uomini son stati come i cani, che non comprendono il cenno di alcun dito, e credono di dover agguantare la mano. Invece di proseguire oltre il crocevia, dov’era innalzato ormai un indicatore nella notte del sacrificio, la cristianità s’è accampata là sotto sostenendo di abitare ivi in Cristo, benché in esso non ci fosse alcuno spazio, neanche per sua madre, né per Maria Maddalena, come in ogni indicatore, ch’è un gesto e non un soggiorno.[8]

     

Questo brano descrive in maniera puntuale la scena della crocifissione, lasciando anche intendere come il messaggio cristiano sia stato in toto frainteso e fuorviato. Il testo rilkiano, tuttavia, può anche ben ispirare l’interpretazione di questo strepitoso dipinto. Cristo, attraverso la sua volontà significata dalla luce che promana dalla parte alta e sinistra del dipinto, è dunque ritratto nell’atto di indicare. Nessuno indugia sotto il suo gesto o guarda la sua mano, eccetto qualche incrocio di occhiate degli avventori intenti a sostenere il sepolcro divelto. La luce, seppure scarsa per via del feroce deterioramento, trafigge il corpo semivivo di Lazzaro al centro della scena; ha le braccia spalancate, il capo è amorevolmente poggiato sulle mani e la veste di Marta, e un uomo lo sorregge facendo leva sul ginocchio sinistro e imbracciando il sudario in cui il cadavere era avvolto.

La posa di Lazzaro è a dir poco straordinaria, per la ragione che sembra mimare – lui prefigurazione della morte e resurrezione di Cristo – un corpo affisso a una croce. Folgorato dalla luce, il redivivo sembra far cadere dalla mano sinistra un teschio e, con quella destra, accarezzare la luce che da Cristo si prolunga nella linea delle sue braccia fino alla morte sconfitta. I corpi vivi sono in verticale (compreso Cristo), i morti in orizzontale (si veda Lucia) e i semivivi (o i redivivi) invece in posizione trasversale, a metà tra la morte e la vita. Così descrive Longhi – che ritiene il dipinto solo di parziale autografia – la posa di Lazzaro: «Autografa vi è ancora la parte al centro con l’invenzione sublime del gesto di Lazzaro che stirandosi nell’emergere dal sonno eterno attraversa col braccio destro l’oscurità fino ad attingere, con la punta delle dita, la luce, e, più in basso, il corpo madido, il sudario agghiacciante e la funerea natura di tibie e teschi»[9].

La suggestione di Longhi induce a sostare ulteriormente sulle braccia di Lazzaro. Il sinistro in particolare, irrorato di luce e insieme nostalgico, pende verso il terreno. La mano aperta è ancora calda del tepore della madre terra da cui Lazzaro era stato tratto; essa implora i convenuti di arrestare la violenza della resurrezione ed esprime tutto il «dolore di ritornare alla vita» (Montanari). «Lazzaro è un cadavere emaciato e verdognolo, appena strappato alla tomba e apparentemente riluttante a destarsi dal sonno della morte»[10]. Improvvisamente privato del caldo grembo materno a cui finalmente Lazzaro era ritornato, una volta richiamato da Cristo, con uno sforzo sonnambolico difende la sua morte e invoca la pietà di essere lasciato nel «grande pozzo di tenebre»[11] in cui fino a qualche istante prima dimorava, dove non esistono gioia o sofferenza, felicità o dolore, ma solo serenità. Il grande pozzo che è anche e soprattutto l’intero quadro, i cui nove decimi sono nero bitume, «le tenebre della morte»[12].

Il tenebroso in questo dipinto non è la terra, né la calma a cui si perviene decedendo, è bensì il mondo dei vivi in cui il tragico di Lazzaro si condensa, in questa sospensione tra l’estinzione e la salvezza. «Mentre una mano tende verso la luce, l’altra è tesa verso il basso, verso la tomba»[13]. Longhi prima nelle sue poche ma potenti righe e Graham-Dixon poi, indugiano sulle mani di Lazzaro, in questa illuminazione controllata che si diparte da Cristo e alla quale, con la mano destra alzata, il corpo morto obtorto collo richiamato si oppone, mimando una commovente interdizione culminante nel braccio destro stavolta in ombra. Alludendo all’ultimo Goya delle Pitture nere, Montanari suggerisce un Caravaggio anche lui nero, perseguitato dalla morte e a cui probabilmente la vita stessa era divenuta un grave durare. Tale Stimmung, tale tonalità ombrosa, placida e comunque graffiata da una luce ostinata, è suggerita dall’uomo in punta di piedi nel quale è doveroso riconoscere lo stesso pittore: «Egli guarda fuori del quadro, fissa l’invisibile fonte della luce che penetra pulsante nel sepolcro, uno sguardo di struggente disperazione sul volto»[14]. La luce di Cristo richiama Lazzaro nuovamente al dolore, alla sofferenza e al male; con la morte vi aveva posto rimedio decomponendosi in terra e polvere, unito alle quali sarebbe stato sine die in serenità e pace.    

 

Il terzo e ultimo dei dipinti siciliani – al netto del Presepio (meglio noto come Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi) trafugato dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo nella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969 e datato al 1600 – è la comunque tenera Adorazione dei pastori, commissionata a Caravaggio dal senato messinese e allocata nel Museo regionale di Messina accanto alla Resurrezione. È curioso riportare la descrizione del dipinto di Susinno, il quale dice: «Tra le opere sue [di Caravaggio] a mio credere questa si è la migliore, perché in esse questo gran naturalista fuggì quel tingere di macchia, furbesco, ma rimostrossi naturale senza quella fierezza d’ombre»[15]. È straordinario notare come Susinno segnali la diversità tecnica e stilistica derivante dalla distanza dal «tingere di macchia» scura e dalla «fierezza d’ombre». Anche questa tela procede con uno sviluppo esasperato in verticale, impressione forse attenuata dalla recisione di un lembo della stessa per praticità spaziale di collocazione dell’opera[16].

Il dipinto, nelle parole di Longhi, è «umilissimo […] ed anche in esso [Caravaggio] intentò, più umanamente, il nuovo rapporto diramante tra spazio e figure»[17]. Il quadro è davvero più umano come Longhi afferma, nel senso che rispetto ai precedenti comunica una maggiore empatia, un trasporto emotivo che avvolge i pastori e li inclina verso il frutto del mistero dell’Incarnazione, anche in considerazione del fatto che, diversamente dalle altre, in questa tela non c’è nessun morto o apparente tale. Come molto opportunamente ricorda Montanari, è possibile ravvisare un’analogia stretta a doppio filo tra il dislocamento dei pastori e i personaggi occupanti tre dei quattro vertici della composizione romboidale de L’incredulità di San Tommaso della Bildergalerie di Potsdam.

L’incredulità degli sguardi, l’atto di tastare e di conficcare il dito sporco nella piaga del risorto, vengono sostituiti in questo dipinto più tardo dallo stupore dei pastori. Caravaggio mette a colloquio con lo stupore la reticenza di Maria, adagiata o più crudamente accasciata sulla mangiatoia, su cui si sostiene con il braccio destro, lo stesso con cui Lazzaro implorava di arrestare la sua traduzione nel mondo dei vivi. Anche Maria, come il semivivo, è in posizione trasversale. Lei è la Madonna del Parto della tradizione, colei a cui il travaglio non ha causato né dolore né sofferenza. Eppure, quel dolore e quella sofferenza si fanno sensibili nell’espressione di muta contrizione di Maria, la quale trattiene il figlio in prossimità del suo cuore di madre.

In questo dipinto non scorgo un presagio di resurrezione ma il penitente strazio di chi viene al mondo. La tragedia di questa nascita è il viso di Maria, la quale in modo assolutamente indolore ha messo al mondo la sacra sofferenza, e per questo ne sente la colpa, un tormento che gli umili pastori non possono avvertire. Graham-Dixon è più diretto nel suo giudizio: «A lungo trascurata, perché fuori dalle strade battute, è uno dei dipinti religiosi più diretti e angosciosamente emotivi del XVII secolo. Fosco e profondamente personale, è l’ultimo grande quadro della tormentata esistenza dell’artista»[18].

Caravaggio in questo dipinto riflette sull’evento più nefasto e criminoso della sua esistenza, il reato più grave di cui non era responsabile ma comunque colpevole: quello d’essere venuto al mondo con il nascere. Un dipinto cristiano d’effigie ma profondamente greco per passione. La grecità di questi riferimenti è certamente quella classica, dalle Troiane di Euripide al coro dell’Edipo a Colono di Sofocle, che riporto: «Non veder mai la luce / vince ogni confronto, / ma una volta venuti al mondo / tornare sùbito là donde si giunse / è di gran lunga la miglior sorte»[19].

Con la densità di questi versi si arriva al punto apicale di questa rapida escursione tra i dipinti siciliani di Caravaggio. Braccato da ogni lato, in doppia fuga per reati sanguinari, in lotta sofferente con il mondo, Caravaggio mostra che la luce di questi dipinti è proprio quella del nascere. È la luce dei vivi che sente di dover soffocare tramite una tavolozza sempre più ottenebrata e una teoresi terrosa. Il buio della morte, l’oscurità del mondo, la caduta, rendono questi dipinti così vicini e familiari alla tradizione gnostica, anche per la solitudine del morire, l’incanto del Messia da respingere, il nascere da redimere. Il pittore vede nella Vergine adorata la Madre Terra che lo prenderà e le braccia in cui trovare finalmente riposo. Tutti l’abbandonano ma non Lei, il sacro della serena maternità. Gli spettatori dell’Adorazione metaforizzati nei pastori «vedono l’abbandono in cui versano madre e bambino, ma non possono fare nulla per alleviarlo»[20]. L’unico sollievo è infatti la morte da ritrovare in questa scena – falso tripudio della Nascita – transitando per il Lazzaro liminale e infine retrocedendo a Lucia. Condivido pienamente la formula con cui Graham-Dixon conclude la sua analisi sul secondo dei dipinti messinesi: «Questa è l’ultima natura morta di Caravaggio. Queste sono fra le ultime sue pennellate realmente significative, eloquenti. È un dipinto quasi intollerabile»[21]. Se non fosse per la necessità di uno sguardo desideroso di comprensione ermeneutica che si posa su di esso, questo quadro sarebbe realmente di una gravità insostenibile.

 

Scorrere immoto

 

Caravaggio abbandona Messina per raggiungere nuovamente Napoli, da cui si imbarca su una nave di fortuna verso Roma: a seguito della revoca del bando capitale può infatti farvi ritorno. Interrompendo la navigazione il pittore, forse accerchiato da sicari o attanagliato da una febbre improvvisa, sbarca sulla spiaggia di Porto Ercole, dove facendo qualche passo si accascia morto a terra. Si può immaginarlo sulla sabbia esausto, svuotato, esangue. Questa sua ultima condizione può essere catturata da un convergente brano di Samuel Beckett, tratto dal primo della sua trilogia di romanzi Molloy: «Gran parte della mia vita si è infranta davanti a questa fremente immensità, al rumore delle onde grandi e piccole e degli artigli della risacca», a cui segue: «Nella sabbia ero nel mio elemento, la facevo scorrere tra le dita, vi scavavo delle buche che subito ricolmavo o che si riempivano da sé, la gettavo in aria a piene mani, mi ci rotolavo»[22].

La terra è l’elemento in cui sentirsi in una dimora, è quella terra che, scorrendo tra le dita, Caravaggio ha posto nei suoi straordinari dipinti, «abissi di tenebra e mistero doloroso»[23] ma vette di pensiero per chi invece li comprenda. Alla fissità terrestre il maestro lombardo ha contrapposto il suo fluire scontroso e mai stabile. Su quella spiaggia l’artista meteorico ha incontrato entrambe le cose, e i suoi dipinti, specie quelli terrosi, sono le sacre pietre che hanno resistito al divenire, all’incuria del tempo, al deteriorarsi.

Caravaggio, in tutti i suoi dipinti, e soprattutto in questi, finisce sempre per dipingere se stesso, i suoi demoni persecutori e la sua natura malsana. La sua pittura è una lotta irrequieta in cui l’oscurità insegue la luce. Ma è davvero tale, o viceversa? Una risposta, giocoforza provvisoria, può essere avanzata: la sua arte esibisce il mondo umano come sacralità luminosa dell’esistere e strenua opposizione al buio che la reclama, e i quadri analizzati ne sono tutti testimonianza. La luce di questo ardere, a chi sappia immettersi nel suo raggio e nella sua scia, dona chiarità e comprensione. La sua arte naturalistica, luminosa e scandalosamente verace esprime un segreto che anche Pavese deve aver compreso, e che credo il valent’huomo dell’arte figurativa Caravaggio avrebbe di certo approvato: «Non c’è niente che sappia di morte – continuò – più del sole d’estate, della gran luce, della natura esuberante. Tu fiuti l’aria e senti il bosco, e ti accorgi che piante e bestie se ne infischiano di te. Tutto vive e si macera in se stesso. La natura è la morte…»[24].

 

 


[1] Cfr. R. Longhi, Caravaggio, Abscondita, Milano 2013, p. 52. 

[2] Rimando al 10° episodio (La vita messa a nudo) del ciclo di documentari a cura di T. Montanari intitolato La vera natura di Caravaggio, felicissima produzione Rai dal notevole valore insieme scientifico e divulgativo. D’ora in avanti, dove esplicitamente citato, si intenderanno i rimandi a Montanari in riferimento a questa fonte.

[3] A. Zuccari, «La pala di Siracusa e il tema della sepoltura in Caravaggio», in L’ultimo Caravaggio e la cultura artistica a Napoli, in Sicilia e a Malta, a cura di M. Calvesi, Ediprint, Siracusa 1987, p. 152.

[4] R. Longhi, Caravaggio, cit., p. 68.

[5] A. Graham-Dixon, Caravaggio. Vita sacra e profana (Caravaggio. A life sacred and profane, 2010), trad. di M. Parizzi, Mondadori, Milano 2011, p. 376.  

[6] R. Longhi, Caravaggio, cit., p. 74.

[7] A. Graham-Dixon, Caravaggio. Vita sacra e profana, cit., p. 381.

[8] R.M. Rilke, Lettere a un giovane poeta. Lettere a una giovane signora. Su Dio (Briefe an einer jungen Dichter. Briefe an einen junge Frau. Über Gott. Zwei Briefe), trad. di L. Traverso, Adelphi, Milano 1980, p. 128.

[9] R. Longhi, Caravaggio, cit., p. 74.

[10] A. Graham-Dixon, Caravaggio. Vita sacra e profana, cit., p. 383.

[11] Ivi, p. 382.

[12] Ivi, pp. 382-383.

[13] Ivi, p. 384.

[14] Ivi, p. 385.

[15] F. Susinno, Le vite de’ pittori messinesi e di altri che fiorirono a Messina, a cura di V. Martinelli, Le Monnier, Firenze 1960, p. 112.

[16] Così Susinno a riguardo: «Il rimanente di questa tela consiste in campo nero con legni rustici che compongono la capanna: anzi il campo era più alto e ne fu tagliato un gran pezzo per potersi incastrare nella cappella» (ibidem).

[17] R. Longhi, Caravaggio, cit., p. 74.

[18] A. Graham-Dixon, Caravaggio. Vita sacra e profana, cit., p. 386.

[19] Sofocle, Edipo a Colono (Oidìpus epì Kolōnō), a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 2012, vv. 1224-1228, p. 365. Il corsivo è mio.

[20] A. Graham-Dixon, Caravaggio. Vita sacra e profana, cit., p. 387.

[21] Ivi, pp. 387-388.

[22] S. Beckett, Molloy (Molloy, 1951), trad. di P. Caroi De’ Resmini, UTET, Torino 1973, p. 99.

[23] M. Fagiolo, «Malta – Siracusa: Caravaggio al di là della vita», in L’ultimo Caravaggio e la cultura artistica a Napoli, in Sicilia e a Malta, cit., p. 376.

[24] C. Pavese, Il diavolo sulle colline, in id., La bella estate, Einaudi, Torino 1995, p. 114. I corsivi sono miei.

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