Ebbrezza e filosofia a Siracusa

 di Alberto Giovanni Biuso

(www.biuso.eu)

e Enrico Palma

 

I nomi degli dèi e dei mortali che dal χάος da cui tutto sgorga pervengono infine a Dioniso e a Penteo compaiono alcuni subito e altri a poco a poco sulla superficie spazzata dai passi e dal vento. Immediato è invece l’irrompere sulla scena delle Menadi con il loro grido dell’orgia, εúο, evoè! Le Menadi, le Baccanti, stanno al centro di questa corale messa in scena dell’opera di Euripide. Una scelta saggia a indicare il cuore collettivo della festa e della ferocia umane. Espresse mediante lo spazio totale del teatro, lo spazio del teatro che si fa totale – Gesamtkunstwerk – attraverso i suoni, le percussioni, le danze, le voci che restituiscono la gloria degli dèi e la loro forza, antiche come il tempo. I suoni in crescendo e incalzanti stimolano l’attesa per l’euforico incontro con il dio, lo scatenamento da se stessi e l’affido del proprio senno a Dioniso. E soprattutto, tratto caratterizzante la Fura dels Baus, mediante le imponenti macchine che portano attori e personaggi per l’aere, nelle contrade assolute, nell’aperto spazio del mito che dalla terra sale al cielo e poi dal cielo ridiscende nella polvere. I due principi del mondo sono infatti Demetra, la terra, il secco e Dioniso, l’umido, il succo della vite che dà ai mortali l’oblio dei loro mali. Non esiste altro rimedio al dolore d’esserci e del fare. Sia al povero sia al ricco, Dioniso concede il piacere del vino che libera dal dolore. 

Lo spettacolo induce a pensare infatti ad alcuni magnifici versi dell’ultimo sonetto a Orfeo di Rilke, che recitano: «Geh in der Verwandlung aus und ein. / Was ist deine leidendste Erfahrung? / Ist dir Trinken bitter, werde Wein»[1]. Entrare e uscire nella e dalla metamorfosi, trasformazione, esaltazione generate da un’energia incontrollabile. E alla domanda su quale sia la cosa che più ci faccia soffrire, che ci dia affanno e sconforto al punto da renderci la vita insostenibile, il grande poeta delle Duinesi non risponde, ma dà un suggerimento: diventare vino

Quel vino che è al centro della tragedia euripidea, che offre un sollievo al dolore e libera lo spirito. Se ti è amaro il bere, che altro non significa se ti è amara la vita, non cercare alcuna bevanda, perché questa non ti disseta, ma diventala tu stesso. Rilke, alla luce di Baccanti, invita chiaramente a diventare ebbrezza, a diventare dèi. Ed è questo che fanno le donne e gli uomini di Tebe, diventano dèi, invasati da Dioniso al quale si inchinano tutti, per timore e tremore o per convinzione, tranne il protervo Penteo, il re della città. 

 Astemio, stitico, schematico e ultramoralista, Penteo non riconosce questa leggerezza, entra in scena portando con sé tre pesanti massi, offende, disprezza e illusoriamente incatena lo Straniero che parla in nome di Dioniso, lo Straniero che è Dioniso. E ciò si evince anche dalla comunque poco convincente interpretazione che il regista ha scelto di assegnare a Penteo, il quale ben lungi dall’essere il re apollineo e incarnazione della testa che campeggia sulla scena come simbolo di razionalità e comando, e che giustamente subiva ogni tanto scossoni da parte dalle corna del Dioniso/toro, è sembrato invece un’incomprensibile donnicciola capricciosa, viziata e repressa, che il bacio di un gemello Dioniso-donna converte ai baccanali per preparargli la più fredda delle vendette. La furia del dio, la sua vendetta, come si sa, saranno terribili. E meritate. La testa/prigione che domina sin dall’inizio la scena si trasforma nella testa vuota di un mortale che non vuole capire la forza inarrestabile del desiderio, del sesso e del sorriso, rimanendo nella tristezza dell’autocontrollo, della castità e della smorfia pudica intrisa di paura. Per diventare infine la testa mozzata e insanguinata che la baccante Agave mostra con gioia dopo aver fatto a pezzi il proprio figlio. 

Carlus Padrissa e la Fura dels Baus sono stati da sempre euripidei, da sempre utilizzano l’άπό μηχανής θεός, il deus ex machina che fa scendere, muovere e salire l’umano e il divino nello spazio della scena. Il loro Imperium, ad esempio, era costruito come spazio affollato dagli spettatori, direttamente coinvolti nelle vicende e nella violenza rappresentata. Uno spazio dentro il quale si elevano piramidi, gru, corde. Da queste geometrie si staccano i soggetti del dominio, nel doppio genitivo di chi ordina e di chi subisce. Donne dai cui corpi si sprigiona la sensualità, l’implacabilità, la fecondità del comando. In Imperium la musica restituisce la raggrumata densità dei movimenti scenici, che sembrano tornare alla semplicità del gesto primordiale, quello che fonda insieme natura e civiltà, che dà e riceve morte, perché altro nelle cose non sembra darsi se non questa furia dei corpi. 

Era già quello dunque uno spettacolo dionisiaco che in Baccanti diventa un’enorme forma antropomorfa (Semele / Zeus) dal cui ventre esce il dio bambino, con l’attore/Dioniso che precipita investito dalle acque del parto che si rompono. Dinamismo che raggiunge il culmine in gru e corde con le quali il Coro e le Menadi si avvicinano e si allontanano, si addensano e si espandono, dando ogni volta forma e vita al fiore del cosmo pulsante di potenza e desiderio. «In forma dunque di vermiglia rosa / mi si mostrava la corale sacra / che nel suo sangue Bacco fece sposa», si potrebbe dire guardando la gloria delle Menadi librarsi e parafrasando per esse Alighieri (Paradiso, XXXI, 1-3). Peccato solo che Dioniso appaia coinvolto nelle vicende di Tebe con gesti e gridolini che nulla hanno ovviamente del dio, il quale «ς πέφυκεν έν τέλει θεός, / δεινότατος, άνθρώποισι δ ήπιώτατος; ‘è dio nel pieno senso, ed è terribile, ma più d’ogni altro con gli uomini è mite», come egli stesso tiene a dichiarare (Βάκχαι, vv. 859-861, trad. di Filippo Maria Pontani). Dioniso uccide sorridendo. In Euripide (e sempre) questo dio è una maschera ironica e distante, braccia spalancate, voce gorgogliante dall’inquietudine della terra. Una scelta di coinvolgimento isterico, come invece ha voluto qui il regista, è completamente sbagliata. Tale limite non inficia comunque la profondità e la bellezza di una messa in scena delle Baccanti imponente, coraggiosa e visionaria.

Grazie a questo spettacolo diventa inoltre comprensibile quanta tragedia ci sia in Baccanti, e come sia corretto l’appellativo dato a Dioniso di dio delle illusioni e distruttivo il suo potere se non si esercita cautela e moderazione. La tragedia è dunque, come accade quasi sempre nell’agone greco, una questione di famiglia, ma è tra Dioniso e Penteo che si consuma la tensione della vicenda, tra il dio che reclama venerazione e il re personificazione della βρις e che stoltamente vi si oppone. Perché allora se il dionisismo è via di liberazione accade quel che accade? Perché le spinte contrastanti di ebbrezza e ragione conducono alla distruzione della stirpe di Tebe, al dramma di una madre e di un nonno e alla sciagura di tutta la città? Penteo si era opposto a Dioniso, le Baccanti gli si erano invece fin troppo votate, sicché nella sfida tra i capi di queste due fazioni tutti hanno avuto un torto per cui piangere. 

Potente ed evocativa è la scena finale, come costruita sulle reminiscenze delle pietà michelangiolesche, specie della Bandini, il gruppo scultoreo nel quale la Mater Dei addolorata che sorregge il corpo del Figlio è a sua volta sostenuta dal Nicodemo/Cadmo. Dioniso, insieme ad Apollo e Ade, è una delle figure, specie nella primitiva iconografia del cristianesimo delle origini, di Cristo, il dio fatto a pezzi, bruciato e poi risorto, e soprattutto il dio del vino e della vitalità che libera dalla sofferenza. Il vino non è però bevanda di salvezza ma di distruzione, il sangue versato è quello della vendetta del dio e non di se medesimo che si immola per l’umanità redimendola dal peccato e dal dolore. Dioniso non redime, illude di gioia per colpire ancora più duramente coloro che lo avevano abbracciato. E infatti in conclusione, eretto sullo scranno e rivelatosi pienamente nella sua luce divina, dichiara proprio ciò a Cadmo mentre mostra alla figlia rinsavita il male che ha commesso, e cioè che troppo tardi egli è stato riconosciuto.

Se dovessimo ragionare come Kerényi indurrebbe a fare, ovvero per mitologemi, c’è una curiosa convergenza tra questo Dioniso absconditus di Baccanti, il Penteo che lo porta al suo cospetto, l’orda di fedeli che gli danza intorno e che compie i suoi riti sul monte, e il Cristo dei Vangeli. Se il modo migliore per intendere la sofferenza è un gradino verso il riscatto, verità che il Vangelo insegna, cosa sarebbe la vita umana senza l’ebbrezza? Quale vuoto dolore atterrirebbe gli spiriti condannando l’esistenza a una razionalità impudica che non sa farsi beffe e non sa ridere della sofferenza? Non dunque, come recita una nota formula nietzscheana, Dioniso contro il Crocifisso, bensì Dioniso e il Crocifisso, entrambi dèi dell’uva e della guarigione dal dolore. Ben più tragico sarebbe lo spirito del mondo se inteso sotto l’aura di questi potenti dèi, forse gemelli, e ben più pregnante sarebbe questo rapporto da indagare anche rispetto all’ormai celebre diade di apollineo e dionisiaco. Perché se ci si riflette sine ira ac studio, tale è il mistero di tutto l’Occidente così come lo conosciamo.

Nondimeno, restando nei limiti della tragedia siracusana, è ragionevole supporre che la colpa delle varie parti in causa della vicenda sia stata colta ed espressa dal coro, con una chiusa che condensa, stavolta sì, l’intramontabile saggezza dei Greci: «La morte che non tergiversa / è saggezza di mente / riguardo alle cose degli dèi, / e stare nei limiti dell’umano / è vita senza dolore»[2]. La vita beata, serena e sorridente è dunque la vita nel limite. In Baccanti tutti lo hanno varcato, amici o no di Dioniso, e per questo la collera del dio contro cui gli umani non possono nulla si è scagliata su di loro. Vero è dunque diventare di-vino come Rilke indica, ma bisogna uscire in tempo dalla trasformazione, nei bellissimi verbi tedeschi che, mantenendo lo stesso tema gehen, colgono nella parità e nell’equilibrio tra l’ein e l’aus, tra il dentro e il fuori, il segreto della vita felice. 

Equilibrio che invece non è stato raggiunto dalla messa in scena eschilea di Livermore, che potrebbe essere riassunta in una sola parola: pastrocchio. Con musicisti e pianisti sulla scena e con le voci intense delle Coefore a gorgogliare il dolore. Con, in un momento della trama, in sottofondo anche le musiche di Memorial di Nyman. Le idee prese per sé sole potevano risultare se non vincenti almeno intriganti, come la solennità del coro lirico, la vaga ambientazione degli anni ‘20 e ‘30 (che per la verità ricordano più le feste di Jay Gatsby o gli Untouchables di De Palma, dato anche che Oreste prima del processo finale un intoccabile pur diviene), l’uso disturbante degli effetti vocali, le musiche da opera buffa (in altri momenti forse un richiamo alle sonorità, stavolta certamente eschilee, del Lontano di Ligeti), le incomprensibili sparatorie. Sì, ci sono anche delle pistole utilizzate a destra e a manca come nei cartoni animati, nei quali le vittime della pistolettata risorgono pimpanti per essere di nuovo colpite, prendendo sicuramente in prestito le scene dell’ultimo Tenet di Nolan. 

Ma accostati gli uni agli altri, piuttosto che creare un risultato ordinato e coerente, questi elementi mancano del tutto il senso greco di Eschilo e il messaggio di giustizia che doveva erompere dalla risoluzione dello squilibrio delle forze che gli umani, con le loro azioni, avevano scatenato. La Madre Terra dalla quale tutto sgorga. La Notte, che ha generato le Erinni, la Moira, la Furia. È nelle loro mani il destino degli umani. È nelle mani, negli sguardi, nella profondità di queste potenze sovrane dell’oscurità, accompagnate dal Coro che narra atroci vicende. Le quali però con una progressione di implacabile razionalità trasformano la giustizia della Vendetta nella giustizia dei Tribunali. Per volontà di Apollo e di Atena, vale a dire di Zeus. E così nasce la città umana, la πόλις. Così Eschilo. La sua energia. 

La resa è però assai impastoiata, di uno shocking ormai trito, banale e per certi aspetti anche patetico. Tanto valeva, per dirne una, ambientare la scena nella Bisanzio della Tarda Antichità, magnificamente adusa agli intrighi di palazzo e alle uccisioni seriali di famiglia, e far parlare quell’altro capolavoro che sono le Carte segrete di Procopio. Oppure la scenografia considerata nel suo complesso, una rievocazione del Ponte Morandi di Genova, rispetto alla quale tuttavia, pur sforzandosi di tenere a mente il principio gadameriano per cui ogni interpretazione è un’applicazione, non si riesce a cogliere alcun nesso né con Eschilo né tantomeno con la rappresentazione in sé.

Tutto questo diventa dunque nel progetto e nella regia di Davide Livermore una parodia. Una parodia nella forma spesso di un musical. Come nella orrenda canzoncina finale. Volontà parodistica che, attenuata, funzionava nella Elena di due anni fa, che di per sé è una tragedia assai particolare, dalla tonalità più lieve e con un lieto fine. Ed è Euripide. Qui invece è Eschilo, che significa la fondazione stessa del mondo sulla materia violenta dei corpi. Non a caso, invece, i corpi degli ateniesi chiamati a stabilire giustizia tra Oreste e le Erinni sono delle sagome metalliche accese di fuoco e spente di esistenza. E se Apollo e le Erinni lottano in un corpo a corpo non soltanto verbale ma proprio fisico, lo fanno dopo essere apparsi le une in dorati abiti da sera sberluscenti e l’altro in tenuta da cameriere d’alto bordo. Non solo. Apollo parla proprio con il birignao dei padroni dei camerieri d’alto bordo. Mani in tasca. Atteggiamento svagato. Dizione strascicata. Una volta abituatisi a un Apollo quasi negli improbabili panni di Humphrey Bogart di Casablanca, che dispensa dritte come un saggio al quale ci si rivolge per dirimere una rissa o un affare criminale andato male, alle orribili Erinni, a una Clitennestra e a un Egisto sciatti e sdruciti bevitori, e persino a una telefonata tra gli dèi Apollo e Atena, il testo sembra finalmente emergere soltanto nella conclusione di Eumenidi, certamente non per merito di Livermore ma della potenza di Eschilo.

In tutto questo le parole di Eschilo rischiano semplicemente il naufragio. Atena, inoltre, è doppia. Una elegante signora che declama e poi una giovane modella in posa, che fa – alla lettera – la bella statuina. Per di più, le immagini finali delle grandi stragi impunite della nostra storia repubblicana, che dovrebbero ricordare la validità della giustizia e dei tribunali che in Eumenidi viene fondata nel sacro consesso dell’Areopago, non solo sono fuori luogo ma travisano anche in questo caso Eschilo in un modo, è triste da dire, ormai strumentale. È vero che c’è un appello a che non avvengano lotte fratricide o delitti tra concittadini, e le vittime di mafia sono tra questi, ma c’è un quid più profondo che è stato nemmeno toccato, cioè quella giustizia che per Eschilo risiede e consiste nei rapporti di sangue, nelle relazioni tra marito e moglie, tra chi genera e chi viene generato, laddove la pace nella città e tra i popoli è da intendersi come il frutto dell’equilibrio e della serenità custoditi in seno al focolare domestico. Di ciò non c’è stata neanche l’ombra, e se il senso esistenziale più radicale della civiltà greca è vivere nella misura e nella moderazione per essere felici, lo spettacolo di Livermore ha peccato proprio di vacua saccenteria e di stucchevole superbia. Ciò che bisogna fare è rievocare l’eterno di Eschilo e non invece fare montature degne del peggiore intrattenimento televisivo. Non ha dunque senso ermeneutico drammaturgico, avendo compreso la notte della Vendetta e delle Furie che l’Orestea ci mostra, rappresentare Eschilo, pensando ancora a Fitzgerald, come Tender is the night.

Perché tutto questo è grave? Perché mostra da parte del regista una radicale sfiducia in Eschilo e nella tragedia. Come se le parole dei Greci avessero bisogno di essere ‘attualizzate’ da questi abiti, da questa recitazione, da queste immagini. Eschilo è ‘attuale’ sempre. Lo è perché sa che di fronte alla Necessità siamo tutti servi. Perché sa che il sangue/biologia non può essere cancellato da nessun pensiero/volontà ma, semmai, soltanto attenuato e indirizzato. Livermore sembra invece condividere il puro culturalismo contemporaneo, uno dei maggiori equivoci del presente. E dei più superficiali.

L’elemento più radicale, più greco e più bello di questa messa in scena è la sfera/video che accompagna l’intero spettacolo, che genera di continuo forme e colori di pece, di fuoco, di oceani, di magma, di Soli, di fango. E che diventa anche lo spettro di Agamennone, il velato, la voce, lo stridore dei morti. Se gli attori – è un’iperbole ovviamente – si fossero semplicemente limitati a leggere Eschilo sullo sfondo di tale sfera e vestiti come noi tutti, la tragedia sarebbe stata tragedia. Perché la potenza delle parole e dei pensieri di Eschilo vince anche sulle trovate di Livermore, sulla riduzione dei Greci a volgari gangster degli anni Venti del Novecento. Le parole di Eschilo.

 

«Ho ottenuto il successo:

legare spietate,

possenti creature divine ad Atene.

È loro campo fatale reggere

l’universo umano: chi non ebbe mai caso

d’incrociarle rabbiose, ignora

la fonte dei colpi che devastano la vita»

 

(Coefore, vv. 928-934, trad. di Monica Centanni)

 

 

Il registro naturalmente è mutato con la commedia proposta quest’anno, le NuvoleForse c’è più genio nella commedia, e in chi la sa redigere e mettere in scena, che in tutto il tragico del mondo, sebbene proprio il tragico ne sia il fondo più essenziale. È quella verve sottile, il wit di cui parlano gli inglesi e che tanto si addice a un altro geniaccio della commedia e della battuta di spirito come Oscar Wilde, che di aristofanesco ha moltissimo. Ma questa commedia in particolare ha qualcosa di più ardito, quasi impalpabile. Se da una parte l’aggettivo può confarsi benissimo al soggetto e al titolo dell’opera, dall’altra lo rifugge, essendo la commedia anche un assalto al concreto, alla materia antropologica, sociale e storica.

«La terra si imbeve tutta del succo del pensiero». Questo è ciò che le nuvole producono, questo l’effetto della pioggia di parole che spaventa Aristofane, che lo induce a presentare Socrate e il suo ‘pensatoio’ nella maniera peggiore possibile ma che in questo modo esalta la forza irresistibile delle parole e del pensiero. Socrate, il maestro di tutto l’Occidente, il filosofo par excellance e il martire del sapere e della rettitudine della ragione, esce con le ossa rotte dalla sferzante ironia aristofanesca. È rappresentato alla stregua di un sacerdote, di uno sciamano degli elementi eterei del mondo, di un maestro avido di denaro che pur di guadagnare e di profondere il suo tempo in occupazioni inutili sarebbe disposto anche a educare uno sciagurato come Strepsiade. 

In Aristofane, un tradizionalista affascinato dal caos che il dire e il pensare rappresentano di fronte all’ordine autoritario della città, si esprime tutta la paura che gli ateniesi nutrivano verso la filosofia, la paura che qualunque città antica o moderna nutre verso il pensare che non si acconcia a diventare megafono, strumento, ornamento e zerbino di chi comanda. Ė per questo che Socrate è morto, giustiziato dai bravi cittadini della giuria di Atene. Ė per questo che dopo di lui altri filosofi sono stati perseguitati, calunniati, uccisi, da Giordano Bruno a Galilei, da Spinoza a Heidegger. Ė per questo che Aristofane è un bel paradosso, che della filosofia mostra la debolezza e la potenza.

Al di là, infatti, delle battute scontate e sconce che descrivono Socrate e i suoi allievi come degli zombie, dei ladri, degli spostati, uno dei nuclei della commedia è Zeus, è il presunto «ateismo» dei filosofi, il loro voler sovvertire la πóλις con spiegazioni razionali e ‘meteorologiche’ del cielo, della pioggia e delle nuvole; con la trasformazione del discorso peggiore nel discorso migliore; con la distanza dal solido buon senso rurale di Strepsiade. La filosofia non ha dogmi, non ha valori, non obbedisce. Nel suo feroce attacco a Socrate, il commediografo riconosce a lui e alla filosofia la potenza di questa libertà.

La messa in scena di Antonio Calenda è rispettosa di tale complessità di strati, modi e intenzioni del testo. Al centro c’è la traduzione di Nicola Cadoni, caratterizzata dal tentativo di riprodurre la musica dell’antica lingua greca; dal calco dei giochi di parole; dai ripetuti accenni alla politica contemporanea e soprattutto dall’ardita decisione di tradurre numerosi passi con i versi di Manzoni, Leopardi, Alighieri, con autori del Settecento, con Totò e Pasolini. Interessante è il riferimento a Parini, al giovin signore che direziona la messa in scena siracusana anche sul lato pedagogico. La città di Atene, come del resto anche la πόλις da intendersi estesa a un’intera nazione, necessita di un progetto educativo serio, ponderato, rispettoso di quella tradizione culturale a cui anche il regista e il traduttore si riferiscono più volte, popolare ed erudita, locale e nazionale. A vincere la spassosa disputa tra i due Discorsi, quello tradizionalista in abito pretesco e quello sovvertitore dei valori consolidati acconciato come un brigante, è il Peggiore, portato in sfilata come un generale vittorioso e che diverrà il maestro del giovane Fidippide, emblema dei tanti ragazzi d’oggi svagati, scioperati e vitelloni che bivaccano fieramente tra banconi di bar e centri scommesse (le libagioni e le corse ippiche dei nostri giorni) e che nulla sanno della cultura, dell’educazione e del ben pensare, che anzi aborriscono.

Sono scelte queste che mostrano la continuità poetica dai Greci al presente. A conferma della continuità politica della filosofia europea, che è dissacrante di ogni certezza e conformismo oppure, semplicemente, non è. La cosa che sorprende tuttavia è come decine di generazioni abbiano imparato da Socrate (platonico o meno, non importa) e come Aristofane invece veda nel grande maestro non solo un perdigiorno imbevuto di pensieri vacui e vane sofisticherie ma addirittura una minaccia, il cui influsso, alla lettera, degenera al punto da far disconoscere ai figli i loro padri, con tutto ciò che questo fatto dall’altissimo valore simbolico comporta. La filosofia, potremmo dire, è come una nuvola, che si addice perfettamente all’anima pura, splendendo della luce di folgori, ma che indosso a chi non se lo merita si trasforma in mero strumento di comodo. E ciò vale tanto per i cattivi maestri che per gli allievi poco dotati, che con la vera filosofia come scienza dell’essere e della verità nulla hanno da fare. 

Il paradosso politico e pedagogico di Aristofane è anche questo: la reductio di Socrate al relativismo sofistico ma anche la conferma che c’è una dimensione della filosofia – e soltanto della filosofia – irriducibile al relativismo: la sua libertà, il suo respiro, l’impalpabile potenza delle nuvole.

 

 

Schede degli spettacoli:

 

Baccanti

di Euripide

Traduttore: Guido Paduano

Regia: Carlus Padrissa (La Fura dels Baus)

Coreografie e assistente alla regia: Mireia Romero Miralles

Scene, musiche: Carlus Pedrissa

Costumi e Scenografo assistente: Tamara Joksimovic

Con: Lucia Lavia (Dioniso), Stefano Santospago (Cadmo), Antonello Fassari (Tiresia), Ivan Graziano (Penteo), Spyros Chamilos e Francesca Piccolo (Primo Messaggero), Antonio Bandiera (Secondo messaggero), Linda Gennari (Agave), Simonetta Cartia e Elena Polic Greco (Corifee)

 

Coefore/Eumenidi

di Eschilo

Traduttore: Walter Lapini

Regia: Davide Livermore

Musiche: Andrea Chenna

Scene: Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi

Costumi: Gianluca Falaschi

Video design: D-Wok

Con: Giuseppe Sartori (Oreste), Spyros Chamilos (Pilade), Anna Della Rosa (Elettra), Laura Marinoni (Clitennestra), Stefano Santospago (Egisto), Maria Grazia Solano (Cilissa), Giancarlo Judica Cordiglia (Apollo), Olivia Manescalchi (Atena), Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca (Erinni/Eumenidi)

 

Nuvole

di Aristofane

Traduttore: Nicola Cadoni

Regia: Antonio Calenda

Scene e costumi: Bruno Buonincontri

Coreografie: Jacqueline Bulnés

Light Designer: Luigi Biondi

Direttore di scena: Giovanni Ragusa

Con: Stefano Santospago (Aristofane), Nando Paone (Strepsiade), Massimo Nicolini (Fidippide), Antonello Fassari (Socrate), Galatea Ranzi e Daniela Giovanetti (Corifee), Stefano Galante (Discorso migliore), Jacopo Cinque (Discorso peggiore) 

 

 

 

 



[1] R.M. Rilke, Die Sonetten an Orpheus, II, 29, vv. 6-8. «Nella metamorfosi entra ed esci. / Qual è in te l’esperienza più dolente? / Se ti è amaro il bere, diventa vino», trad. di. F. Rella, Feltrinelli, Milano 2017, p. 129.

[2] Euripide, Le baccanti (Βάκχαι), a cura di V. Di Benedetto, Rizzoli, Milano 2007, vv. 1002-4, p. 251.

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