Tempo e materia. Una metafisica

di Sarah Dierna

 

Alberto Giovanni Biuso

Tempo e materia. Una metafisica

Olschki, Firenze 2020

Pagine X-158

€ 29,00 

 

 

 

Tempo e materia. Tempo è materia. È questo il nucleo intorno al quale si condensa e a partire dal quale si dipana la metafisica di Biuso. Una metafisica che parte dall’evidenza che «il mondo è» e che «l’umano è in esso»[1] soltanto come sua parte. Una metafisica che fa quindi suo il principio di tutti i principi per cui «ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà […] è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà»[2]. Una metafisica dunque fenomenologica

Lontano da ogni prospettiva riduzionistica, in questo percorso si compie il tentativo di riabilitare ciò che costituisce «la struttura stessa del sapere filosofico»[3] come aveva già ricordato lo stesso Martin Heidegger, che traspare tra le righe di Tempo e materia, e, più in generale, ciò che percorre «ogni pensiero che si esprime sul mondo, ogni parola che dice il reale, ogni sentire estetico, concetto logico, legge fisica», tutti questi ed altri ambiti «hanno infatti come fondamento una metafisica»[4].

Lontano anche da ogni prospettiva soggettivistica, la materia della quale si parla è una materia che «c’è indipendentemente da qualunque sguardo»[5] come i Greci, anch’essi sullo sfondo della metafisica dell’autore, avevano già avvertito, esenti da quella hybris che ha invece caratterizzato la modernità, la quale ha ridotto la realtà ad un «canto solitario e monocorde dell’umano»[6].

Sulla Stimmung della Grecità, quello di Biuso è allora un itinerario filosofico che non si ‘ritaglia’ nessun ambito particolare bensì, andando al di là del parziale ed inesatto divario rispetto alle scienze dure, vuole essere un sapere «scientifico integrale»[7]. Un itinerario che non si ferma dunque alla sua «prospettiva più propria»[8], la metafisica appunto, ma procede attraverso un’indagine che, dalla corporeità che l’animalità è (dunque anche, ma non soltanto, quella umana), dalle molteplici e talvolta contrapposte teorie della fisica, dalle plurali posizioni teologiche, da Anassimandro fino ai più recenti fisici contemporanei, rintraccia, pur nella differenza dei suoi percorsi e dei suoi contenuti, ciò che permane e resta identico. Il Tempo. Identità e differenza, per questa metafisica materialistica, costituiscono infatti «la sostanza del mondo e la condizione del pensiero»[9], il dispositivo che descrive la dinamica sempre in divenire della materia dove il tempo è questa «differenza della materia nei diversi istanti del suo divenire ed è l’identità di questo divenire anche in una coscienza che lo coglie»[10]

Il tempo è allora l’altro nome della materia. Il tempo è questa materia (da qui il neologismo di «materiatempo» che l’autore introduce) mai statica, sempre in divenire e sempre in movimento, dalla quale tutte le cose derivano e alla quale tutte, nel loro essere transeunti, ritornano per lasciare il posto ad altri enti. È qui inconfondibile l’eco dell’antico detto anassimandreo secondo il quale 

 

ναξίμανδρος….ρχήν….ερηκε τν ντων τ πειρον….ξ ν δ  γένεσίς στι τος οσι, κα τν φθορν ες τατα γίνεσθαι κατ τ χρεν διδόναι γρ ατ δίκην κα τίσιν λλήλοις τς δικίας κατ τν το χρόνου τάξιν.

 

Principio degli enti è l’infinito (l’energia/campo il suo divenire…) Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la dissoluzione in modo necessario: le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine, al sorgere dell’una l’altra deve infatti tramontare. E questo accade per la struttura stessa del Tempo[11].

 

Ed è tuttavia questa pena della fine, intrinseca a tutte le cose, che in quella parte della materia che è consapevole di sé e che chiamiamo umano rende la realtà del tempo una «pura inquietudine della vita»[12]. Inquietudine quest’ultima che si è tentata di superare nei modi più diversi, a partire dalla considerazione meramente ‘coscienzialistica’ del tempo, per cui esso, come vorrebbe Spinoza, sarebbe solo affectio hominum per arrivare alle più radicali posizioni della fisica moderna prima, e contemporanea poi, le quali, sul monito dell’eleatismo, hanno persino negato lo statuto stesso del tempo, riducendolo a una mera unità discreta, astratta, matematica e bidirezionale, del tutto lontana rispetto all’evidenza invece continua, concreta, flussica e unidirezionale della sua freccia che «mai si ferma e mai torna all’arco dell’essere da cui è scoccata»[13].

Se tutto questo è motivo di inquietudine, lo è solo per quella materia che è consapevole di tutto ciò, della cifra finita di tutte le cose, materia che però costituisce solo una parte, persino trascurabile rispetto all’intero «che non conosce pianto»[14].

Tempo e materia, si articola in tal senso secondo una descrizione non soltanto μεταfisica del reale, ma anche etica, anzi, μεταetica, del tutto coerente con l’atteggiamento fenomenologico dell’autore, per cui non si ‘valuta’ l’esser-ci umano a partire da credenze religiose o da qualsiasi altro principio valutativo che stabilisca a priori ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che non lo è, lo si ‘descrive’ piuttosto, sine ira et studio, nei suoi comportamenti, al di là del bene e del male, nel tentativo di cogliere «quanto si muove nel fondo dell’umano e nel suo tormento»[15].

Tormento che non scaturisce soltanto dalla possibilità dell’impossibilità di ogni altra possibilità, vale a dire dal morire, che rappresenta senz’altro motivo di timore, ma pervade piuttosto tutta la materia vivente in quanto dotata di sensibilità. Detto altrimenti, se a quest’ultima appartiene la finitudine, come ad ogni altra cosa che c’è, tuttavia essa abita il mondo in maniera diversa rispetto agli altri enti, lo abita infatti in maniera consapevole, consapevolezza che non inerisce semplicemente al proprio esser-ci, ma comporta anche la consapevolezza della condizione di questo esserci: la materia consapevole di sé è una materia capace di sentire il dolore e di conoscere la sofferenza, variabili queste intrinseche alla natura animale, umana e non umana. 

Una metafisica che è consapevole di questo e che è andata oltre (Μετ) ogni credenza religiosa o di altra natura, procedendo in maniera analitica e distaccata, non può che giungere alla conclusione che sarebbe «meglio non essere mai nati»[16], infatti «un individuo non venuto al mondo non subisce alcun danno per il fatto di non esserci. Al contrario, esserci significa subire sofferenze che possono risultare gravi fino all’insostenibilità»[17]. «L’asimmetria tra piacere e dolore» diventa secondo Biuso «il fondamento logico del rifiuto di mettere al mondo altri esseri viventi»[18]. È vero, esserci può recare con sé anche delle gioie, ma a una simile obiezione la risposta non può che essere, ancora una volta, disincantata: «Le gioie sono talmente incerte, lievi e transeunti da non poter essere seriamente messe a confronto con le sofferenze che invece sono certe, profonde, pervasive e costanti»[19].

Di più. Tutto questo non vale solo per l’umano. Un simile ‘inconveniente’, quello di essere nati, coinvolge infatti l’animalità tutta, dunque anche quella non umana poiché, benché il primo (l’umano) abbia rivendicato un salto ontologico rispetto al secondo (l’animale non umano), «la finitudine, il tempo, la morte»[20] sono comuni a tutti i viventi dotati di sensibilità, dunque anche a quelli non umani. Una metafisica, pertanto, non solo del tempo, non solo materialistica, non solo metaetica, una metafisica anche antropodecentrata.

Se l’essere umano, a partire da Cartesio e così lontanamente da come la Grecità lo aveva pensato, si è reso padrone degli enti, rivendicando un qualche primato ontologico rispetto alla materia vivente diversa da ciò che egli è; se questi si è spinto oltre volendo ‘signoreggiare’ – termine caro all’Idealismo –  la natura stessa (nel significato greco che il termine φύσις assume) della quale è parte, solo una parte, finendo per mettere a rischio la sopravvivenza propria come dell’intero pianeta nel quale abita; se, in ultimo, in questo atteggiamento di hybris questa «lillipuziana»[21] specie si è persino illusa di potersi affrancare dal divenire della materia riducendo il tempo a una mera variabile matematica, rispetto a tutto ciò, questa «festa antropocentrica» è tuttavia destinata «alla sua insignificanza, al suo inevitabile suicidio»[22].

Per i greci, infatti, ad esistere era solo la ζωη, la vita vivente che al suo interno includeva quella dell’animale umano e quella dell’animale non umano, diverse, com’è evidente, nel modo di abitare il mondo, senza che questo richieda però un salto anche ontologico; ancora, per gli stessi pensatori delle origini, e per questa metafisica materialistica che ne condivide l’atteggiamento fenomenologico, le nostre vite sono solo una parte dell’intero, peraltro così «infime agli occhi degli dèi»[23] e della natura. Si è davvero “signori del tempo”, infine, se si accetta che «la finitudine è la cifra insieme prassica e metafisica della vita e oltre la vita, è la cifra dell’intero»[24], e che, al di là delle differenze rispetto ai singoli enti, «la clessidra è destinata a esaurirsi»[25], per tutti. La materia continuerà invece ad esistere, sempre nel suo divenire e nella sua potenza di diventare qualcosa: «comprendere teoreticamente e accettare nella prassi tale condizione» per Biuso «significa conciliarsi con il tempo e la necessità»[26].

Una fenomenologia del tempo e della materia, quella proposta in Tempo e materia, che fa della metafisica non un sapere astratto e lontano da ogni prassi, ma un sapere che rende piuttosto ‘teoretica’ la prassi, che interrogandosi a partire da ciò che si dà e nei limiti in cui si dà, approda a una  «redenzione dell’apparenza, dei torbidi della vita, del dolore di esserci, della morte e del nulla»[27] poiché dei torbidi della vita, del dolore dell’esserci, della morte e del nulla cerca di comprendere la struttura e le ragioni profonde, nonché la struttura e le ragioni dell’intero e del suo apparire. 


[1] A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Olschki, Firenze 2020, p. 2.

[2] E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Vol. I, libro primo. Introduzione generale alla fenomenologia pura (Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen PhilosophieLibro primo: Allgemeine Einfuhrung in die Reine Phänomenologie, «Husserliana», volumi III/1 e III/2, 1976), nuova edizione a cura di V. Costa, Torino, Einaudi, 1965 e 2002, pp. 52-53. 

[3] A.G. Biuso, Tempo e materia, cit., p. 3.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, p. 7.

[6] Ivi, p. 145.

[7] Ivi, p. 6.

[8] Ivi, p. 3.

[9] Ivi, p. 13.

[10] Ivi, p. 73.

[11] Anassimandro, DK 1, trad. di A.G. Biuso in https://www.biuso.eu/aforismi-e-autori/#anassimandro (consultato il 30.7.2021).

[12] G.W.F. Hegel, Prefazione alla Phänomenologie des Geistes, III, p. 46, in A.G. Biuso, Tempo e materia, cit., p. 83.

[13] A.G. Biuso, Tempo e materia, cit., p. 83.

[14] Ivi, p. 24.

[15] Ivi, p. 46.

[16] D. Benatar, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo (Better Never to Have Been: the Harm of Coming into Existence, 2006), trad. di A. Cristofori, Carbonio Editore, Milano 2018.

[17] A.G. Biuso, Tempo e materia, cit., p. 92.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Ivi, p. 22.

[21] Ivi, p. 152.

[22] Ivi, p. 153.

[23] Ivi, p. 24.

[24] Ivi, p. 23.

[25] Ivi, p. 91.

[26] Ivi, p. 140.

[27] Ivi, p. 13.

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