Selezione di poesie da «I Nomadi dello spirito» (raccolta inedita)

di Roberto Rossi

 

Benandanti [il sabba del sabato sera]

Brucia la Giöbia [brucia!] – nella notte d’inverno
l’anno nuovo rinasce, bruciano le fantocce
[bruciano!] – brucio io, quando parlo con te.

Budda e Cristo [assieme], osservan da un vaso
[nascosti di sbieco, nel mezzo d’un giardino]
radunarsi la gente, un magico cerchio
[meraviglia di tenebre], addentro una foresta
d’anticaglie e d’idoli [quisquilie], botteghe
d’oscure/pazze idee, di chi ancora crede
che incendiare il passato giovi ai giorni futuri.
Ed io che mi chiedo [cascando giù dal pero]
perché un fuoco arda in mezzo al giardino,
mentre tutti scavalcano [Budda e Cristo] le fiamme,
con la luce alle spalle [Ma dai, anche tu qui?
Che? Un goccio lo bevi?] per affrontare il gelo.

E tra le mille statue, un sacrario poi s’apre
con musiche e sciamani devoti all’elettronica –
ed il cerchio è un disco che gira [e rigira],
che sorsa senza tregua [la tua mano e la mia
si stringono nel vortice dell’oblio] a scacciare
ogni stregoneria [ogni cupo pensiero].
E i venerdì c’inseguono [altrimenti perché
incendiarli così?] – ma io no, li allontano
[li allontano da me] e giro [vòlto con te]
in vasti campi d’eriche/melisse sempreverdi
[ché un sabato agreste fa bene alle domeniche].

Perché il peggio [diciamolo] è poi il domani incerto
quello in cui ci si scopre un pittore d’icone
[un soggetto indegno del migliore Tarkovskij]
che di danze e di tutta questa iconoclastia
non se ne fa un granché – mi basterà marcare
uno scambio di sguardi a fine della scena,
e riavvolgere il nastro/riveder la pellicola
al contrasto dei chiari [al netto degli scuri],
quasi un nuovo fantoccio, buono l’anno venturo –
senza che le melisse siano acri soltanto
per il loro profumo [ma perché sarà scritta
un’altra poesia da gettar tra le bragie].

Brucia la Giöbia [brucia!], nella notte d’inverno
vita nuova rinasce, bruciano le parole
[bruciano!] – brucio io, quando scrivo di te.

 

Vintage [gli album di famiglia]

Quando il mio occhio corre [pigro e svelto]
sulle nostre pagine Instagram [Cassàndre],
ripenso ai paesaggi e i giorni scorsi
sulle coste sarde – le loro miniere
spente, gli arbusti secchi [i porti ostili],
gli scatti di Alice, i baluginii all’onda
[il latte, i mirti], le caverne fonde, l’alba,
i suoi fasci d’ombre, i calanchi bianchi, irti –
non ti sembrano [clack] vecchie diapositive?

Ma che ne sanno le vostre risa piccarde
[le mie avventure guascone] delle storie
degli isolani [carbonai, antichi pastori] –
che ne sanno i filtri di Zuckerberg dei
graffi [delle filigrane] sulle seppie
di rame, figlie di Daguerre? Che ne sa
il mio sangue [con le sue mezze radici]
dell’autentico spirito dei suoi avi
[clack] della povera gente di Decimo?

Invero [se è autenticità che vogliamo]
meglio sfogliare i vecchi album di famiglia
[quelli del ramo materno, beninteso].
E vi vedo volti severi e miserie,
storie d’amori folli [e vive collere],
sanatorî [rinunce all’istruzione]
migrazioni per soldi, natività
trai fieni [nella polvere], che da Cagliari
[analfabete] salgono fino a Viggiù.

Quante storie [clack] potremmo rivivere
ad aprire queste sacre iconoteche
[combattenti polòni a Montecassino –
partigiani toscani dati in prestito
alla resistenza francese – schermidori
siciliani sindaci di Como – ebree
di Leopoli in fuga per le pianure –
amanti del nemico umiliate sulla via
del paese (clack) quel film, mes amies]!

Ché alla fine [chères Alice, Cassàndre],
dei ricordi è sempre meglio poi farne
chincaglierie vintàge [pesanti, dense,
a dispetto dei pixel – dei megabyte].
E raccontarsi le vacanze [pure
con mete identiche, suvvia!] è meno
interessante [clackclack] che addentrarsi
negli abissi del tempo [i nostri feed /
zattere – il presente / un mare fermo].

 

Wunderkammer [le tassonomie di Linneo]

Ricordo la serra delle piante grasse
[all’orto botanico di Pisa] quando
compresi perché mai il tuo occhio indulgesse
sulle varietà del mondo vegetale;
la tua curiosità [arguta, schiva] era
per me terra straniera [io che credevo
bastasse occuparsi delle faccende
degli esseri umani, per dirsi eruditi].

Così [da innamorati] anch’io scoprii
[oltre i cactus, le salvie, l’elicriso]
che a suo tempo Linneo ebbe un bel daffare
nell’etichettare ogni forma di vita;
pure noi [tra le aiuole di quel di Brera],
eccoci a esplorare la tassonomia
delle nostre emozioni [azzardando un nome
per ogni minuzia condivisa assieme].

Ricordo allora il tuo profumo [dolce,
d’un pizzico cinereo], la mia figura
riflessa nel bruno-verde del tuo sguardo
[giardino conchiuso, matto paradiso!];
e noi a fantasticare di darsi all’amore
tra le sale deserte dell’Ambrosiana –
sogno proibito [in un vivaio dipinto
da due Bruegel in vena d’allegorie].

E conversare per ore [tra zucche e cibi
d’osterie] apprendendo da te dell’umore
nero dell’aquilegia – io a sorprenderti
con gli epici trascorsi del babbagigi;
ché già Omero permise la riscoperta
d’Ilio narrando dei salici e gli zigoli
sulle rive dello Scamandro [impresa
degna dalla più grande dedizione!].

Mancava giusto un cabinet in cui riporre
ogni nostra gioia in tutto il suo splendore
[ma dimenticavo che persino Schliemann
sbagliò a scavare tra le sue rovine];
ché non a tutte le emozioni sappiamo
dare sùbito un nome – e spesso erriamo
a intenderne la radice [fintanto che
le sue gemme non sbocciano in fiore].

 

Infografiche [Sonia e i dinosauri]

Camminare in un museo, secondo Ginzburg
[Carlo, non Natalìa], è andare a caccia
di tracce su d’una scena del crimine
[ma con più vittime a cui far l’autopsia];
e [coi badili e la forza delle braccia]
quant’indizi l’uomo ha riportato
alla luce. La nostra immaginazione
s’affolla dunque di mille congetture
– su Roma, presunta assassina d’Elleni
[che, a loro volta, avrebbero nascosto
i resti d’Egitto sotto al letto del Nilo]–
per non parlare dei Cro-Magnon, che uccisero
i Neanderthal a furia di rubargli
le prede; e [lì ammassato] segue il tempo
ove la cultura omicida si spegne
nella natura tiranna [ed allora
il paleontologo ha infine la meglio
sui dipartimenti d’archeologia antica].
Ma il museo no, Sonia [così m’hai spiegato],
non vien meno alla propria vocazione.

Ché, se del tirannosauro vedi appena
ciò che resta delle sue ossa, la mente
ti fa credere d’aver compreso come
fossero fatti i giganti, nel Cretaceo
[basta guardare le infografiche, pensi].
Ma se da bambina hai sempre sognato
di squame [ed oggi scopri dalle rubriche
di scienza che i dinosauri, perlopiù,
avevan le piume] allora tu, Sonia,
[col tuo dottorato] t’accorgi che la Storia
è una gran fantasia, da noi costruita
sugli avanzi del passato – e che mille
Watson e Sherlock, e più Adso e Guglielmo
[ignari dei loro Arthur ed Umberto],
han scandagliato il mondo in cerca di prove
per dire che da qualche parte veniamo
camminando poi in qualche direzione
[l’estinzione, forse]. E il tirannosauro
[con le sue lunghe zampe, le braccia corte]
tutto ciò neanche l’ha mai immaginato.

 

 

Roberto Rossi nasce a Varese il 10 marzo 1993. Attualmente dottorando in filosofia presso l’Università di Milano e l’EHESS di Parigi, si è interessato negli anni ai temi della narrazione letteraria, della rappresentazione storiografica e del rapporto tra verità, finzione e memoria. Ha inoltre collaborato come autore in progetti culturali indipendenti. Tra questi si segnalano la rivista letteraria varesina La città invisibile e la rivista milanese La tigre di carta, sulle quali sono apparsi alcuni suoi versi e articoli di tema poetico e filosofico. È stato inoltre tra i fondatori della compagnia teatrale In Vino Recitas, per la quale ha scritto e realizzato tre pièces inedite. Un suo dramma in versi a tema arturiano, Le catene di Broceliande, è stato messo in scena per conto del progetto milanese N.d.A. – Associazione culturale.

Lascia un commento