Guerra e rivoluzione. Le macerie dell’impero

Recensione a:

Carlo Formenti, Guerra e rivoluzione. Le macerie dell’impero, Meltemi, Milano, 2023, pagine 236, € 20,00

di Davide Amato

Oggi il marxismo resta in Occidente una teoria marginalizzata, competenza di un ristretto gruppo di intellettuali o di chi ancora nutra ambizioni anti-sistema. Carlo Formenti è uno di questi, uno di coloro i quali si appellano al marxismo sia per la sua fecondità teorica sia in quanto fondamentale strumento per capire (e cambiare) lo stato di cose presenti. Al fine di immergersi in quest’impresa è però necessario (Formenti lo riconosce subito) fare i conti con gli errori teorici del marxismo, in particolare quelli più clamorosi: il determinismo dello sviluppo storico, l’antropomorfismo della natura, l’analisi economicistica del capitalismo. Tutti errori, a detta di Formenti, attribuibili all’eredità positivistica e idealistica presente nel pensiero di Marx.

Bisogna quindi “tagliare i rami secchi”, dice l’autore, per tornare a usare il marxismo come strumento utile a capire e attaccare i meccanismi dell’impero liberal-capitalista in cui viviamo. È a questo scopo che egli scrive la sua ultima opera: Guerra e rivoluzione. Nel primo volume (dal sottotitolo Le macerie dell’impero) Formenti attacca frontalmente il sistema occidentale nelle sue molteplici dimensioni: quella economica, quella culturale, quella imperialistica. Decostruendo così l’auto-narrazione delle società neoliberiste di sistemi capaci di portare prosperità, libertà e democrazia.

Il progetto neoliberale mette radici già prima della Seconda guerra mondiale, quando le opposizioni socialiste in Occidente e le esperienze comuniste nel resto del mondo minacciavano di sovvertire l’ordine economico globale. E infatti l’ideologia neoliberale assunse da subito una «chiara connotazione geopolitica»[1]: l’intenzione era sottrarre gli Stati Uniti dal loro tradizionale isolazionismo e unirli insieme ai Paesi europei in una guerra contro il comunismo.

Per condurre una simile impresa le idee liberali classiche erano ritenute del tutto insufficienti, e fu per questo necessario creare strumenti concettuali nuovi, capaci di rispondere alle sfide che erano emerse. In particolare era chiara la necessità di limitare le varie sovranità nazionali attraverso la creazione di un nuovo ordine istituzionale globale che garantisse la libera circolazione dei capitali. Infatti il neoliberismo si caratterizzò da subito per la natura sostanzialmente giuridico-politica della sua azione, ben più che economica. Così si preparava «quella separazione fra diritto pubblico e diritto privato che regala agli attori del mercato la facoltà di appellarsi a un forum al di fuori del proprio Stato di appartenenza»[2]. È questa la ragione di fondo che giustifica organismi come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, ma anche la stessa Unione Europea. Tali entità sono infatti capaci di esercitare una governance al di sopra delle sovranità nazionali, con il risultato che è il mercato a decidere le sorti dei Paesi del mondo, e le sue regole darwinistiche prevalgono ormai anche sulle decisioni emanate dai parlamenti eletti democraticamente.

Si capisce quindi che

«la rivoluzione neoliberale non è una sorta di ritorno al passato: mentre conserva le narrazioni sui diritti umani e sulla centralità del soggetto individuale, introduce una visione dell’economia che sostituisce l’ideologia del laissez faire con quella di uno Stato chiamato a garantire in prima persona le condizioni necessarie al mantenimento dell’ordine economico. Lo Stato neoliberale è tutto meno che uno Stato minimo: è uno Stato forte ancorché investito di una missione del tutto diversa da quella dello Stato welfarista».[3]

A differenza del liberalismo classico, gli autori neoliberali ritengono che il mercato non sia il prodotto spontaneo dell’evolversi storico delle società umane, ma il risultato di un’azione politica ben precisa. Le forze delle istituzioni devono allora imporsi contro qualunque ostacolo alla libertà di mercato: provengano essi dai parlamenti o governi nazionali, o anche dalla società civile.

L’opposto dello stato neoliberista non è l’autoritarismo (che invece si coniugò perfettamente con il neoliberismo nel Cile di Pinochet), ma lo stato nazionale e welfaristico, ovvero quel tipo di stato che, proclamando la sovranità del potere politico sull’economia e tutelando i diritti sociali sulla libertà di mercato, costituisce una minaccia al movimento illimitato dei capitali nel mercato globale. «Il problema politico fondamentale, per questi autori, è quello di sterilizzare gli effetti negativi della democrazia: è necessario bypassare le decisioni popolari ogniqualvolta contravvengano i principi dell’ordine economico globale»[4].

Questi principi hanno ottenuto un indubitabile successo nelle società occidentali, al punto da convertire sia i partiti di destra ma anche e soprattutto quelli di sinistra. Nell’epoca della “postmodernità” le sinistre (gli ex partiti socialisti e comunisti) non conducono più una lotta economica per sollevare le condizioni delle classi popolari, ma promuovono una battaglia culturale contro tutti i retaggi di un passato che, a ben guardare, sembra non esistere più: la famiglia patriarcale, il fascismo, l’autoritarismo gerarchico, il dispotismo religioso ecc. Quanto invece ai programmi economici, essi non si distinguono di molto rispetto a quelli della destra, sicché l’alternanza tra i due schieramenti al governo ha prodotto in tutti i Paesi occidentali risultati perfettamente analoghi, a esclusivo interesse del grande capitale. Anzi, ormai è chiaro come la sinistra rappresenti ben più della destra quell’unità tra «progressismo liberale e reazionarismo neoliberale (o imperialistico[5], come direbbe Andrea Zhok, cioè tra il liberalismo dei valori e il conservatorismo dell’economia. La prima istanza è il vero nucleo culturale del neoliberismo, quello cioè che prevede la cancellazione di tutte le identità sociali stabili e di qualsiasi valore collettivo solido, a favore della libertà individuale dei singoli soggetti di autodeterminarsi.

«È questa visione “solipsista” che le sinistre post marxiste condividono ormai con il liberalismo borghese. A confermarlo basterebbe lo slogan femminista che recita “il corpo è mio e lo gestisco io”, al pari della fobia nei confronti di tutti i concetti identitari che minacciano di “inchiodare” l’individuo a un determinato ruolo sessuale, sociale, professionale ecc.: fobia che si traduce in rifiuto delle appartenenze comunitarie e/o di classe».[6]

È anche questa infatuazione per le libertà individuali e i diritti civili a spingere la sinistra al fianco del neoliberismo contro tutti i Paesi “arretrati”, «legittimando le “guerre umanitarie” intraprese per esportarvi democrazia e diritti umani»[7]. Basti pensare all’entusiasmo con cui la sinistra in Italia ha appoggiato il bombardamento statunitense della Libia, contro ogni norma del diritto internazionale e a nocumento degli interessi del popolo libico ma anche di quelli dei Paesi europei (Italia in primis).

Il neoliberismo ha quindi avuto successo nell’impresa di convertire la sinistra occidentale, schierandola nelle proprie file nella lotta contro i Paesi socialisti e neutralizzando ogni pregresso elemento di rivendicazioni economiche in senso welfaristico. L’opposizione sociale in Occidente è adesso ridotta al minimo, ma soprattutto ne manca una forma organizzata, in quanto anche le esperienze dei partiti cosiddetti populisti si sono rivelate inoffensive verso le élites dominanti.

Tuttavia, se sul piano interno il progetto neoliberista si può dire quasi del tutto riuscito, non è lo stesso sul piano internazionale. Oggi la principale minaccia all’ordine neoliberista internazionale proviene dai BRICS, ovvero da un gruppo in crescita di Paesi che si oppongono all’unipolarismo occidentale, promuovendo contestualmente un nuovo ordine multipolare. Essi rifiutano il modello economico occidentale, affermando che ciascun Paese può e deve trovare la propria via per lo sviluppo, senza che gli venga imposta da Paesi terzi o da organismi internazionali.

In Occidente si discute ancora se l’opposizione tra questi due modelli (unipolare e multipolare) sia un conflitto infra-capitalistico oppure una lotta dei Paesi sfruttati contro quelli sfruttatori. Secondo alcuni oggi vivremmo in un’epoca post-coloniale, in cui quelli che un tempo erano i Paesi della periferia del mondo (in particolare la Cina) sono o stanno per diventare parte della struttura capitalistica globale. In questo senso la lotta tra multipolarismo e unipolarismo è interpretabile come una lotta tra capitali in ascesa e capitali dominanti, e non una lotta contro l’imperialismo e per la decolonizzazione. Questa tesi è però, a giudizio sia di Carlo Formenti che di chi scrive, viziata da una erronea lettura dei processi di decolonizzazione e da un equivoco sulla nozione di imperialismo.

La categoria leniniana di imperialismo, sostiene Formenti, non è di natura esclusivamente economica, ma è

«al tempo stesso, economica, sociale, politica, antropologica e culturale, un punto di vista secondo cui il conflitto fra centro e periferie del mondo non va misurato esclusivamente in base ai differenziali di sfruttamento, ma chiama in causa la resistenza delle nazioni e dei popoli del Sud del mondo al colonialismo occidentale».[8]

In questo senso non ci sono diversi imperialismi in lotta fra di loro, ma un solo imperialismo: quello statunitense, che anche dopo il crollo dei comunismi dell’Est-Europa intrattiene con i Paesi sottosviluppati rapporti di sfruttamento e subalternità post-coloniale. Forme nuove di espropriazione delle risorse e delle ricchezze del Terzo Mondo permangono tutt’oggi, e sarebbe per questo erroneo credere che la lotta tra questi due ordini internazionali si ponga sullo stesso livello di una lotta tra capitali in ascesa e capitali dominanti[9].

Formenti infatti descrive gli Stati Uniti quale potenza imperialistica per eccellenza, nonché la nazione maggiormente responsabile delle guerre e delle devastazioni della storia contemporanea. «Gli Stati Uniti sono la grande potenza moderna imputabile più di ogni altro – persino più della Germania nazista – di genocidio»[10].

Si pensi allo sterminio sistematico dei nativi americani, che non cominciò prima che le colonie si emancipassero dalla Corona inglese.

«Finché i loro territori restarono sotto amministrazione britannica, ai nativi furono concesse alcune, ancorché limitate, tutele; viceversa, una volta ottenuta la libertà e l’autogoverno, i cittadini bianchi delle ex colonie li sterminarono senza pietà per appropriarsi delle loro terre. Dunque il genocidio non è un fenomeno esclusivamente, né prevalentemente, totalitario, è un fenomeno intrinsecamente coloniale».[11]

Ma neppure lo sterminio dei pellerossa è paragonabile al trattamento riservato ai neri d’America, anche successivamente all’abolizione della schiavitù. Dopo averli forzatamente importati dall’Africa per fornire manodopera sfruttabile, le atrocità subite dai milioni di uomini, donne e bambini neri rimarranno lo stigma indelebile di una nazione tutt’oggi gravemente macchiata dal razzismo: basti pensare che nella sola Chicago le persone di colore sono oggi incarcerate con una frequenza di diciassette volte superiore ai cittadini bianchi[12]. E la tendenza non è molto diversa nel resto del Paese.

Ma, sottolinea Formenti, non bastano le ragioni economiche: sono le stesse radici culturali degli Stati Uniti a giustificare le guerre e le devastazioni da essi compiuti.

«Questi discendenti delle sette protestanti provenienti dall’Inghilterra erano e restano tuttora profondamente convinti di essere il popolo eletto, sbarcato sulle rive di una nuova Gerusalemme in cui Dio li ha chiamati a civilizzare quelle terre abitate da selvaggi e pagani».[13]

Questa credenza li guiderà nelle guerre internazionali e nella foga espansionistica (non esclusivamente militare, ma anche economica e culturale) che li anima tutt’oggi. Si tratta della teoria del “destino manifesto”: la convinzione cioè di essere un popolo eletto destinato a civilizzare prima l’America contro i barbari nativi, poi il resto del mondo. Di fatto, «la teoria del destino manifesto servirà a giustificare la politica espansionista di un Paese “forzato a intervenire” in quanto popolo altruista e pio, negli affari interni altrui per abbattere dittatori ed esportare diritti umani ovunque nel mondo»[14].

A pagarne le spese sono stati numerosi popoli in ogni continente, già a partire dalla fine dell’Ottocento durante l’invasione delle Filippine, dove forse, riporta Formenti, un milione di persone furono sterminate.

«In Corea, Vietnam, Iraq, Afghanistan i morti si contano a milioni con altissime percentuali fra i civili. Vengono sperimentate armi sempre più disumane […]. Si ricorre all’arma della menzogna per giustificare le aggressioni […]. Si promuovono, sostengono e giustificano colpi di Stato che in Cile, Argentina e altre nazioni latinoamericane insediano regimi che massacrano decine di migliaia di cittadini. Si interviene negli affari interni jugoslavi alimentando una guerra civile barbara e fratricida che porta alla disgregazione di un Paese che aveva pacificamente gestito la convivenza fra etnie e culture differenti. Si tenta di balcanizzare l’area d’influenza russa promuovendo “rivoluzioni colorate” che sfoceranno nella guerra fra Russia e Ucraina».[15]

Questi e molti altri fatti testimoniano la natura imperialistica che sta alla base della civiltà statunitense: una civiltà che ha costruito il proprio benessere a spese di milioni di nativi americani prima, sulle spalle di decine di milioni di schiavi neri poi, e infine approfittando dei rapporti di subalternità post-coloniali con i Paesi del Terzo Mondo. Alla luce di ciò risulta sconcertante l’affermazione della Hannah Arendt secondo cui categorie come colonialismo, imperialismo, genocidio non si possono applicare agli Stati Uniti d’America, in quanto nazione nata sotto una rivoluzione puramente liberaldemocratica e mai macchiata dal terrore di tipo giacobino o bolscevico. È la stessa storia degli Stati Uniti, aldilà di ogni ideologia liberale o neoliberista, a smentire tali affermazioni.

E anzi imperialismo e colonialismo sono categorie tutt’oggi imputabili esclusivamente all’Occidente capitalistico. In particolare agli Stati Uniti, che usano ripetutamente il proprio dominio monetario, economico, culturale e militare per bypassare anche le regole del diritto internazionale (noncuranti del giudizio dell’Onu) perseguendo i propri interessi a scapito dei Paesi più deboli, dei propri avversari e sovente anche dei propri alleati.


[1] C. Formenti, Guerra e rivoluzione. Le macerie dell’impero, Meltemi, Milano 2023, p. 21.

[2] Ivi, p. 109.

[3] Ivi, pp. 99-100.

[4] Ivi, pp. 102-103.

[5] A. Zhok, Critica della ragione liberale. Una filosofia della storia corrente, Meltemi, Milano 2020, p. 352.

[6] C. Formenti, Guerra e rivoluzione, cit., p. 171.

[7] Ivi, p. 174.

[8] C. Formenti, Guerra e rivoluzione, cit., p. 129.

[9] «Oppressione e sfruttamento non si danno solo fra le classi sociali all’interno dei singoli Stati, ma anche fra nazioni, per cui la lotta di classe è anche conflitto fra nazioni» (ivi, p. 131).

[10] Ivi, p. 132.

[11] Ivi, p. 134.

[12] https://www.injusticewatch.org/news/courts/2021/the-circuit-racial-disparities-explainer/ (consultato il 29.04.2023).

[13] C. Formenti, Guerra e rivoluzione, cit., p. 138

[14] Ivi, p. 139.

[15] Ivi, p. 142.