Mappe del grande mare di Massimiliano Mandorlo: una lettura

di Pietro Russo

È indubbio che la Lode, intesa come genere poetico, rappresenti una costola piuttosto importante della poesia italiana, se è vero che le origini di quest’ultima portano il segno francescano di una voce che scioglie nel canto le sofferenze terrestri per rinnovare il patto di stupore tra Io e Mondo, e quindi il rapporto tra creatura e Creatore. Mappe del grande mare di Massimiliano Mandorlo (MC edizioni, 2023), come ricorda anche Marco Vitale nella Prefazione, si pone nel solco di questa avventura della parola. L’esergo da Agostino (Serm. 34, 6) della prima sezione, Cantico terrestre, ci introduce subito alla disposizione/intenzione da cui nasce la poesia di Mandorlo: quella di un salmista che deve cantare la lode del creato, ovvero dello stesso creatore. Non si tratta, beninteso, di un dovere morale, di un imperativo della coscienza, ma di una scelta senziente e appassionata in cui possiamo riconoscere una professione di fede (e di canto) verso il «grande mare» dell’alterità.

Le formule parenetiche di questa prima parte («portami», «benedicimi», «custodiscimi», «scendi», «vieni», ecc.) riconducono infatti i versi di Mandorlo all’alveo di una orazione martellante su cui si forgia l’identità e l’esperienza del poeta-salmista. In questo senso la mappatura che egli si prefigge è il diario di bordo di un viaggiatore (che sia Cook o i Magi o Mandorlo stesso non ha importanza) che riporta, sempre con incandescenza di gratitudine, le partenze, le rotte, gli approdi e persino i naufragi di un’esperienza che sta tra la Gioia e la tensione verso una Terra incognita (titoli delle sezioni centrali del libro). La metafora della navigazione si presta quindi a rappresentare la parabola di una specie vivente sempre in bilico tra il fallimento clamoroso e la traccia di una salvezza che è della storia ma che giunge da un altro tempo e da un altro luogo.

Lasciare le proprie certezze e convinzioni fino a sradicarsi dalla «terra dei nostri padri», cioè dalla tradizione da curare e tramandare, vuol dire pensarsi nell’aperto del mare e in relazione con la vastità della creazione, e perciò correre l’azzardo di accordare credito a una voce che invita ad essere del mondo. Anche se poi il poeta ritorna alla terra paterna – che qui nello specifico ha il cuore pulsante dell’entroterra siciliano –, con queste coordinate si può leggere quella celebre pagina pascaliana sul Pari di cui arrivano gli echi all’imbarcato capitano-poeta Mandorlo, il quale scrive:

Così abbiamo lasciato

la terra dei nostri padri

e la sapienza perfetta dei libri

per metterci in cammino

e gli zoccoli dei cavalli

sollevavano la polvere

e affondavano nella terra scura

poi furono dune, dune luminose

sulla palpebra buia dell’orizzonte

e la sabbia rovente vorticava

sui nostri visi, un fuoco stellato

[…]

(p. 49)

Se il salmista arriva a sentire il «fuoco stellato» quale espressione delle forze cosmiche che guidano i suoi giorni è perché tutto l’essere, senza fratture tra corpo e pensiero-anima, possa aderire con saldezza e convinzione nella storia.

La persona che guarda le scene di un orizzonte urbano, come nella serie di prose poetiche intitolate Finestra,non è infatti un’unità separata dalla vita che gli si presenta davanti; non gli sono estranei nella quotidianità «il canto semplice della terra e le radici della gioia» (p. 109). «Cantare per Dio» e non per sé stessi è quindi il porto a cui giunge Mandorlo, navigatore troppo esperto di giorni e di nodi che fanno tana nel cuore umano per non sapere che l’espressione poetica, quando nasce da questo canto, non coincide mai con la vanità letteraria: «Nomadi, profeti, città / sottomarine incendiate / in un lampo. Tutto il resto // è letteratura» (p. 78). Puntare a dire/cantare questo incendio equivale a fornire una mappa per futuri naufraghi francescani.