La poesia e la forma del nostro tempo

Recensione a:

Salvatore Tedesco

La poesia e la forma del nostro tempo. Ontologia, poetica, storia

Meltemi, Milano 2023

Pagine 214

€20,00

di Enrico Palma

La poesia è il venire del mondo alla parola. La forma in cui il mondo è, si manifesta, si struttura, nella complessità e pluralità delle sue diramazioni. Se queste affermazioni, secche e brevi, metterebbero d’accordo i filosofi e gli estetologi di più varia estrazione, lo stesso non può dirsi per le premesse volte a motivarle e le loro implicazioni ontologiche ed estetiche. Salvatore Tedesco, in questo libro, affrontando con rigore, acume e ricchezza tre autorevoli voci poetiche del nostro tempo – Inger Christensen, Anne Carson, Maria Stepanova – fa sicuramente riflettere sulla poesia in quanto tale e su un particolare approccio teorico alla poesia stessa.

Una delle impostazioni più classiche, quella heideggeriana, afferma risolutamente che il mondo è istituito e fondato dai poeti, la loro parola è datrice di Grund, di fondamento, intorno al quale il pensiero si stabilisce, abita e dimora, per una delineazione possibile della temporalità in cui il Dasein si raccorda con il darsi onto-storico del Sein. Tuttavia, con l’originale impostazione morfologica di Tedesco, la poesia assume un altro statuto, un’altra dignità: essa viene indagata anzitutto in relazione al tempo in cui sorge, ma anche in riferimento al suo essere forma, esplicazione formale della realtà e del dinamismo che le è intrinseco, che trova nella poesia uno dei suoi vertici di senso più alti. Ascoltare i poeti, o per meglio dire auscultare la forma del mondo che tramite essi si dà a vedere nelle sue trame strutturali, diventa allora l’aspetto centrale di qualunque riflessione che si incarichi di studiare il mondo che viene al lógos, nella forma vivente che assume quando trova, letteralmente, la parola per esprimersi. La poesia, dunque, non è soltanto la pur necessaria manifestazione della forma, bensì forma e allo stesso tempo dire della sua stessa forma, una parola che è la sua forma dicendo se stessa proprio in quanto forma. La poesia, la quale è essenzialmente il germinio del mondo nella forma della parola, è quindi tale morfogenesi. Un brulicare, posto però a colloquio con la temporalità in cui accade, con la sua storia, in altre parole con la sua epoca, rispetto a cui confrontare la forma estetica con la forma mondana in cui la morphé si compie.

In questo senso, l’intento programmatico dell’autore è chiarissimo: «L’ipotesi che proveremo ad articolare in questo studio è appunto che sia possibile, e forse necessario, costruire attraverso la poesia e in dialogo con la poesia un discorso sulla forma del nostro tempo», a cui fa seguire poco più avanti: «Si tratterà dunque di costruire e mettere alla prova in questo dialogo il discorso di una estetica filosofica, il discorso di una morfologia del nostro tempo» (p. 11).

Le idee di base di Tedesco, le forme che emergono dalla lettura dell’opera delle poetesse oggetto di riflessione, sono per lo più tre: derealizzazione, decreazione e dislocazione, a cui certamente seguono molte altre, anche in riferimento a pensatori che, posti opportunamente sullo sfondo, serviranno all’autore per circostanziare la parola poetica in esame, da Schiller a Næss, da Weil all’irrinunciabile Benjamin.

Se dovessi dunque riassumere il modo in cui l’autore intende, provoca e armonizza teoreticamente le poesie analizzate in questo libro userei due possibili bussole, dentro e fuori. Voglio dire che la convinzione di fondo, il pregiudizio basale è talmente profondo da riverberarsi anche nella scelta delle poetesse da porre in dialogo tra di loro nella prospettiva filosofica della morfologia. Il farsi della forma del mondo è infatti tale da poter ravvisare in tutte le poetesse una forma comune, o per meglio dire una comunanza data dal fatto che la morfogenesi si è compiuta nella loro poesia istituendo un percorso, una linea di senso univoca, che le attraversa per intero generando peculiarità e somiglianze.

Il fuori ha invece a che fare con l’esteriorità che la forma assume grazie all’analisi in chiave estetico-morfologica, laddove l’accadere della forma, anzi tale «morfogenesi infinita» (p. 27), viene individuata e circostanziata teoreticamente nel farsi stesso della poesia. Insomma, la poesia, in questa prospettiva, è leggibile come luogo di accumulazione, spicco di senso, in cui la morfogenesi universale avviene e si rende comprensibile nel linguaggio: individuare nella poesia la forma – non solo estetica nel senso espressivo nel medium ma eminentemente sostanziale – della morfogenesi stessa. Talché, commentando la disposizione per il mondo, uno dei tratti di maggiore interesse tematico della poesia di Christensen, Tedesco afferma: «La disposizione per il mondo della poetica di Christensen si fonda sul nostro essere parte dello spazio biologico, ma appunto espone il lavoro dell’“io” poetico in quanto tramite esso il mondo vuole vedere se stesso: secondo una pluralità di strati di coscienza che trova espressione nel linguaggio poetico che per così dire è prodotto dall’essere umano allo stesso modo in cui le foglie sono prodotte dall’albero» (p. 36). In senso lato, la poesia si concreta allora come modalità, tra le più alte, attraverso cui la forma può vedere se stessa, può manifestarsi e rendersi comprensibile, tanto che la poesia di Christensen può essere definita come una «fenomenologia morfologica» (p. 38), un darsi a vedere nel quale si trova e si ottiene la sua possibilità di comprensione.

L’autore intensifica questo punto di vista insistendo ancora su tale questione: «L’impostazione morfologica di Christensen sposta decisamente l’accento verso la questione della forma del mondo (e senz’altro della sua relazione con la “forma di vita” umana, derealizzata). L’essere umano che derealizza se stesso compie un passo indietro (per riprendere l’espressione che abbiamo trovato in Schiller) riconoscendosi partecipe del darsi del mondo, partecipe della forma del mondo e proprio per questo chiamato in causa nella densità inesauribile del darsi in immagine del mondo, in una disposizione infinitamente molteplice della forma del linguaggio poetico con il mondo» (p. 47). L’umano è parte di questa forma, di tale morfogenesi generale, e la esprime in poesia dandone conto in versi, consegnandoli all’espressione e alla comprensione teoretica.

Riferendosi alla metafisica di Næss, Tedesco inquadra la poesia di Christensen all’interno di una concezione metafisica generale di cui le sue opere sono un’espressione, un dinamismo intrinseco alla natura e al mondo che si realizza in una configurazione estetica, «che si offre come relazione fra Gestalten, aprendo un ambito metodologico di dialogo fra i saperi, di integrazione reciproca e di promozione di un’immagine della realtà che radica l’uomo nel suo corpo vivente e nelle peculiari modalità dell’esperienza naturale» (p. 73). Una visione del mondo morfogenetica anche in chiave ontologica, che è la seconda delle tensioni della riflessione di Tedesco: la forma che innerva la realtà da un punto di vista strutturale, che la poesia di riflesso ripercorre e in cui si esprime.

«Aperta nell’irriducibile molteplicità delle logiche di significazione che la attraversano e la formano sempre di nuovo e della cui compresenza essa si sostanzia, la realtà appare incanto infinitamente trascolorante, ma appunto in questo incanto poetico – silente e sonoro al tempo stesso come solo è possibile nel gioco del linguaggio poetico e degli attrattori sistemici che lo attraversano – ci si scopre da sempre a casa, a casa nel mondo, nel linguaggio, nel proprio corpo che è linguaggio ed è mondo», a cui, come immediata implicazione nell’ambito poetico: «I processi morfogenetici della poesia hanno luogo appunto in tale molteplice intreccio, compresenza, consustanzialità» (p. 95). In tutto questo, la scrittura poetica si configura come genesi e attribuzione di ordine al mondo, di produzione e coglimento della forma. Uno degli esiti del volume può considerarsi allora il farsi dell’immagine umana, nella fattispecie dell’immagine poetica, come veduta filosofica privilegiata sul mondo, talché, con l’impegno ontologico della poesia, «l’immagine umana diviene occhio del mondo» (p. 119).

Recuperando la lezione di Weil, Tedesco, a proposito di Anne Carson, si sofferma sui concetti di derealizzazione e di silenzio, quest’ultimo inteso come il dissolvimento della presenza umana nel mondo lasciando spazio alla natura e alla processualità della morfogenesi, in cui «la decreazione dunque si compie come un arrestarsi, un silenzio fisico-metafisico dell’identità umana» (p. 144). La poesia è espressione della forma, svuotamento kenotico dell’identità umana in favore dell’emersione del farsi del mondo nella pluralità delle sue strutture, e insieme a ciò tentativo imprescindibile di abitare nella vertigine abissale che si dispiega successivamente alla dissolvenza: con Maria Stepanova all’irreversibile processo fisico-chimico della disgregazione della vita, del transitare delle forme verso altre forme avendo la morte come parentesi, soglia necessaria, uno scenario in cui «l’animato e l’inanimato si ridestano insieme secondo quella che non si può fare a meno di descrivere come una prospettiva messianica» (p. 165). La poesia è la forma dell’avvenire di una mancanza, un formarsi liminare, un sapere di confine, tra ontologia e storia, tra l’essere e il tempo.

Questo libro ha il pregio, oltre a una riflessione puntuale e argomentata dal punto di vista morfologico e storico-ontologico, di proporre un’ampia selezione di testi che va molto oltre la mera citazione documentaria. Dei tanti versi, formule, prose su cui Tedesco medita, suggerisco di sostare su una in particolare di Christensen, secondo la quale «la vita è una scrittura all’interno della morte» (p. 29). Rimanendo nel solco morfologico del testo, la vita è produzione di forma collocata all’interno di una morfogenesi più generale della natura, del mondo nella sua totalità, che si compie nel medium strutturante della scrittura, che esprime, organizza e comprende. Vita/scrittura che si derealizza, si decrea, si disloca, nell’infinita dinamica della forma, ma inclusa nel processo fisico, chimico e biologico della morfogenesi, il quale è leggibile come morte nel duplice senso del divenire irreversibile, che avviene internamente al sé, e del dissolvimento dell’identità nella parola. In ultima analisi, la vita umana come produzione di immagini, figure, versi, è scrittura originaria come generazione di forme all’interno del processo universale della morfogenesi del mondo, immagine che immagina se stessa, parola che parla di sé, forma che ripiega sul suo stesso processo di formazione.

Quella di Tedesco si articola quindi come una riflessione certamente estetica sulle forme che il mondo produce nella particolare espressione della poesia, ma direi anche come una riflessione teoretica in senso generale, poiché lo studio accorato, prossimale e relazionale della poesia diviene un dialogo profondo delle forme particolari in cui la morfogenesi del mondo si compie e si esplica, un’analisi della sua estetica come indagine del pensiero del tempo storico e delle forme nelle quali viene a essere, in cui trovano posto anche l’apprensione per la guerra in Ucraina e le ansie per i presunti nuovi (ne)fasti della politica italiana.

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