L’importanza della “Continuazione con cambiamento di direzione” nella storia del pensiero umano

 

di Dario Rivo

 

Si potrebbe dare il via al presente saggio rifacendosi alla premessa con la quale Sesto Empirico – nei suoi Schizzi pirroniani – si accinse a delineare l’indirizzo scettico e a descriverne i criteri, i principi e il suo stesso fine, scrivendo, su questa scia, che di una riflessione a partire da La crisi della coscienza europea di Paul Hazard ci occuperemo «sommariamente ora noi, premettendo che nulla di quanto sarà detto intenderemo affermare che sia proprio così come noi diremo, ma, con intento investigativo, intorno a ciascuna cosa riferiremo quello che al presente ci pare»[1]. Se inizialmente si accennerà ad una delle grandi problematiche emerse dall’opera di Hazard, quella relativa al “pirronismo storico”, l’obbiettivo principale sarà quello di soffermarsi sull’importanza del ruolo svolto dal pirronismo nei dibattiti religiosi del passato e tentare, così, di comprendere alcuni dei punti salienti del tragitto che esso ha dovuto percorrere prima di arrivare ad influire sulla ridefinizione del modo di ricostruire la storia.

L’intento è, infatti, quello di investigare circa tale ambito, partendo sì dalle considerazioni hazardiane, ma senza per questo limitarsi semplicemente a riportare la sua analisi e, dunque, cercando di ampliare il raggio di tale indagine attraverso alcuni richiami al contributo offertoci da un altro studioso: Richard H. Popkin – che nella sua Storia del Pirronismo denuncerà una «clamorosa svista»[2] da parte degli storici, ritenuti colpevoli di non essersi resi conto dell’importanza ricoperta dallo scetticismo già a partire dal XVI secolo, nonché delle influenti conseguenze critiche innescate proprio dalla sua ripresa. Per cominciare, va notato come Hazard, forgiando tutta la sua maestria nell’adottare una metodologia comparativa per quel che riguarda i più svariati ambiti della storia e della geografia culturale, esordisce volgendo lo sguardo ai mutamenti psicologici che caratterizzarono il XVII secolo ed esponendo quella che parrebbe rappresentare la base dell’intera “crisi della coscienza europea”: la messa in dubbio di quei canoni che, tradizionalmente, si era stati soliti utilizzare per interpretare la realtà e, dunque, per definire l’identità europea tutta.

A tal proposito, ai fini della trattazione, sarà sufficiente sottolineare il seguente aspetto: l’europeo, durante quel periodo, si ritrovò faccia a faccia con lo “straniero”, e quest’ultimo, selvaggio o civilizzato qual era, divenne inequivocabilmente il rappresentante di un’alterità piuttosto problematica. Ecco, la messa in rassegna di tutta quella diversità generò dubbio. Quale modo di vivere poteva considerarsi il più meritevole di un’approvata ammirazione? E anche se Hazard, a questo punto, non indugerebbe ad accompagnarci lungo i sentieri ideologici delle diverse culture in questione, facendoci riesplorare America, Turchia, Persia e Cina in un sol viaggio, qui ci si limiterà a ricordare soltanto che il modello europeo veniva pericolosamente messo in dubbio attraverso il confronto con le possibili o, meglio, con le già esistenti alternative, presenti e reali nel resto del mondo. «Arrivarono, quegli Stranieri-Simboli; arrivarono con le loro leggi, i loro valori originali; e s’imposero all’attenzione di un’Europa avida di interrogarli sulla loro storia e sulla loro religione»[3] – scrive Hazard. Storie e religioni non combacianti, dunque, confermarono la relatività delle verità storiche che fino a quel momento erano state ritenute assolutamente valide; dal confronto con le storie di altri popoli si comprese che il metodo con il quale si erano ricostruite le tradizioni passate non garantiva nessun tipo di certezza: al contrario, si cominciò a dubitare tanto della storia romana quanto di quella greca, e ad avvertire il bisogno di «correggere, con gran dolore, la fallace immagine di quegli amici tanto cari. Forse, anzi, bisognava piegarsi ad ammettere che non erano che fantasmi»[4].

A questo punto, come narra lo stesso Hazard, si tentò invano di eludere la stanchezza del dubbio e riposare, poggiando su un punto di riferimento che teoricamente avrebbe dovuto essere più saldo rispetto ai suddetti, quello costituito dalla «storia dettata da Dio»[5]; ma come fare i conti con le evidenti incongruenze cronologiche tra, ad esempio, la storia d’Egitto e quella delle Sacre Scritture? Bisognava dar credito a delle ricostruzioni eseguite da personalità che, come il Bousset, miravano a ricreare un sistema temporale che giustificasse le verità religiose, senza perciò tener conto delle manipolazioni strategiche – comode, più che vere – esercitate da codesti ai danni di date, personaggi ed eventi affinché il passato risultasse subordinatamente indirizzato alla storia cristiana? Oppure si doveva incoraggiare quello che pareva essere l’interminabile lavoro degli eruditi dell’epoca, che con la loro dettagliata e maniacale ricerca di fonti utili affinché «si sappia senza supporre» e «si affermi senza mentire»[6], non apparivano tuttavia in grado, almeno agli occhi di Hazard, di usufruire della loro documentazione per ricostruire una visione storica d’insieme? Insomma, il dubbio regnava sovrano e la questione pareva essere insolubile, se non in maniera negativa attraverso una drastica e definitiva rottura con il passato.

* * *

Occorreva necessariamente trovare un criterio di verità, e questa esigenza scaturì non solo dal confronto con le culture straniere e le loro ricostruzioni storiche, ma anche dalle stesse dispute “interne” all’ambiente europeo – una su tutte, quella religiosa. Non a caso, Popkin fa coincidere «la riscoperta degli antichi scettici greci» con la grande «crisi intellettuale innescata dalla Riforma»[7], cercando di ricostruire il rapporto e la correlazione solo apparentemente contraddittoria tra scetticismo e fideismo, tra sospensione del giudizio e fede, tra il rifiuto di ogni forma di credenza tradizionale e l’irrazionale religiosità con la quale si accettano i principi divini.

Occorrerà, dunque, accennare brevemente al motivo per cui avvenne la disputa tra Erasmo da Rotterdam e Martin Lutero, così da far chiarezza sul modo in cui i due iniziarono ad avvalersi delle tesi scettiche tornate in auge in quegli anni grazie alla diffusione degli scritti di Sesto Empirico, oltre che sui due Leitmotiv pirroniani che, a parer di chi scrive, svolsero un ruolo rilevante ma fondamentalmente invariato, almeno fino all’avvento della svolta risolutiva messa in atto ad opera di Cartesio. In particolar modo, tale disputa era incentrata sul problema relativo all’individuazione di una “regula fidei”, ovvero al riconoscimento di un valido criterio di valutazione per quel che concerne la conoscenza religiosa. In tale confronto, da un lato vi erano i cattolici che accettavano i principi dogmatici redatti dall’autorità papale e dall’altro i protestanti, guidati da Lutero, che si rifiutavano di accettare tali principi rivendicandoli in nome di una interpretazione soggettiva effettuata tramite la lettura diretta della Bibbia. È interessante notare, prima ancora di fornire ulteriori dettagli in merito alla disputa che si intende prendere in considerazione, come nella sua Storia dello scetticismo l’autore metta in luce un altro “eroe” del pensiero moderno per dirla in termini hazardiani: Michel de Montaigne, meritevole del suddetto ruolo metaforico per il fatto di essere stato in grado, a differenza degli scettici anti-intellettualisti del Cinquecento che lo hanno preceduto, di esporre le proprie tesi scettiche attraverso l’utilizzo della ragione. Per quale motivo questa osservazione ricopre un’importanza di un certo calibro? Semplicemente perché permette di sottolineare il fatto che Erasmo non sia riuscito ad avallare le pretese luterane attraverso solide argomentazioni; egli infatti, da quanto implicitamente emerge dalla ricostruzione di Popkin, non fu in grado di riprendere uno degli enunciati emersi dal lavoro di Sesto Empirico e utilizzarlo adeguatamente nei confronti dell’argomentazione luterana: quello relativo al cosiddetto “andamento circolare”, esplicato dallo stesso autore greco nel paragrafo quarto del libro secondo della sua opera, in cui scrive che

affinché si possa dirimere il disaccordo che esiste intorno al criterio, bisogna che si abbia un criterio come ammesso, per mezzo del quale lo si possa dirimere. Ma perché noi si possa avere un criterio come ammesso, bisogna, prima, dirimere il disaccordo intorno al criterio. Così, cadendo il discorso nel diallele, la scoperta del criterio diviene impossibile, dacché noi non permettiamo agli avversari di assumere un criterio per ipotesi, e se vogliono giudicare il criterio con il criterio, li ricacciamo all’infinito[8].

In poche parole: risulterebbe impossibile smentire un criterio utilizzando un criterio che non sia smentibile. Lutero “inciampa” su questo principio e, in contemporanea, Erasmo non riesce a tirar su un’argomentazione razionalmente valida contro l’atteggiamento luterano. Lutero infatti, rifiutando i dogmi cattolici dettati dalle autorità clericali, dettava a sua volta le sue “verità” interpretative inerenti alla Sacra Scrittura giustificandole attraverso una sorta di soggettivismo che, con il contributo giunto dalla dottrina calvinista, verteva sulla mera persuasione interiore, di modo tale che si finiva per ritrovarsi intrappolati in un circolo vizioso: «garanzia dell’autenticità della persuasione interiore è il fatto che sia causata da Dio; e che sia causata da Dio lo sappiamo per persuasione interiore»[9] – è proprio per tale ragione che i riformatori furono da alcuni considerati degli «scettici travestiti»[10]. D’altro canto, quando nel suo Elogio della follia – in un paragrafo intitolato La felicità dipende da quello che crediamo – Erasmo scrive che siamo noi ad attribuire un valore al contesto di cui facciamo parte, e che sono «privi di buon senso quanti ripongono la felicità dell’uomo nella realtà delle cose» perché «essa dipende dalle opinioni», e che, dunque, «l’animo umano […] è fatto in modo tale che i falsi ornamenti lo catturano molto più della verità»[11], egli non sta facendo altro che limitarsi a proclamare l’inutilità relativa a qualsiasi tentativo razionale atto a stabilire la veridicità della realtà. La ragione, per Erasmo, “non è in grado di” conoscere la realtà terrena, né tantomeno quella ultraterrena. Difatti, subito dopo, l’autore rincalca la dose:

Che differenza pensate vi sia fra coloro che nella caverna di Platone contemplano le ombre e le immagini delle varie cose, senza desideri, paghi della propria condizione, e il sapiente che, uscito dalla caverna, vede la verità delle cose? […] Non c’è differenza, o, se ce n’è, la condizione dei folli è preferibile. Innanzitutto perché la loro felicità costa ad essi ben poco, solo un pizzico di persuasione; secondariamente la condividono con molti[12].

Ed eccoci giunti al secondo Leitmotiv a cui si è fatto riferimento in precedenza, l’accettazione passiva e la condivisione della forma di saggezza proclamata dalla chiesa cattolica. Il “viver secondo gli usi e i costumi” viene ripreso e accettato anche da Montaigne, per il quale il conservatorismo pirroniano costituisce «la conquista umana ad un tempo più alta e più compatibile con la religione»[13]. Difatti la speculazione di Montaigne parrebbe, di primo acchito, riproporre le tesi di Erasmo e attribuire alla fede priorità assoluta rispetto alla ragione. Va sottolineata però, a questo punto, la capacità con la quale Montaigne nell’Apologia di Raymond Sebond, con lo scopo di difendere e giustificare il razionalismo teologico di quest’ultimo, afferma sì che la religione deve basarsi solo ed esclusivamente sulla fede ma, allo stesso tempo, aggiunge umilmente che «non c’è nulla di male nell’usare la ragione a sostegno della fede»[14] una volta che l’esistenza di Dio sia già stata accettata fideisticamente. Dopodiché, usufruendo di quasi tutti gli argomenti pirroniani presenti nell’opera di Sesto Empirico[15], egli sviluppa «il suo pirronismo radicale sulla base di una sequenza di livelli di dubbio culminanti in alcune difficoltà filosofiche cruciali»[16], riuscendo così a demolire ogni ipotetica forma di certezza derivante dall’attività razionale (dalle conoscenze relative all’ambito teologico a quelle derivanti dall’umanesimo o, ancora, dall’attività sensoriale), attraverso, paradossalmente, l’utilizzo della stessa capacità raziocinante.

Ma la cosa fondamentale da comprendere è come la dimostrazione che tutto è dubbio di Montaigne possa rappresentare una sorta di invito, nei confronti di coloro che sostengono che la ragione umana sia “in grado di” decifrare la realtà, a dimostrare come sia possibile che questo avvenga. Il ché significherebbe sostenere, ancora una volta, che risulta impossibile smentire un criterio utilizzando un criterio razionale che non sia smentibile. Ma a differenza di quanto fatto da Erasmo, Montaigne non chiude la questione condannando a priori la razionalità, ma motivando piuttosto – forse persino involontariamente – tutti coloro si ritengano in grado di smentire le sue dimostrazioni razionali relative al dubbio rintracciando un criterio ragionevolmente valido, ad argomentare in favore della giustificabilità di quest’ultimo. Non a caso, Popkin attribuisce la radice del pensiero moderno all’opera di Montaigne, in quanto da essa «ne scaturì il tentativo di trovare o una confutazione del pirronismo o un modo per conviverci»[17]. E Cartesio addirittura ci convisse per far sì di confutarlo. Se, come scrive Popkin, «Lutero aveva aperto un vaso di Pandora»[18] sollevando la questione relativa al modo in cui giustificare il fondamento della propria conoscenza, Cartesio – grazie anche all’influsso, diretto e non, di molti pensatori che non sono qui stati presi in considerazione – questo vaso finisce per chiuderlo individuando un criterio di verità valido su cui fondare «un sistema di conoscenze vere sulla realtà»[19]. Egli, riuscendo ad utilizzare il dubbio sottoforma di strumento utile all’acquisizione della certezza, arrivò ad eludere l’andamento circolare di cui si è già discusso. In che modo? Spingendo lo scetticismo fino ai limiti della capacità umana e oscillando tra il dubbio iperbolico e quello metodico, il filosofo riesce finalmente a rintracciare una certezza indubitabile: il «penso dunque sono»[20] – eccoci dinnanzi al criterio di verità chiaro e distinto che «ci permette di scoprire le premesse di un sistema metafisico di conoscenze vere, che a sua volta dà fondamento a un sistema fisico di conoscenze vere»[21].

Fu così che l’utilizzo delle tesi scettiche attraverso cui inizialmente si mirava a proclamare la vittoria del dubbio su tutto e a demolire l’idea di una ragione intesa come strumento attraverso il quale interpretare con certezza la realtà, finì per generare esattamente il risultato opposto, contribuendo alla formulazione di una ragione intesa come forza assoluta “in grado di” raggiungere ogni forma di verità possibile: la ragione di matrice cartesiana. Quest’ultima, una volta scoperta l’evidenza del cogito in grado di condurla a Dio e aver trovato in lui la garanzia completa della sua stessa conoscenza, sembrava poter essere in grado di volgere infallibilmente lo sguardo verso l’intero universo meccanicistico. E anche se Cartesio nella terza parte del Discorso sul metodo scrive di voler «obbedire alle leggi e ai costumi del […] (suo) paese, conservando fedelmente la religione in cui Dio […] (gli) ha fatto la grazia di essere educato fin dall’infanzia»[22], va tenuto bene a mente che il fine di Cartesio non è l’atarassia, né tantomeno una qualche forma di fideismo, ma che egli teorizza le regole della sua morale provvisoria affinché possa serenamente continuare a dedicarsi alla distruzione di tutte quelle opinioni prive di fondamenta valide, e istituirne di nuove in virtù del corretto utilizzo della ragione attraverso le quattro regole del metodo. Dunque il conservazionismo pirroniano decade, in quanto soltanto “provvisorio”, e insieme ad esso, par perdere il suo valore anche la disciplina storica: quest’ultima non apparterrebbe a quell’ambito di conoscenze chiare e distinte esaminabili attraverso il metodo. È proprio su tale motivazione che verte la denuncia hazardiana relativa al rifiuto che sarebbe avvenuto nei confronti della storia per mano dei cartesiani[23].

* * *

La cosa che urge d’esser messa in evidenza però, per concludere, è che così come il percorso intrapreso agli albori dagli scettici finisce per approdare ad una meta totalmente opposta a quella che questi si erano inizialmente prefissati, allo stesso modo Cartesio, pur escludendo la storia dall’ambito delle conoscenze sicure a cui il suo metodo permetteva di pervenire, finì per contribuire all’evoluzione e al miglioramento della stessa disciplina storiografica. La ragione di Cartesio alla fine approdò alla certezza, ma per riuscire a far ciò, bisogna pur ammettere che essa trovò la strada tracciata dallo scetticismo e che fece in compagnia di quest’ultimo buona parte del suo cammino. E questa stessa osservazione, potrebbe esser fatta anche per quel che riguarda il pirronismo storico e l’esercizio della critica sul materiale storico, o ancora, a un livello più generale, per ciascuna delle verità parziali che derivano da qualsiasi altra esperienza di pensiero sulla realtà, perché, come scrive Ortega y Gasset:

Ciascuna è una “via” o un “cammino” […] attraverso il quale si ripercorre un tratto di verità e se ne contempla un aspetto. Ma si arriva ad un punto nel quale, per quel cammino, non si può andare oltre. È necessario tentarne uno diverso. Ma, per essere diverso, è ineludibile considerare il primo e, in questo senso, è una sua continuazione con cambiamento di direzione[24].

Per quanto riguarda la suddetta “continuazione con cambiamento di direzione”, emblematico è l’esempio di Spinoza, con la sua scelta di applicare il «metodo critico della scienza cartesiana (anche) al contenuto del documento biblico»[25] e dunque di fornire una lettura ben precisa anche per quel che concerne la storia sacra che, in tal modo, diveniva profana. Ma seguendo questo tipo di ragionamento infatti, è anche possibile notare come Cartesio e i suoi discepoli si sarebbero rivelati utili alla ridefinizione della disciplina relativa alla ricerca e alla ricostruzione storica.

Non a caso Carlo Borghero, nel saggio intitolato Il pirronismo storico ottant’anni dopo Paul Hazard – in cui si propone di smentire quel «triplice rifiuto» che secondo Hazard «sarebbe venuto nei confronti della storia dall’azione congiunta di libertinismo, cartesianesimo e giansenismo»[26] – mette subito in evidenza come nel XVII secolo Nicolas Frèret faccia riferimento alla “critica” contrapponendola al modello geometrico cartesiano, scrivendo che essa coincide con «lo spirito filosofico “applicato alla discussione sui fatti”» e aggiungendo che «se la critica ha fornito i fatti […] sui quali la filosofia lavora, quest’ultima ha illuminato la critica insegnandole a dubitare, a sospendere il giudizio, a essere esigente nella valutazione delle prove e del loro grado di certezza»[27]. Tale riferimento soltanto, basta ad affermare che il pensiero cartesiano, scaturito dall’iniziale volontà distruttiva del pirronismo, ha anch’esso contribuito ad una qualche forma di “costruzione” nella ridefinizione della disciplina storica e del suo modo di guardare ai fatti del passato, fornendo così le basi per un nuovo preziosissimo e inevitabile ciclo di distruzione(critica)/costruzione(storica), fondamentale ai fini dello sviluppo del pensiero e delle attività umane.

[L’immagine è frutto del lavoro di Mystic Art Design]


[1] S. Empirico, Schizzi pirroniani, a c. di A. Russo, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 3.

[2] S. Morini, Introduzione, in R. Popkin, Storia dello scetticismo, Mondandori, Milano 2000, p. VII.

[3] P. Hazard, La crisi della coscienza europea, UTET, Torino 2007, p. 10.

[4] Ivi, p. 29.

[5] Ivi, p. 30.

[6] Ivi, p. 38.

[7] R. Popkin, Storia dello scetticismo, cit., p. 4.

[8] S. Empirico, Schizzi pirroniani, cit., p. 64.

[9] R. Popkin, Storia dello scetticismo, cit., p. 18.

[10] Ivi, p. 16.

[11] D. Erasmo, Elogio della follia, a c. di M. Lacertosa, Feltrinelli, Milano 2020, p. 82.

[12] Ivi, p. 83.

[13] R. Popkin, Storia dello scetticismo, cit., p. 64.

[14] Ivi, p. 61.

[15] Si rimanda a S. Empirico, Schizzi pirroniani, cit., p 12, per un approfondimento circa I dieci modi «che si riferiscono: 1° alla varietà che si nota negli animali; 2° alle differenze che si riscontrano negli uomini; 3°alle diverse costituzioni dei sensi; 4° alle circostanze; 5° alle posizioni, agl’intervalli, ai luoghi; 6° alle mescolanze; 7° alle quantità e composizioni degli oggetti; 8° alla relazione; 9° al verificarsi continuamente o di rado; 10° alle istituzioni, costumanze, leggi, credenze religiose e opinioni dogmatiche».

[16] R. Popkin, Storia dello scetticismo, cit., p. 71.

[17] Ivi, p. 72.

[18] Ivi, p. 24.

[19] Ivi, p. 213.

[20] R. Descartes, Discorso sul metodo, Laterza, Bari-Roma 1998, p. 45.

[21] R. Popkin, Storia dello scetticismo, cit., p. 214.

[22] R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., p. 31.

[23] Cfr. P. Hazard, La crisi della coscienza europea, cit., p. 27.

[24] J. Ortega y Gasset, Idee per una storia della filosofia, a c. di A. Savignano, Sansoni, Firenze 1983, p. 117.

[25] R. Popkin, Storia dello scetticismo, cit., p. 271.

[26] C. Borghero, Il pirronismo storico ottant’anni dopo Paul Hazard, in M. Forlivesi (a cura di), La filosofia e la sua storia. Studi in onore di Gregorio Piaia,, Tomo primo, CLEUP, Padova 2017, p. 312.

[27] Ivi, p. 298.

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