Viaggio nell’Italia dell’Antropocene

Recensione a:

Telmo Pievani, Mauro Varotto

Viaggio nell’Italia dell’Antropocene. La geografia visionaria del nostro futuro

Aboca, Sansepolcro (AR) 2021

Pagine 189

€ 22,00           

di Mattia Spanò

Recarsi al Museo di Geografia dell’Università di Padova – il primo museo geografico universitario italiano – può rivelarsi un’esperienza destabilizzante e, in quanto tale, ristabilizzante. Soprattutto se, addentrandosi nella sala dedicata al clima, ci si sofferma sulla mappa che, nel 1940, il geografo Bruno Castiglioni ha realizzato per i tipi del Touring Club Italiano. Il gesto cartografico restituisce la probabile ricostruzione del territorio italiano in due momenti radicalmente diversi: il tardo pliocene (2,5 milioni di anni fa circa), epoca di massima espansione marina, che mostra un’Italia ben più snella e frammentata dell’odierna; e la glaciazione würmiana, situabile intorno a ventimila anni fa, che ci presenta – ancora e sempre in via ipotetica – un’Italia di gran lunga più estesa territorialmente e, dunque, maggiormente massiccia rispetto a quella che conosciamo. Due realtà geografiche abissalmente distanti dall’assetto complessivo del paese che Johann Wolfgang Goethe ha attraversato tra 1786 e 1788 e raccontato nel Viaggio in Italia, a sua volta paesaggisticamente distante dal modo in cui il Belpaese si presenta oggi. Tutto ciò riporta ad una veduta prospettica di rara frequentazione, dunque tanto destabilizzante quanto ristabilizzante per chiunque, oggi, tenti di approcciarsi a questioni ambientali, perché

[…] ci ricorda che la realtà geografica che chiamiamo Italia è stata nei millenni estremamente mobile, per ragioni tettoniche, morfogenetiche, climatiche, e in ultimo anche antropiche, dal momento che oggi – secondo i geologi – ci troviamo alle soglie di una nuova era, l’Antropocene, in cui è l’uomo stesso a modificare sensibilmente gli equilibri ereditati, con una accelerazione inedita verso una nuova fase calda planetaria (p. 7).

Ed è proprio su questa trama che, nell’asse d’incrocio tra le mappe di Bruno Castiglioni e il Gran Tour intrapreso tra Goethe, si scompagina il momento inaugurale del rinnovato itinerario teoretico-geografico che Telmo Pievani e Mauro Varotto tracciano nel volume Viaggio nell’Italia dell’Antropocene. L’opera si configura come un percorso variegato e multiscalare in termini di contenuti, stili e codici nell’avvicendamento di materiale narrativo, saggistico e figurativo: il racconto di Pievani – un «viaggio semiserio per l’Italia del XXVIII secolo» che «ricalca le orme del Viaggio in Italia fatto, esattamente mille anni prima, da Johann Wolfgang Goethe» (pp. 8-13) – si intreccia, infatti, con le sezioni di approfondimento scientifico curate da Varotto ed è restituito visivamente dalle carte geografiche redatte da Francesco Ferrarese. Da queste ultime emerge un’Italia, in un ipotetico 2786, dall’assetto morfologico-territoriale usurato, ristretto, frammentato, ruvido – non distante dall’ancora più condensata conformazione dell’Italia pliocenica raccontata dalle mappe di Castiglione –, risultato mobile dell’ipotizzata «fusione completa delle calotte polari» (p. 28).

Un paese invaso dal mare, precipuamente collinare e montuoso – alla pianura spetterebbe solo il 7% dell’intero territorio – «in condizioni morfologiche e climatiche assai più difficili e precarie», che costringerebbe i suoi abitanti ad un ripiegamento verso l’interno se non, addirittura, «a un esodo di proporzioni bibliche verso il nord e l’Europa continentale» (p. 29). Una nazione, che presenta oggi «la più alta biodiversità di tutta l’Europa» (p. 38), impoverita dalla distruzione «in mille anni» del «75% di tutte le forme di vita, a causa di: deforestazione, perdita di specie, frammentazioni degli habitat, mancanza di ossigeno nelle acque costiere, concentrazioni di plastiche» (p. 76); ma ancora capace di custodire tenacemente, abbarbicandosi ad ogni appiglio possibile, storie, monumenti e tradizioni: come la cultura gastronomica, resistente «a tutti i cambiamenti, compensando la riduzione della biodiversità dei prodotti locali tipici […] con l’evoluzione delle tecniche gastronomiche» (pp. 160-161); o nel caso di Venezia che, totalmente sommersa da un Adriatico ormai diventato mare Padano, riesce a salvaguardare – con regolari manutenzioni subacquee – il Campanile di San Marco, «dopo quattrocento anni di immersione […] ancora lì a segnare il centro di un mondo che non c’era più, a indicare il cuore di una creatura ibrida, fatta di laguna, di calli e di eleganti palazzi signorili, che aveva smesso di battere» (p. 25); e, ancora, con la costruzione, sulla riviera emiliana, di «splendide città palafitticole, collegate alla terraferma da magnifici ponti sospesi, ognuna brulicante di vita, con i suoi monumenti sopraelevati» (p. 56) e «ristrutturando tutto il ristrutturabile e poi costruendo ex novo praticamente in ogni anfratto e calanco abitabile, lavorando in smart working da casa e mandando i figli alla scuola digitale» (p. 57). Forme – queste – più o meno virtuose di contrazione e riconfigurazione territoriale forzata, laddove concesse dalla, di volta in volta attuale, congiuntura complessiva e dalle modalità attraverso cui l’uomo elabora la propria gettatezza.

Ecco, dunque, Roma, «persino lei, avvinta dal ritmo universale del 2786, trasformatasi in una parvenza del passato che dialoga con un presente che ancora non si capisce cos’è, perché muta incessantemente» (p. 114), da un lato; «le popolazioni adriatiche […] in grado di ripensare in modo costruttivo il loro rapporto con l’acqua» (p. 97), dall’altro; e, ancora, i brulli e aridi fiordi mediterranei e un’isola Salentina tropicalizzata, transitando per una spoglia e cupa Sila – oggi foreste e distese boschive ricoprono oltre l’80% dei 74000 ettari d’estensione del Parco Nazionale – per poi approdare in una Sicilia ripiegata all’interno a causa dell’innalzamento dei mari e «ormai per gran parte un deserto roccioso del tutto simile a quello libico e tunisino» (p. 178). Per queste ed altre ragioni, l’Italia raccontata da Telmo Pievani si presenta, nel 2786, come «un caso di studio affrontato in tutti i corsi universitari al mondo sull’Antropocene» (p. 37) e meta ambita dei rinnovati Gran Tour, tornati di moda alla fine degli anni Settanta del XXVIII secolo. Tra spostamenti in battello e su aliscafi a fusione nucleare – a pelo d’acqua – vedute panoramiche dalle cabine di aerei elettrici, tragitti profondi resi repentini da treni superveloci a lievitazione magnetica e tracciati percorsi su corriere a idrogeno, sprazzi di quest’Italia distopica sono raccolti a unità complessiva[1] dal giovane turista mitteleuropeo Milordo.

Ma se e in che misura il drammatico scenario delineato da Telmo Pievani potrà inverarsi? Difficile stabilirlo, se non in linea di principio: in tal caso si può azzardare una risposta affermativa, in ragione del fatto che, nel corso della storia, quanto prospettato è già accaduto a più riprese, ad intensità e su piani estremamente diversificati. Se invece analizzato sotto il rispetto «di dati e previsioni attuali […] uno scenario come quello attraversato dal viaggiatore Milordo è da ritenersi scientificamente irreale e imprevedibile, perché basato su una ipotesi di contesto invariato su diverse scale» (pp. 30-31), entro la cui cornice intervengono complesse architetture d’interazione tra forzanti astronomiche, terrestri e antropogeniche. Tuttavia, «fantascienza, riflessione scientifica e giocosità picaresca» – sul cui tessuto intrecciato si dirama il Viaggio nell’Italia dell’Antropocene – «prefigurano alcuni degli scenari che ci attendono se la nostra azione rimarrà sorda ai moniti di studiosi, scienziati e organizzazioni internazionali», proposti, «riflettendo sulle ricadute climatiche e ambientali del nostro attuale modello di sviluppo e stile di vita» (p. 13). Perché – e questo è uno dei principali nuclei speculativi dell’opera – a differenza di ciò che, sul manto di diverse cause e conseguenze, si è già verificato nel corso di millenni, nell’attuale scenario Homo sapiens si configura come una delle principali forze biologiche e geologiche del pianeta, capace di modificarne struttura e processi come non è mai accaduto in termini di rapidità ed ampiezza delle conseguenze.

In questo scenario complessivo, affiora prepotentemente l’intervento di approfondimento contrappuntistico di Mauro Varotto che, nell’attraversamento delle più recenti rilevazioni sul cambiamento climatico, passa al setaccio – tra passato, presente e futuro – dati e previsioni che riguardano, su scale diverse, il territorio italiano. Si tratta di un’operazione di fondamentale importanza, atta a restituire nitidezza spaziale ad un lavoro che attualmente si svolge in larga misura entro modelli di portata globale, restituiti – in questo caso – nel peculiare impatto su un’area territoriale specifica e, in ragione di ciò, configurantesi nella figura mobile di una vivida immagine in cammino (ritorna, in tal senso, l’intreccio sinestetico con gli spunti cartografico-narrativi). Data la complessiva disomogeneità e le significative discrepanze di innesco, gestione e conseguenze dell’attuale intervento umano sul pianeta al variare di luoghi e tempi, è necessario che l’analisi su scala globale si coniughi con un approccio volto a «“territorializzare l’Antropocene”, cioè imparare a spiegare come le grandi questioni dell’Antropocene avvengono e si diversificano in luoghi e sistemi territoriali»[2]. L’Italia, allora, è da contestualizzare in una regione, quella mediterranea, «considerata uno degli “hot spot” del cambiamento climatico, con un riscaldamento che potrebbe superare del 20% l’incremento medio globale» (p. 63). Ecco, dunque, l’articolarsi di un tracciato sinusoidale in cui il contesto globale precipita, e viene a significato tangibile, nel territorio italiano: dalla riduzione dei ghiacciai – fenomeno strettamente intrecciato all’alterazione della disponibilità d’acqua dolce e degli apporti idrici stagionali – al rischio di incorrere in periodi di siccità sempre più estesi e in dannosi mutamenti nel regime delle precipitazioni; dall’innalzamento del livello del mare – accompagnato dalla crescita di temperatura e tasso di acidità dello stesso – all’intensificazione, in termini di ricorrenza ed intensità, di eventi estremi quali inondazioni, incendi e tempeste tropicali; transitando, ancora, dalla necessità di accogliere il fenomeno della desertificazione – «già presente nel nostro Paese, eppure trascurato e frainteso» (p. 163) – con la dovuta perizia e dall’impellente esigenza di «rifondare il concetto di urbanità, rendendolo più poroso, rarefatto, efficiente, per uscire dal circolo vizioso in cui sono finiti i nostri centri abitati: realtà urbane vulnerabili e sempre più esposte agli effetti di un clima che cambia, e insieme principali responsabili delle emissioni di gas serra e dunque artefici del loro stesso tragico destino» (p. 122).

Si tratta, dunque, di un invito alla complessità che si scompagina, al contempo, nella sua co-costituzionale declinazione prassica che restituisce tono e titolo all’ultima sezione del volume – Take part! Facciamo la nostra parte –, nel corso della quale gli autori indicano, tra macroaree e scenari quotidiani, il respiro di una manovra corale volta a «fugare le prospettive più catastrofiche per il clima planetario» che «per essere efficace dovrebbe coinvolgere tutte le scale, da quella politica a quella planetaria a quella dei comportamenti del singolo individuo» (p. 183). 

Ecco che, allora, al pari di una visita al Museo di Geografia dell’Università di Padova, questo Viaggio nell’Italia dell’Antropocene ci destabilizza e, al contempo, ristabilizza; perché eleva a immagine eloquente un fatto di fondamentale importanza, che sarebbe eccessivamente riduttivo vincolare alla sola esperienza umana: la vita senza ulteriori caratterizzazioni – ciò che i greci definivano zoè, della quale ogni bìos non è che un frammento – si dà, da sempre, in guisa di un orizzonte pregno di stimoli continui che suscita, in ogni forma di vita, delle risposte. In altri termini, il mondo-ambiente parla, trovando una peculiare soglia di comunicazione nell’ente in cui la natura ha raggiunto l’occasione di intraprendere, ancora e sempre, un esercizio di auto-comprensione: l’uomo. Che ne è, oggi, di questo fondativo – anche per “semplici” ragioni di adattamento e, dunque, sopravvivenza – e relazionale dialogo?

E ancora: entro quali coordinate, mappe, l’uomo ne pratica la narrazione? Perché ogni nuova traccia che si inscrive in un inizio già iniziato, ogni rinnovata visione del mondo (appunto) che riscrive un archivio già scritto, concorre alla strutturazione del mondo stesso, nell’inquadrarlo in un peculiare orizzonte di significato (che la complessità del reale, nel frattempo, eccede). Occorre, dunque, che si lavori anche su ciò che Carlo Sini, sulla scorta di Peirce, definisce il foglio-mondo[3]: la trama sulla quale si svolge la scrittura del mondo, non meno importante di ciò che si scrive in quanto è essa stessa già-mondo.

Il viaggio di Pievani, Varotto e Ferrarese indica scenari prospettici alternativi che affondano le radici nell’invito a intendere sé e il mondo-ambiente in un relazionale, ibrido e differenziato complesso (etimologicamente: ciò che è tessuto insieme) inestricabile. E lo fa, proponendo al lettore una mappatura mobile e multiscalare che, tra origine ed avvenire, situa l’uomo in una soglia che lo riguarda. «Che ne potrà essere della mia città?», non è difficile che ci si possa chiedere – tra le altre cose – sfogliando il volume, muovendo da un accorato anelito non distante dal «pensiero delle cattedrali, cioè quella rara attitudine umana a intraprendere progetti lungimiranti che richiedono più di una generazione per essere completati» (p. 55). Non resta che porsi in ascolto di quella che gli autori di Viaggio nell’Italia dell’Antropocene definiscono la vera sfida: «decidere se abitare sulla (o più probabilmente sotto) una terra divenuta invivibile oppure continuare ad abitare in dialogo con la terra, così come la conosciamo» (p. 153). In altri termini, non resta che abitare la complessità del mondo, in ordine alla perfettibilità.


[1] Su ciò Cfr. P. Amoroso, Ecologia, Castelvecchi, Roma 2023, p. 66: «Possiamo utilmente fare quell’esercizio spirituale ideato dalla scuola stoica, e ancora in uso nelle pratiche di meditazione, che consiste nel visualizzare una sorta di zoom out […] fino a proiettarci nello spazio e a vedere noi stessi su questo puntino blu, per relativizzare i nostri problemi e sentimenti, le faccende della vita quotidiana; ma, se vogliamo conoscerci e conoscere il nostro pianeta, dobbiamo fare zoom in, ridiscendere a raso terra».

[2] C. Giorda, Piccolo lessico per una scrittura geografica in C. Giorda (a cura di), Geografia e Antropocene. Uomo, ambiente, educazione, Carocci, Roma 2019, p. 47.

[3] Su ciò cfr. C. Sini, Teoria del foglio-mondo. La scrittura filosofica, CUEM, Milano 1993.

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