Dello spirto della blatta, dell’armatore catalano mai esistito (ma ve-rosilmente vissuto) e dell’Osteria del Granchio Facinoroso

di Giuseppe Coniglione

“Io ero quando ancora non vivevo e sarò anche dopo morto”, iniziava così il romanzo L’anima di Anna Kádár (così tradotto dall’ungherese Anna Kádár Lelke) dello scrittore magiaro Mihály Földi, una piacevole scoperta letteraria di quando ancora mi chiamavo André Mourmour, o forse ancora prima. Giustappunto, già quando ancora non vivevo, iniziai ad apprezzare il suo strano realismo psicologico permeato da una mirabile concezione panteistica ed acronica dell’universo.

Dopo questa breve premessa, visto che nella precedente rivelazione della Wunderkammer avevo velatamente promesso che avrei sub-narrato de mis venturas, inizierò in questa occasione a raccontarvi o, se preferite, a cuntàrivi n’anticchia di cunti di mourmouriana e settentrionale (ma poi non tanto) memoria e delle interpretazioni filosofiche che ne feci, faccio e farò, provando a distillare quelle immagini e quei vacui ed oscillanti fumi e vapori che, sebbene forse un po’ lontani nel tempo, suscitarono in me sentimenti ed emozioni profonde, a dir poco indelebili nella mente del picciotto che fui.

Quando André Mourmour era caruso nelle normanne sue cogitazioni liquefatte e gelatinose, gli capitò di condurre la sua esistenza – ed apportare la medesima sua presenza fisica – in un’affollata città dal fascino cinereo e nello stesso tempo orientale, barocca e spagnoleggiante che, nonostante secondo lui dovesse ubicarsi nella Bretagna più recondita a memoria di viaggiatore, in realtà suppongo fosse molto più vicina di quanto potremmo pensare. Ed infatti io dirò in questo caso (ma potrei smentirlo nel prossimo) che potrebbesi benissimo trattare di quella che fu la città di Aìtna fondata per volere del tiranno Gerone di Siracusa, che amava deportare i popoli dopo averli brutalmente sconfitti in guerra, ma, molto più probabilmente, si doveva trattare di un villaggio bretone in cui si favellava una lingua simile al celtico e con una historia più o meno rassomigliante che benissimo si sarebbe potuto chiamare Roazhon. Orsù, nella citade summenzionata, proprio a ridosso della calle popular dove la plebe amava, ama ed amerà per sempre nutricarsi l’anima con le carni dei cavalli più veloci e succulenti, André Mourmour viveva di espedienti, con alcuni compaesani suoi della Normandia, presso una fin troppo umile dimora in cui coincidenze vollero che ci fossero altre numerose e promiscue presenze di cui, pertanto, sarà opportuno discorrere. Noi della Normandia eravamo un totale di quattro articoli umani a dir poco confusi in quelle ébbiche. Assieme a noi c’erano in quella Wunderkammer altri eccentrici elementi, tutti più o meno della Bretagna occidentale, orientale, centrale o meridionale, a cui per un certo periodo si aggiunse un Gran Lord gallese che amava andar scalzo per le vie, facendo diventare i suoi piedi nìvuri come sono soliti farli diventare per necessitade alcuni popoli della giungla, lavarsi il meno possibile per non inquinare l’ambiente ed influenzare con il suo grascio il climate change e collezionare intieri grappoli di banane per il solo gusto di detenerle nella neviera (leggi “il frigorifero”) che avevamo in comune, senza tuttavia mai mangiarne alcune e facendole diventare nere come la pece: per colpa sua era diventata la Casa delle Banane e molti nostri amici preferivano passare da noi a mangiarne qualcuna nel tempo libero. Naturalmente alla faccia del putrido Gran Lord.

Bene, in quella casa non c’eravamo solo presenze umane. C’erano intere famiglie di esserini che vivevano assieme a noi, a volte pacificamente, altre volte in maniera piuttosto invadente e conflittuale, ma a poco a poco iniziammo a tollerarli, a tenere a loro, a nutrire maliziosamente affetto per quelle creature innocenti volute da Dio proprio come siamo stati voluti noi: naturalmente stiamo parlando di blatte. Il problema fu che, col tempo, nemico primordiale ab origine dei lagnusi, esse diventarono preponderanti e molteplici, iniziarono a costituire eserciti, a costruire armamenti, a lanciare missili sperimentali per minacciarci con vile strategia intimidatoria, a prescindere dall’esistenza che poteva esserci tra noi e loro di un Mar del Giappone qualsiasi. Noi eravamo combattivi, eravamo del Nord, eravamo giovani ed impetuosi, pronti a tutto pur di vincere: insetticidi, assalti notturni a sorpresa quando loro venivano allo scoperto per invadere i nostri territori e per contaminare i nostri averi e la nostra sensibilità emotiva.

Da quel momento fu guerra aperta e le loro mosse non si fecero attendere: invasero i nostri fornelli che consideravano strategici come lo sono le alture del Golan per gli israelani e a fare raid nel pane che gelosamente custodivamo in una credenza da noi considerata importante come una specie di Gerusalemme, ma che, in realtà, per loro era diventata come la Commune di Parigi. Reagimmo con veemenza alle ardimentose schiere e loro, di pronta risposta, iniziarono a cambiare strategia, a trincerarsi negli anfratti, a scavare gallerie e basi segrete tra la carta da parati. Le sentivamo muoversi, le sentivamo parlare, spesso vedevamo i loro figli semi-trasparenti insediarsi tra i nostri vestiti, i nostri libri, le nostre tovaglie e i nostri cuscini. Loro ci osservavano, ci studiavano, ci stuzzicavano, forse addirittura si innamorarono. Noi eravamo freddi, ostili, ansiosi, infastiditi, sfiduciati.

Poi, un bel giorno di luglio, giunti che eravamo allo stremo, dopo che, per un non meglio definito guasto agli acquedotti, o non so per quale strana vicenda delle teorie del complotto, ci tagliarono le acque (sebbene fossero inafferrabili ed infrangibili) per una settimana intiera e la disperazione prese il sopravvento, la lurdìa aveva rinvigorito le fila del nemico e la peste bubbonica era lì a sussurrare alle nostre orecchie “Fammi entrare! Fammi entrare!. Da buona mente cinica che sono, quando tutto sembrava perduto, cercai il compromesso. Mi immedesimai nel ruolo di ambasciatore di Normandia in Terra del Fumiere ed iniziai ad osservarle sempre più per intavolare un dialogo con loro: all’inizio sembravano troppo sfacciate, poi entrai nella loro dimensione animalesca e riuscimmo a comunicare. Forse. Iniziarono a manifestarsi nei miei sogni più inquieti e lì parlavano ed interagivano in maniera sublime e paradisiaca.

In uno di questi lunghi episodi di sogni rivelatori, ad un certo punto, io, Sua Eccellenza il Diplomatico, m’inerpicavo lungo stretti sentieri di collina alla ricerca di qualcosa che, siccome si tratta di sogni, non saprei descrivere esattamente di cosa debba intendersi. Ad un certo punto le mie gambe diventarono pesanti come quelle postille di legalizzazione degli atti che si appongono secondo la Convenzione dell’Aja del 5 ottobre del 1961 e non riuscivo più a muoverle, come se si fossero tramutate in pietra nera del Monte Lauro. Ebbene, lì si manifestava nella sua discreta presenza la dott.ssa Bleberina Frusciante, in tutta la sua grazia e cordialità, ovvero la facente funzioni agli affari esteri di tutte le dinastie e mal famiglie di blattoidei presenti nei cinque continenti (che dir si voglia). A differenza delle altre ruvide e correntine rappresentanti del governo de los escarbajes del mundo, la dott.ssa Bleberina Frusciante era piccola, aggraziata, dai modi delicati. Poteva metterti qualcuna delle zampette pruriginose addosso senza tuttavia infastidirti, aveva uno charme seducente: poteva anche strofinarti le sue antenne sulla pelle e non provocarti ribrezzo. Fu una sensazione davvero unica quando riuscii a percepirla addosso a me medesimo, bloccato com’ero lungo quel sentiero da quel sogno di relazioni internazionali e forse ultraterrene. Ergo, la dott.ssa iniziò persino ad interagire con me, e con parole che di più dolci nei miei sogni non ne ho mai sentite, mi disse: “Quel sentiero che stai percorrendo è il sentiero dell’esistenza tua, io sono venuta a te come messaggera dell’Essere e nello stesso tempo come messaggio del Non-Essere, e nonostante, nella tua scalata verso il Monte del vorticoso fiorire delle passioni che si mescolano alle molteplici rivelazioni dello Scibile, tu possa distrarti, non fermarti mai, non farti distrarre dalle luci delle zanzariere estive. Noi blatte, a voi, sembriamo ripugnanti, ma voi membri dell’umanità cordiale a noi sembrate così profumati e siamo attirati. In questo momento non ti parlo più come la dott.ssa Bleberina Frusciante, figlia di Blattona dalle Mille Figlie, ma come una Madre. Non guardare al mio aspetto, ma guarda al Nous che attraverso me ti ha parlato, ma che in ogni caso ti aveva già parlato ancora prima che tu fossi nato: io sono lo Spirto delle Blatte e, nello stesso istante, una parte fondamentale dello Spirto Universale. Ti darò ora un insegnamento che non dovrai mai dimenticare e poi svanirò per sempre come un brutto incubo. Ascolta bene le parole che seguiteranno: “In questo mondo: tutto c’è e niente deve credersi”. Ovvero, te lo dico nella lingua del posto: “Tuttu c’è e nenti si cridi”.

Dopo quelle tremende parole che tutti i giorni si ripercuotono nella mia mente, mi svegliai di soprassalto e sudato, e trovai sotto le mie lenzuola, che navigavano candidamente nel mio letto, non una ma innumerevoli blatte grandi e piccole, scure e meno scure. La sentenza fu che da quella casa forse era il caso di andarsene.

 

Qualche tempo più tardi – e comunque resistemmo ancora per qualche mese nella Casa delle Banane del Gran Lord – i sogni e le visioni mutarono e le manifestazioni dell’essere si diversificarono. Fu così che, a poco a poco, si manifestarono alcune Visioni propedeutiche per il mio sentiero della Wunderkammer. Iniziai dunque a vedere, a volte anche un po’ a sognare, le tristi vicende di un navigatore catalano caduto in disgrazia – un po’ come me con le blatte – che per non rivelar del tutto l’identità per proteggere la sua riservatezza, chiameremo in questo caso Cesc el Maleït o el Maldito. Costui si era presentato nell’immaginazione mia su una zattera malridotta, spuntando inaspettatamente dal nulla mentre solcava le acque di un piccolo lago coperto al calar del Sole dalle nebbie quasi perpetue, urlando a squarciagola “Chi va là?” al destino e, nel frattempo, consultando delle strane ed annerite carte nautiche che indicavano qualche rotta e qualche porto dal nome ridondante di mari ed oceani lontani. “Vieni con me, straniero! Ovunque tu sia e chiunque tu sia! Domattina salperemo ed andremo alla ricerca della famosa terra del Prete Gianni, laggiù oltre il Corno d’Oro, oppure nell’Indocina o in terre che ancora non hanno un nome! Vedrai… troveremo quella Terra prima dei Portoghesi che la cercano da secoli. Giunsero fino alla corte del Negus degli Etiopi per trovarla, noi lo chiederemo direttamente a Poseidone e la troveremo… queste carte nautiche me le hanno donate le Sirene comparse una notte tra gli scogli neri di lava al porto di Catania, dove il fuoco ha incontrato le Acque della Conoscenza! Que yo sea Maldito si digo la falsedad!”… Cesc el Maleït non smetteva mai di farneticare in queste visioni: era un essere inquieto, ma forse il più grande sognatore che abbia mai conosciuto nella mia vita, sia parlando di me che di André Mourmour. Potser que era el món a ser maleït i no el pobre nàufrag català.

El Maleït era stato uno dei più rispettabili armatori catalani in Terra di Trinacria e, siccome Noi Normanni per deformazione professionale abbiamo sempre tenuto un buon ricordo della terra più bella che abbiamo conquistato, presto sia io che André Mourmour vi parleremo di storie nate e mai morte nei sogni di ogni scrittore e poeta proprio in quell’isola che domina il Mediterraneo. Dda stissa terra unni lu tempu pari c’accapau di scùrriri e si vosi assittari comu a un vecchiu ca talìa a li picciriddi jucari.

Costui, di cui dicevo poc’anzi – Maleït o Beneït sarete voi stesso a stabilirlo – era un tempo un grande esportatore di tessuti che proveniva dalla zona vecchio porto di Barcelona, dove era nato e cresciuto in una famiglia di umili pescatori fedeli da sempre alla volontà del mare. Per la sua intelligenza e la sua scaltrezza negli affari aveva fatto molte fortune, ottenendo un successo commerciale dopo l’altro, era persino riuscito a comprarsi un’intera flotta di navi mercantili e ad arruolare al suo servizio centinaia e centinaia di uomini da ogni parte d’Europa, il suo nome era mentovato e rispettato. La sua sfortuna fu che si era innamorato di una sola terra più di tutte le altre, giustappunto la Trinacria, ed era diventato una sorta di un uomo di fiducia dei sovrani spagnoli e dei vari Viceré che si succedevano ex lege divina in quei luoghi. Aveva fatto costruire un sontuoso Palacio Poderoso (che egli chiamava semplicemente Meu Palau) davanti al Porto di Catania e aveva deciso di stabilire lì la sua base commerciale. Poi, purtroppo, una sera che era capitato in una promiscua osteria nei pressi di una cittadina che un tempo doveva chiamarsi forse Hydra, o Hyadra che dir si voglia, conobbe qualcuno che gli rivoltò i pensieri, poiché quel posto attirava gente singolare.

Lo stemma che faceva da insegna a quell’Osteria era un Granchio gigante di fiume dipinto alla megliopiù su una scarna tavola dall’aspetto non proprio rassicurante, e questo l’aveva resa presto ben riconoscibile agli occhi dei viandanti e dei carrettieri che si trovavano a passare per quelle sperdute contrade e che per la curiositade maligna vi entravano. Il Granchio era dipinto sulla tavola a ricordo di un famoso animale che nella notte dei tempi aveva causato, non volutamente, diversi problemi alla comunità di Hyadra, poiché amava scavare le sue tane nelle gebbie che rifornivano di acqua la cittadina ed aveva lasciato gli abitanti a secco in una terribile estate di gran siccità. Per questo le autorità locali l’avevano imprigionato per lungo tempo e sottoposto persino a processo per giudicare della sua Facinorosità. Dunque tutti la chiamavano L’Osteria del Granchio Facinoroso e, per fortuna, esiste ancora oggi e quasi sicuramente esisterà per sempre. Tuttavia il difetto è che risulta essere frequentata da soggetti irrequieti, che lì riescono ad oltrepassare la sensazione del tempo che scorre e possono discutere dei negozi più diversi superando le contraddizioni della realtà.

Giusto in questo luogo vanitoso, Cesc el Maleït era capitato per puro caso dopo aver condotto alcuni affari con mercanti del posto ed aveva deciso di cenare assieme ad una promiscua banda (verosimilmente di briganti) e tutta la notte con loro si era discusso di cose non di questo mondo e si era bevuto il famoso nettare delle vigne di San Giovanni di Bizini, famoso per l’ebbrezza vorticosa e gli strani sogni mistici che provoca durante la notte. In particolare, si era intrattenuto con un uomo proveniente dalle Montagne, forse imparentato con le schiatte di nani di tolkeniana memoria, che si era presentato come Le Montagnard e che gli aveva messo in testa strane storie su cercatori di tesori, rabdomanti e sensitivi delle più tremende ispecie. Ad un certo punto questo montanaro gli aveva donato una strana carta nautica che disse d’aver trovato nelle coste nei pressi di Messina, dopo il naufragio di una nave di pirati al soldo del Bey di non si sa dove. Era una carta nautica coloratissima, forse di fattura orientale, in cui erano indicati luoghi esotici e una fantomatica terra non bene localizzabile secondo le attuali conoscenze, su cui era scritta l’indicazione Johanni Presbiteri Terra (ovvero la Terra del Prete Gianni). Le Montagnard gli aveva narrato che aveva sentito dire che in quella terra si trovavano cose stranissime, ricchezze incredibili e creature meravigliose, ed era sicuro che se un armatore di grande talento come Cesc fosse riuscito a trovarla sarebbe potuto diventare l’uomo più ricco e potente del Mondo.

L’armatore catalano dopo quell’incontro si era letteralmente invaghito di quell’idea e iniziò a pensarci giorno e notte: gli sarebbe piaciuto passare alla storia come lo scopritore della Terra del Prete Gianni, per cui sarebbe diventato di gran lunga più famoso di Ulisse o di Cristoforo Colombo. Da quell’incontro iniziò ad acquistare e studiare nei minimi dettagli tutte le carte nautiche che riusciva a trovare, ma non riuscì mai a trovarne una più precisa e con la rotta giusta per trovare quella terra. Il suo Palacio Poderoso a Catania era diventato un magazzino di carte nautiche di tutte le nazioni, le culture e le ispecie, in ogni stanza c’erano faldoni e faldoni di carte, mappamondi e persino tavole incise o dipinte in cui erano raffigurate tutte le terre e i mari del mondo. Per inseguire questa “passione” iniziò a trascurare i suoi affari, a non pagare i suoi uomini e a mandare le sue navi per rotte non convenzionali per sperimentare la rotta tracciata in qualche carta. Nel giro di un anno aveva dilapidato tutte le ricchezze accumulate in anni di paziente dedizione, gran parte delle sue navi era naufragata chissà dove o era stata rubata dai pirati, aveva persino contratto dei prestiti con usurai per comprare altre carte a suo dire “determinanti per trovare la Terra del Prete Gianni”: la smania di trovare la fortuna l’aveva dunque condotto per il sentiero opposto.

Una notte d’agosto, dopo mesi che nessuno lo vedeva più in giro, ridotto come uno straccione, mentre con le candele studiava all’interno del suo Palacio maniacalmente le sue amatissime carte, una fiamma aveva scatenato un terribile incendio e tutte quelle carte che parlavano di tutte le terre e i mari del mondo si tramutarono subito in un Erebo. Per non si sa quale disegno divino, alcuni zingari che stavano tentando di scassinare un palazzo vicino senza molto successo, sentendo le sue folli urla di dolore per le sue carte che bruciavano, erano andati in suo soccorso ed erano riusciti a tirarlo fuori dal Palacio Poderoso completamente ustionato e con un cumulo di carte nautiche mezze bruciate ancora strette fra le sue mani. Da quel momento, non avendo più nulla, era andato a vivere come gli indigeni sulle rive di un lago nella Trinacria interiore, in una casa in macerie, senza tetto, abbandonata secoli prima chissà per quali altre sventure. Lì, el Maleït, ancora non sazio d’aver perso tutto, aveva costruito una zattera attorcigliando i rovi e tutte le notti si avventurava nelle acque nebbiose, urlando al destino e cercando ancora la rotta giusta per la Terra del Prete Gianni sugli ultimi pezzi bruciati di ciò che rimaneva della sua prestigiosa e mirabile collezione di carte nautiche.

 

 

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