L’assenza ha lo spessore di un’ostia. Saggio su The goldfinch

di Enrico Palma

[…] I was neither

Living nor dead, and I knew nothing,

Looking into the heart of light, the silence.[1]

 

Incolmabile il vuoto, irriducibile l’assenza?

Non sa il cuore la legge che lo governa.

Ricchezza è inopia,

penuria sovrabbondanza –

sì, ma quando? a che limite d’aridità, madre,

a che grado dell’infinita mancanza?[2]

 

Uno squarcio nella polvere

 

Un cinguettio di luce, una magia geometrica, formale, colorata. Il cardellino di Fabritius è anche questo. Uno sfondo bianco, un trespolo su cui, con una catenella che disegna una parabola perfetta, sta assiso un cardellino, le zampette appoggiate su un listello circolare, sotto il quale ne sta un altro di raggio più ampio, come un anello di Saturno o l’orbita in un planetario. Se si tracciasse un asse di simmetria il quadro sarebbe perfettamente divisibile in due metà: la prima vuota di figure ma colma di luce, la seconda piena di questo straordinario uccellino e dell’ombra dei corpi. Potrebbe esserci qualcos’altro nella prima metà a sinistra, ma non c’è, così come il cardellino nella seconda metà a destra, che potrebbe volare via ma è costretto da quella catena prometeica a rimanere. La sua presenza genera ombra, tristezza e rimorso, anche a causa del suo destino confinato in una gabbia invisibile. Un’assenza fatta di luce e una presenza fatta di oscurità, perché ogni vita, ogni esistenza, ogni corpo sono in quanto tali generatori di luce e di ombre.

E tuttavia da questo uccellino umbratile, calmo nella sua prigionia, sorge una luce che fuoriesce dal dipinto e raggiunge lo spettatore, il quale più che liberare o accudire tra le mani questa creatura di fulgente materia pittorica, vorrebbe afferrare il segreto di quell’unica piuma dorata, più luminosa di tutto il resto, più forte di ogni assenza, mancanza e dolore. Una piuma dorata dipinta con così tanta maestria e per la quale si sarebbe disposti a perdere la propria vita. Se ci si avvicina troppo la magia svanisce, si colgono i tratti della pennellata, il colore steso dalle setole, il pigmento rinsecchito nei secoli e il tempo che ha squamato il dipinto apponendo la sua velatura; se al contrario ci si allontana più del dovuto quella piuma gialla diventa irriconoscibile[3].

Ammirando il quadro ci si accorge della distanza giusta, la zona di confine in cui l’arte dei grandi maestri si rivela in tutto il suo splendore, quando non si è sicuri che il dipinto sia veramente tale e il cardellino una creatura in carne e ossa oppure di pura luce. Ciò che lo determina è l’inganno di quella sola, breve e necessaria piuma gialla, una pausa nel dolore del mondo, la promessa di un mondo altro a cui l’arte invola. La piuma dorata è una traccia di quell’assenza che costituisce il miracolo di un’arte sacra. Questo dipinto è il Leitmotiv del romanzo, lo squarcio tra visibile e invisibile, vero e non-vero, rivelato e nascosto, presente e passato, amore e dolore, vita e morte, presenza e assenza, tempo ed eterno.

 

Theo Decker, per qualche tempo custode e partecipe del bagliore del quadro, è un ragazzino di New York figlio di genitori separati. Ha un legame fortissimo con la madre. Per una marachella il preside ha convocato la madre a scuola, ed è lì che stanno andando in una giornata piovosa. Essendo in anticipo, la madre accompagna il figlio a visitare una mostra temporanea sui grandi capolavori del Seicento olandese. Studentessa di arte in gioventù, era innamorata di un quadretto ai più insignificante, ma che secondo lei celava in sé il mistero della vita stessa. È il dipinto piumato di Fabritius.

Nel romanzo è individuabile la presenza almeno di due autori, in verità tra i più grandi in assoluto della letteratura universale: Proust e Dostoevskij. Il lettore proustiano non può non riconoscere nelle primissime pagine della visita al museo quella quasi mitica di Bergotte alla mostra degli olandesi[4]. Lì il quadro era la Veduta di Vermeer, qui Il cardellino di colui che si ritiene essere stato il suo maestro, Fabritius. La madre mostra a Theo i quadri, tra i quali anche la celebre Lezione di anatomia di Rembrandt e alcuni Frans Hals, ma, come Bergotte, si dirigono frettolosamente verso il culmine della visita, il vero motivo per cui erano venuti, la scheggia di luce di Fabritius. Giunti al suo cospetto, un innocente volatile che ha la potenza emotiva di un uragano, Theo incontra, come nel migliore degli episodi proustiani, una Gilberte con in mano la custodia di un flauto, dalla curiosa andatura e con splendidi capelli rosso vivo. Il suo nome è Pippa. La ragazzina era accompagnata da un signore anziano, che la introduceva ai significati di ogni dipinto. A un tratto la mamma si allontana, forse per dare un ultimo sguardo alla Lezione – un evidente simbolo di morte – lasciando Theo ad attendere da solo in un’assenza già intollerabile. 

Esplode una bomba. Alcuni terroristi avevano fatto detonare un ordigno all’interno della galleria. Quel luogo d’incanto si trasforma in un battito d’ali in un inferno privo di suoni, grigio, nebbioso. Un velo è sceso sui dipinti, e anche sulle vite dei visitatori. Come con l’incidente della polveriera in cui Fabritius aveva perso la vita, Theo è coinvolto in un evento altrettanto distruttivo, per le opere e per sé. 

Il vecchio signore e accompagnatore di Pippa, prima di spirare, gli dà in pegno il suo anello e anche, resuscitato tra le macerie, il brillante cardellino miracolosamente scampato al disastro. Ignorato da tutti e attraverso un’uscita di servizio, Theo riesce a evadere da quel caos. In preda all’angoscia rientra in casa, ad attendere frenetico la madre. Ma essa è morta lì, sepolta nella polvere.

La madre di Theo era come il dipinto: una rarità, la sua rarità. Come Bergotte, dunque, madre e figlio si dirigono al museo senza il minimo sentore che potesse accadere qualcosa di irreparabile, di così nefasto da far terminare la vita della prima e da segnare in modo decisivo quella del secondo. Bergotte vede il dipinto e muore, per non aver compreso fino in fondo il mistero, la magia e la mistica di Vermeer, e soprattutto per non aver colto il senso della vera arte. Troppo giovane e immaturo per comprendere al primo sguardo tali verità, Theo sopravvive a una colpa che non può ancora capire. Gli accompagnatori periscono nell’esplosione; i bambini, invece, pieni di fratture e di lividi insanabili, sopravvivono. La madre torna da Rembrandt, dalla morte; Theo sosta dinanzi al cardellino, dinanzi alla vita, una vita che da quel momento a causa dell’assenza sarà una tortura, una catenella invisibile che lo terrà avvinghiato a un ceppo di dolore e morte. 

 

Polvere di luce

 

Iniziano dunque le peripezie di Theo, la sua parabola di patimenti e ambasce. Viene accolto dai Barbour, la famiglia del suo compagno di scuola Andy, in particolare dalla madre, che si affezionerà a lui e, pur con la sua glaciale freddezza, lo accudirà nel turbolento periodo successivo al trauma dell’incidente. La signora Barbour è una raffinata, colta e intelligente nobildonna della migliore società newyorkese, sempre impegnata a esercitare il suo bon ton, a organizzare eventi benefici e a prendersi cura di questo bambino così sfortunato.  

Con lui sono tutti abbastanza premurosi, eppure lo attanagliano un dolore indicibile e un’estrema insoddisfazione, talché dice tra sé: «Quello che era accaduto, lo sapevo, era irreversibile, eppure doveva esistere un modo per tornare su quella strada piovosa e far sì che tutto quanto andasse diversamente!»[5]. Tale è l’illusione della giovinezza, la speranza che la madre lo venga a riprendere e lo porti nuovamente con sé. L’unica traccia materiale che può toccare, stringere e ammirare è quel dipinto ancora nella borsa, in casa sua, che, sebbene distante, egli riesce a concepire come la manifestazione più prossima del profondo afflato che lo lega a lei. 

Il dolore lo sommerge a ondate, la potenza di quell’assenza lo assale senza che lui possa opporre alcunché: «Quando la marea si ritirava restavo a fissare un relitto coperto di salsedine, illuminato da una luce così chiara, triste e vuota, che mi pareva impossibile che al mondo fosse mai esistito qualcosa di diverso dalla morte» (p. 117). Theo inizia a capire che, ben prima di ogni altro bambino, il dolore è il vero volto della vita, e che l’unica ricerca che valga la pena intraprendere è quella per gli attimi di luce gioiosa, per quei momenti scintillanti che fuoriescono dal tempo come quel cardellino, la prova irrefutabile che qualcosa oltre la morte esiste, che qualcosa alla morte resiste.

Theo, grazie all’anello di Welty Blackwell (questo era il nome dell’anziano signore nella galleria), raggiunge la bottega di James Hobart, detto Hobie, un omone dolce e premuroso che entrerà nella sua vita come lui lo stava facendo dalla porta di casa sua. Hobie è un restauratore di mobili antichi, troppo devoto al suo mestiere per curarsi di un’ottimale gestione della sua attività. La professione di Hobie, alla quale tempo dopo si affiancherà anche Theo, è significativa per varie ragioni. Hobie restaura mobili, permette alle cose antiche e in disfacimento di perdurare, con smalto, vernice, impiallacciature, imbottiture, correzioni, inserzioni. La vita in quanto vita-che-ricorda è essa stessa un lavoro di antiquariato, tenere vive le cose antiche il cui valore, minacciato dall’oblio, rischierebbe di disperdersi. 

C’è quindi il negozio, il luogo del commercio, ma anche il luogo intimo e segreto in cui Hobie lavora, quella che nel romanzo viene definita la bottega-dietro-la-bottega. Essa è la sostanza dei ricordi e delle cose care, è il luogo celato alla vista in cui non si compra né si vende, ma si custodisce e si dà nuova linfa, una sorta di membrana liminare come la tela del dipinto, la via d’uscita di Theo dalla sofferenza del mondo, un cantuccio tenuto sempre caldo da quei mobili così rari, unici, metafore della riparazione dalla distruzione del tempo. Ciò che Theo capirà ben presto sarà che, per quanto abile è l’esecutore, il restauro non è una resurrezione totale, è una ricreazione a partire da pezzi già dati, un’inserzione di nuovi significati. Theo prima di rendersene conto farà infatti di questa nobile arte, di questa metafisica della resistenza degli enti, una truffa.

Se tutto ciò poteva indurlo a sperare in un futuro almeno sopportabile, tale auspicio tuttavia viene meno. Il padre, venuto direttamente da Las Vegas insieme a un’assai discutibile compagna, è venuto a prenderlo per portarlo con sé. 

Si trasferisce perciò nel Nevada, in un dislocamento topografico davvero estremo, sia per Theo che per l’intera economia del romanzo. Dall’alta cultura di cui i Barbour e Hobie erano intrisi, il ragazzo viene sbalestrato a migliaia di chilometri di distanza in un deserto polveroso. Le sue speranze si inaridiscono sotto il sole come la sabbia di quelle terre. Ogni cosa a New York gli ricordava la madre, ogni taxi, incrocio, caffè, parco. Ogni ora del giorno aveva un riferimento alla sua vita trascorsa nel grembo del suo affetto, «ma lì fuori, in quel rovente vuoto minerale, era come se lei non fosse mai esistita; non riuscivo nemmeno a immaginare che il suo spirito potesse osservarmi dall’alto. Era come se ogni traccia di lei fosse stata bruciata dal nulla del deserto» (p. 258). Bruciata, ma non estinta. Il calore di quel ricordo necessitava di ben altro deserto, oceano o ghiacciaio per potersi spegnere. 

È un luogo miserabile, così come il padre, la sua compagna Xandra, la scuola di infimo livello, la villa in cui abitavano e che a pochissimo prezzo riuscivano ad avere a scapito di proprietari insolventi con le banche. E però possedeva una luce, riposta in una federa e avvolta in un foglio di giornale, una luce purissima come quel bagliore che intermittente pulsava nel suo cuore e che sapeva di sua madre. «Quando guardavo il dipinto sentivo la stessa convergenza di tutto in un singolo punto: un tremulo istante investito dal sole, che esisteva in quel momento e per sempre. Solo di rado mi soffermavo sulla catena alla caviglia del cardellino e pensavo a quanto fosse crudele la vita di quella creaturina il cui breve battito d’ali lo riportava sempre nello stesso identico punto, senza speranza» (p. 354). I dettagli del dipinto, come uno specchio, mostrano a Theo la realtà delle circostanze della sua vita: prima osservava il bagliore che in modo naturale promanava dalla materialuce pittorica, adesso la catenella che lega l’adorabile cardellino alla sua condanna. 

Il dipinto era una musica dello spirito, un’aria aulente, una tenerezza vellutata e quasi ineffabile, «come quando sei con qualcuno che ti fa sentire protetto e amato e il tuo cuore batte più lento e sicuro» (p. 367). Il quadro era energia, candore, freschezza, «un chiarore che rendeva tutto affilato ma anche più delicato e bello di quanto fosse in realtà, e più bello ancora perché era parte del passato, e perciò irrecuperabile» (ibidem). Il quadro è l’esigenza di un tutto, il sentimento della nostalgia di un intero e poi il suo ritrovamento, l’abbraccio materno o di un’amante, un grano di perla di un passato perduto e allo stesso tempo ancora più antico di questo passato, un’origine. Il quadro «mummificato» (p. 368) è il pulsare della vita che passa, del tempo in transito, del divenire che persiste. 

È a quest’altezza della narrazione di Theo che il romanzo, che abbiamo capito avere una direttrice senza dubbio proustiana, incontra l’altra, forse più decisiva, quella dostoevskiana. The goldfinch è infatti un romanzo russo una volta già preso in mano, per la grande mole di pagine e per la sensazione durante la lettura di poterne addensare molte. Eppure la prima caratteristica del romanzo russo, e dunque di riflesso anche di questo, è che ogni pagina, pur sembrando superflua, è invero necessaria, per cui toglierne soltanto una comporterebbe un terribile smembramento di senso. Nel romanzo viene citato a più riprese L’idiota, e uno dei personaggi principali, l’amico e il sostegno di Theo durante la sua permanenza a Las Vegas, Boris, perdigiorno e sanguigno giovane talento per i guai e per il male, sembra proprio prelevato da un romanzo di Dostoevskij. Boris chiama Theo Potter, per gli occhiali, i capelli, l’abbigliamento rigido e la somiglianza al celebre maghetto, e lo inizia alle droghe: ne provano in gran quantità, un bisogno di alleviare il male radicale dell’esistere e delle loro vite sfortunate alleggerendosi quanto bastava[6].

L’uso delle droghe, il bisogno spasmodico di fuggire e di dare un diversivo a quel tedio, costituiscono il tentativo di dissolvere per un momento la catenella del cardellino, almeno per qualche attimo di non vederla e di librarsi in volo dimentichi del peso e dell’attrito con il mondo. È per questa ragione che l’insegnante del corso di cinema, leggendo un saggio di Theo, gli dice che in quello scritto risalta chiaramente l’interesse verso questioni metafisiche come colpa e destino o perché le persone buone siano più di tutte destinate a soffrire. È il grande enigma del personaggio Myškin, di come un uomo come lui possa venire al mondo e sopportarne le lordure.

Il padre di Theo, oberato dai debiti e inseguito da alcuni strozzini, ubriaco da rasentare l’incoscienza, ha un incidente d’auto mentre tentava una fuga disperata. In modo altrettanto rocambolesco, metabolizzata la notizia, Theo fugge dal Nevada insieme a Popper, il cagnolino di Xandra, sperando di essere raggiunto da Boris. Più che una fuga è un ritorno, non dai Barbour, ma da Hobie, il quale senza esitare lo accoglie in casa. Lo educa ai segreti del mestiere, pronunciando in una di queste occasioni didattiche una delle frasi fondamentali del romanzo, che ne racchiude il senso e l’enigma: «Ricorda sempre che la persona per cui stiamo lavorando in realtà è colui che restaurerà questo pezzo tra cent’anni. È lui che dobbiamo lasciare a bocca aperta» (p. 482). 

Il restauratore è colui che sì recupera oggetti di pregio dall’oblio e che li preserva dalla distruzione, ma nondimeno ne prolunga l’eredità, è una figura di mezzo, qualcuno che nel corso delle cose intervenga per consentire a questo flusso di proseguire, migliorando quegli oggetti, abbellendone la forma, riparandone i danni. Sarà un intervento certamente significativo ma sempre provvisorio, un respiro in più nelle lunghe stagioni della storia che da una polveriera esplosa per errore a Delft quasi quattrocento anni prima aveva portato il dipinto nelle mani di un ragazzino sfuggito per miracolo al ricorrere destinale del mondo.

 

Gnosi, arte, luce di stelle

 

Otto anni più tardi Theo ha preso il posto di Welty, ne ha portato a compimento l’investitura divenendo il socio di Hobie: un affascinante giovanotto in completo che intrattiene relazioni con famiglie facoltose di tutti gli Stati Uniti. È ancora innamorato di Pippa, nel frattempo trasferitasi a Londra e fidanzatasi con un ragazzo che non è niente di speciale. Incontra per strada Platt, il figlio maggiore dei Barbour, che lo informa con suo massimo dispiacere della morte in una gita in barca del padre e del fratello Andy. Riannoda i rapporti con la famiglia Barbour, va a cena da loro per la felicità della signora profondamente provata dal lutto e si fidanza con Kitsey, la sorella di Andy, con la quale decide infine di sposarsi. 

Un collezionista senza scrupoli di nome Lucius Reeve gli sta alle costole, all’inizio per aver subodorato la truffa ai suoi danni nella vendita di un pezzo falso, poi per indurlo a cedere con un ricatto il dipinto. Da qui in avanti la spirale degli eventi si stringerà sempre di più su Theo, sulla sua dipendenza dalle droghe, sul falso amore di Kitsey e sul matrimonio d’opportunità che gli propone, sulla pressione di Reeve e l’incubo della bancarotta e del tradimento della fiducia di Hobie, sul ritorno di Boris nella sua vita. Tra la febbre, il delirio, l’astinenza, sembra di essere piombati nella più allucinata delle pagine di Delitto e castigo. Theo, incontrato per caso Boris in un bar, apprende che proprio il suo amico dei tempi del Nevada gli aveva rubato il dipinto senza sapere cosa fosse davvero, attratto in modo irresistibile dalla sua bellezza magnetica. 

Capisce che l’amore per Pippa è impastato con il più doloroso dei suoi ricordi. È l’apparizione della sua salvezza, e per lei è lo stesso, ma la ragazza molto saggiamente non può acconsentire, poiché due edifici pericolanti non possono sorreggersi l’un l’altro: se uno dei due crollasse, l’altro infatti lo seguirebbe. Dice Theo di Pippa: «Lei era il mio regno scomparso, la parte illesa di me che avevo perso insieme a mia madre» (p. 535), «il filo dorato che intesseva ogni cosa, una lente che ingigantiva la bellezza a tal punto che il mondo intero appariva trasfigurato attraverso di lei, e solo lei» (pp. 536-7). Una pagina anche questa intensamente proustiana, tale poiché universale sull’amore. Pippa, così come ogni oggetto amoroso, è la riparazione alla perdita, alla mancanza che ci definisce, alla finitudine ontologica che ci intride in quanto umani. Pippa è per Theo la cosa più vicina all’essenza della madre così come egli la ricorda dall’ultima volta in quella galleria, insieme, naturalmente, al dipinto. 

«Sotto sotto le radici del mio amore per Pippa si intrecciavano a quelle dell’amore per mia madre, al dolore per la sua perdita e all’impossibilità di riaverla. Quella cieca brama infantile di salvare ed essere salvato, di rivivere il passato e cambiarlo, si era trasferita su di lei» (p. 590). Il sentimento amoroso nasce inconcludente, è fallimentare allo stesso modo del tentativo di riannodare il tempo perduto, di far rivivere ciò che non è più sotto le forme in cui ha vissuto prima di svanire. L’amore per Pippa è impossibile come lo è la speranza che la madre torni a stringere Theo. 

 

In alcune pagine estremamente significative, Theo dà voce a tutta la rivolta gnostica di stare al mondo. Perché essere un tossicodipendente? Perché essere innamorato della donna sbagliata? Perché ingannare? Perché aver subito la perdita di qualcosa che coincide con il proprio sé più profondo? Perché soffrire? Un mondo che si arrabatta di continuo, tra innumerevoli impegni costituiti di nulla, ambizioso, frenetico, ammorbato: «Tutto solo per tentare di dimenticare: dove eravamo, cosa eravamo. Ma sotto una luce intensa, non c’era modo di vedere le cose da una prospettiva confortante. Tutto era marcio, dall’inizio alla fine» (p. 533). Theo giunge alla più tragica delle riflessioni, e proprio perché tragica la più vera e necessaria: «Sarebbe stato meglio non essere mai nati – non aver desiderato nulla, non aver mai sperato niente» (ibidem). Il nulla sarebbe stato preferibile all’essere, perché nel nulla non ci sono dolore, perdita e colpa. Nemmeno il quadro può risollevare Theo con la sua luce, perché la luce abbacinante della verità del mondo una volta scoperta lo cattura, gli riempie gli occhi senza poter vedere nient’altro: 

 

Qualunque fossero le ragioni che mi avevano spinto tanti anni prima a nascondere il quadro, a tenerlo con me o, ancora prima, a portarlo via dal museo, ormai non le ricordavo più. Il tempo aveva annebbiato tutto. Il quadro faceva parte di un mondo che non esisteva – o meglio, era come se io vivessi in due differenti universi e l’armadietto del deposito facesse parte di quello immaginario anziché di quello reale. Era facile dimenticarsene, fingere che non esistesse; mi aspettavo quasi di aprirlo e scoprire che il dipinto non c’era più, anche se sapevo che non era possibile, che sarebbe stato lì, segregato nell’oscurità, ad aspettarmi in eterno, finché ce lo avessi lasciato, come il cadavere di una persona che avevo ucciso e rinchiuso in cantina (pp. 553-4). 

 

Un quadro, specie quello di un grande maestro, è un oggetto di pura luce a sua volta figlio della luce, ed è un delitto e una follia tenerlo segregato per la brama compulsiva di un solo uomo. Il quadro aveva bisogno di luce per poter brillare, aveva bisogno d’essere immerso nuovamente nel suo flusso. 

 

L’ultima parte del romanzo narra i pericoli e le traversie in cui Theo e Boris, insieme alla sua rete criminale di amicizie, vengono coinvolti nel tentativo di rientrare in possesso dell’opera perduta. Alla fine ci riescono, con il metodo più legale consentito, avvalersi cioè della polizia e della sezione specializzata nel recupero di opere d’arte rubate e così intascare la ricompensa per le informazioni prodotte. Theo non avrà indietro il suo dipinto: ritornerà in un museo, un luogo adatto a ospitare la sua luce. 

Il Tempo non ha pietà per gli umani, intrappolati nelle loro miserabili parentesi biologiche, destinati come sono a vivere per un po’, a declinare e infine a perire. Nondimeno possono ottenere un riscatto, generare opere che vivano per qualche tempo in più, monumenti sui quali l’erosione agisce con minore accanimento. Una di quelle opere però Theo aveva rischiato di perderla, di distruggerla, un peccato più delittuoso della vita stessa. «Ma distruggere, o perdere, una cosa immortale – spezzare legami più forti di quelli del tempo – era una forma di separazione metafisica, una nuova stupefacente sfumatura di disperazione» (p. 804). La separazione metafisica di cui parla Theo è proprio l’assenza di cui si diceva a proposito del dipinto di Fabritius, quell’impercettibile spessore che divide l’arte dalla vita, la morte nel tempo dalla vita in eterno, ancora più sottile dello spessore di una tela, ancora più esiguo di un’ostia di salvezza. 

È l’assenza in cui si percepiscono, con un sentimento che esula del tutto dalla ragione, i legami duraturi che attraversano gli anni, come sugli alti trampoli di un circense, che a passi da gigante salta da un’epoca all’altra in virtù di uno spazio vacante che si contrae a causa della devastazione del tempo. E nello stesso interstizio in cui è possibile tale arte di luce ed eternità si trova anche la madre. Prima però che tutto fosse perduto, in preda a un’overdose che sperava lo uccidesse, Theo la sogna, e sembra ritrovarla: «La sognavo di continuo, ma solo in quanto assenza, non come presenza: una brezza che attraversa una casa appena sgomberata, la sua grafia su un quaderno, il suo profumo, strade sconosciute di città perdute dalle quali sapevo che era appena passata, un’ombra che si allontanava lungo un muro assolato» (p. 835). 

Forse aveva ragione Boris citando proprio L’idiota – secondo lui e a ragione un libro misterioso e inquietante, l’ultimo romanzo che avesse letto in vita sua – e cioè che il male viene a volte per fare il bene, che la sofferenza ha un valore, che senza quella sofferenza la purezza del cardellino non sarebbe stata trovata e non si sarebbe lottato per essa. Forse aveva ragione anche il padre di Theo, che credeva nell’astrologia e in Mercurio retrogrado, come se Dio fosse un progetto a lungo termine che agli umani non è dato conoscere per intero. E forse aveva ragione Proust, il quale, citato da Hobie, ha saputo ricreare la bellezza nel suo libro a partire da alcune riproduzioni di dipinti, i quali insieme ai libri erano stati i momenti più felici della sua infanzia. Un quadro è «un sospiro segreto in un vicolo» (p. 876), un sentimento incomunicabile che racchiude l’essenza di un momento, di una forma così specifica che in un osservatore inconsapevole può anche addensare una vita intera, come per Theo quel preciso giorno, in quella precisa galleria, con quelle precise persone ad ammirare quel preciso dipinto. 

Cos’è dunque The goldfinch, questo romanzo che narra la storia di un tempo che non si muove nella solitudine di un muro assolato e su cui si trova una fuga impossibile? C’è un uccellino, metafora di ogni vita, «intrappolato nel cuore della luce: il piccolo prigioniero, saldo» (p. 886). E in quest’assenza, in questa giusta distanza, in questa intercapedine in cui è possibile intercettare la magia dell’arte, si ha un’aria sospesa e «sciacquata di luce» (p. 886), l’assenza che è anche la solitudine radicale tra gli umani, che a volte si incrociano, vibrano insieme e poi si separano, come una madre e un figlio, come un ragazzino che si innamora di una ragazzina al primo sguardo, come un uomo anziano esperto delle cose del mondo che cede il testimone a qualcuno che gli sopravviva. 

Abbiamo l’arte per non perire a causa della verità, così recita una delle epigrafi del romanzo, una celebre frase di Nietzsche. «Per me – e continuerò a ripeterlo ostinatamente finché vivrò, finché cadrò sulla mia nichilistica e ingrata faccia e sarò troppo debole per ripeterlo un’ultima volta: meglio non nascere, che nascere in questa fogna», a cui segue una brutale quanto esatta descrizione del dolore umano di vivere nel mondo: «Una foiba di letti d’ospedale, bare, e cuori infranti» (p. 887). Per tali ragioni Theo ha scritto il suo romanzo, per provare a capire, oppure per capire che in verità non c’è niente da comprendere, che ci sono solo gli eventi, il loro accadere, una necessità che più grande non si avvede di miserabili creature che vorrebbero tracciare uno schema lì dove non c’è. 

Eventi che accadono, che noi non scegliamo né che scelgono noi per accadere, come una visita in un museo finita in tragedia. Ma c’è un’altra ragione più profonda, quella che forse Spinoza ignorava, e che deve essere stata ben presente a Dostoevskij e a Proust: la vocazione di narrare nell’assenza. «Ed è per questo che ho scelto di scrivere queste pagine così come le ho scritte. Perché solo entrando nello spazio intermedio, nel confine policromo tra verità e non-verità, essere qui a scrivere tutto ciò diventa tollerabile» (p. 891). La scrittura è lo spazio invisibile dello spessore di un’ostia, è l’ostia, così come lo è il dipinto di Fabritius, quel punto alla distanza esatta in cui il miracolo della pittura accade e il cardellino prende vita. Allo stesso modo della costellazione di artisti e di opere de La prisonnière, Theo comprende che con tale spirito artistico si può comunicare a distanza di secoli, si può custodire la luce di queste stelle, ci si può salvare. 

 

E nel pieno del nostro morire, mentre ci eleviamo al di sopra dell’organico solo per tornare vergognosamente a sprofondarvi, è un onore e un privilegio amare ciò che la Morte non tocca. Perché se disastro e oblio hanno inseguito il quadro attraverso il tempo – così ha fatto l’amore. Nella misura in cui il quadro è immortale (e lo è), io ho una minuscola, luminosa, immutabile parte in quell’immortalità. Esiste; e continuerà a esistere. E io aggiungo il mio amore alla storia delle persone che hanno amato le cose belle, e se ne sono prese cura, e hanno provato a preservarle e a salvarle intanto che, letteralmente, se le passavano di mano in mano, chiamando dalle rovine del tempo la successiva generazione di amanti, e quella dopo ancora (p. 892).

 

Senza saperlo Theo per tutta la vita è stato come Hobie: ha amato un quadro la cui catenella ha unito gli eventi di tutta la sua vita, per permettere a un altro uomo infuocato dalla sua stessa luce di amare le medesime opere. L’amore, facendo un calco da Dante, muove la luce e le stelle dell’arte, l’amore che si avvede del dolore, l’amore che è scrittura e bellezza. E tutte e tre le cose, come sostenuto dal principe Myškin, salveranno il mondo[7], conducendolo dalla cloaca all’iride, dall’assenza al fasto della luce. 

 

 

 

In foto: C. Fabritius, Il cardellino, 1654, olio su tavola, 33,5×22,8 cm, Mariutshuis, L’Aia


[1] T.S. Eliot, La sepoltura dei morti (The burial of the dead), in La terra desolata (The waste land, 1922), in Poesie, a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 2011, vv. 39-41, p. 256. «Non ero / Né vivo né morto, e non sapevo nulla, mentre guardavo il silenzio, / Il cuore della luce», ivi, p. 257.

[2] M. Luzi, Angelica, IV, II, in Frasi e incisi di un canto salutare, in Le poesie, Garzanti, Milano 2020, p. 807.

[3] Si leggano anche le parole di Bailey: «Il quadro è il capolavoro di Fabritius, ma è anche la semplice raffigurazione di un cardellino: in risalto, sulla parete dell’intonaco screpolato, l’uccellino appare a grandezza naturale. Solo quando l’osservatore si avvicina al dipinto riesce a individuare le ampie pennellate di colore, ma a una certa distanza Il cardellino, con il piccolo capo rivolto verso di noi in atteggiamento indagatore, sembra miracolosamente reale», in A. Bailey, Vermeer. Vita di un genio della pittura, trad. di A.M. Cossiga, Rizzoli, Milano 2012, p. 18.

[4] Cfr. M. Proust, La prisonnière, a cura di P.E. Robert, in À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, Gallimard, Parigi 2019, pp. 1739-44.

[5] D. Tartt, Il cardellino (The goldfinch, 2013), trad. di M. Zilahi de’ Gyurgyoaki, Rizzoli, Milano 2019, p. 106. D’ora in avanti le citazioni dal romanzo saranno accompagnate dal semplice numero di pagina inserito tra parentesi tonde. 

[6] In realtà lo stesso Bailey, sul perché di questo nome, fornisce indirettamente un’informazione molto interessante. Il termine olandese per indicare il cardellino è putterje, tale da far ritenere al critico che fosse nelle intenzioni di Fabritius di creare una sorta di gioco di parole e immagini tra il nome olandese cardellino e quello del suo mecenate, Abraham de Potter (Cfr. A. Bailey, Vermeer. Vita di un genio della pittura, cit., p. 17). Il gioco di parole, tra il nomignolo affibbiato da Boris e il suo significato così inteso, sembra essere fondato anche per Theo, per il quale l’identificazione con il cardellino diviene a questo punto totale. 

[7] Cfr. F. Dostoevskij, L’idiota, trad. di E. Maini e E. Mantelli, Mondadori, Milano 2011, p. 518.

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