Sacralità, qualità e senso della vita

di Giovanni Altadonna

Ho già avuto modo di rilevare in altra sede[1], sulla scorta di un recente volume di Vito Mancuso[2], come la problematica espressione “senso della vita” sia suscettibile di una quantità di interpretazioni diverse; legate in primo luogo alla polisemia dei termini che la compongono (“senso” inteso come significato, gusto, direzione; “vita” come vita biologica, zoologica, psicologica), in secondo luogo all’assunto per cui il “senso” è un costrutto strettamente personale legato al vissuto storico-biografico del soggetto.

In questa sede intendo sviluppare ulteriormente le implicazioni di tali asserzioni per quanto concerne uno dei casi in cui la coscienza del senso (e del limite) della vita umana emerge nella maniera più evidente e problematica: la questione bioetica del suicidio (intesa in senso lato, comprendendo perciò anche il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia). In particolare, si cercherà di istituire un nesso fra le due tematiche, mostrando come la complessità della controversia bioetica su qualità e sacralità della vita dipenda, almeno in parte, dalla pluralità di nozioni di “senso della vita”.

1. Sacralità della vita vs. qualità della vita: due modelli bioetici

Il problema che intendo esaminare si colloca nel più ampio dibattito bioetico su sacralità e qualità della vita, a sua volta parte della più generale antitesi fra i paradigmi di indisponibilità e disponibilità della vita[3]. Essi costituiscono due opposti modelli bioetici (storicamente fatti propri, rispettivamente, dal Magistero della Chiesa cattolica romana e dal pensiero laico[4]) la cui antitesi dipende dall’adozione di diversi principi etici, metafisici e antropologici.

Sintetizzando tali principi in un elenco per idealtipi dal valore euristico[5], possiamo affermare che, per la bioetica cattolica della sacralità della vita:

a) la vita umana, in virtù del suo carattere creaturale, è sacra e indisponibile, e in quanto tale possiede valore intrinseco;

b) la persona umana è un’unità indivisibile di corpo e spirito, pertanto è inammissibile ogni supposta distinzione fra senso “biologico” (conservazione delle funzioni biologiche) e “biografico” (progetti, sogni, aspirazioni…) della vita umana;

c) esiste un progetto di Dio sul mondo, intellegibile e teleologicamente orientato, avente valore assiologico-normativo per l’uomo;

d) esiste una verità ontologica ed etica a cui l’uomo deve conformarsi, da cui deriva il primato della verità sulla libertà;

e) la libertà deve essere esercitata, secondo un deontologismo rigoroso, a favore della vita e non contro la vita;

f) esiste una legge morale naturale, riflesso della sapienza divina, insita nell’animo umano e razionalmente conoscibile;

g) esistono beni o valori irrinunciabili connessi alla “natura” umana,

h) dai quali derivano norme etiche assolute, valide sempre e comunque;

i) la legge civile non deve contraddire i precetti della legge morale naturale.

D’altra parte, per la bioetica laica della qualità della vita:

a) la vita umana, in quanto individuale, è un bene disponibile all’individuo che ha sovranità sulle decisioni circa la propria salute e il proprio corpo;

b) la vita umana non ha valore in quanto tale, ma se presenta, per chi la vive, qualità tali da renderla degna di essere vissuta;

c) in riferimento ai principi di qualità e disponibilità della vita, possono essere legittimate pratiche che coinvolgono l’inizio e la fine della vita (contraccezione, aborto, eutanasia, suicidio assistito);

d) esiste una distinzione fra vita biologica e vita biografica, ed è la seconda, piuttosto che la prima, ad avere valore intrinseco;

e) in bioetica si deve prescindere da un presunto progetto normativo di Dio sul reale;

f) la morale non è un lascito divino derivabile da un’ipotetica “legge naturale” ma è una costruzione umana;

g) a monte delle questioni bioetiche deve valere il principio di autonomia, ossia il rispetto per le scelte autonome degli individui;

h) la libertà individuale vale contro ogni supposta verità oggettiva cui l’individuo dovrebbe conformarsi;

i) la “natura”, comunque intesa, non può essere assunta a norma morale (non esiste alcuna legge morale naturale);

l) si ricusa ogni appello a norme deontologiche assolute;

m) sono inammissibili principi o ideali nel nome dei quali si possano infliggere agli individui sofferenze non volute;

m) il progresso della conoscenza può migliorare le condizioni di vita intervenendo in ambiti prima ritenuti intangibili;

n) è opportuno il riconoscimento pluralista dei diversi modi in cui viene inteso il senso della vita;

o) va mantenuta una netta distinzione fra morale e diritto.

Quella su sacralità e qualità della vita è una controversia molto complessa, in cui non mancano tentativi di compromesso[6], e che non è possibile approfondire in questa sede. Nondimeno, la distinzione fra i poli del dibattito si fonda su antropologie, metafisiche e posizioni morali caratteristiche e ben differenziate che consentono di individuare chiaramente due diversi paradigmi[7] etici  che hanno implicazioni su tutti i cruciali temi di incontro fra filosofia morale e biologia (umana) che sono oggetto della bioetica e che riguardano principalmente i momenti di inizio e di fine vita (oltre al suicidio, anche contraccezione, aborto, fecondazione extrauterina e così via)[8]. Tali paradigmi generali sono la indisponibilità e disponibilità della vita:

Dal punto di vista storico e antropologico le dottrine della indisponibilità e disponibilità della vita affondano le radici in due atteggiamenti opposti di fronte al mondo, entrambi presenti nella storia dell’umanità. Da una parte quello religioso e magico, che tende a sottrarre l’esperienza della nascita e della morte alle scelte degli individui, attribuendola a una superiore volontà divina. Dall’altra quello laico e prometeico che, incurante (o sprezzante) di Dio e degli dei, fa dell’uomo il costruttore della propria umanità (o super-umanità).[9]

Il fatto che questi due paradigmi trascendano la più circoscritta dicotomia fra etica cattolica della sacralità della vita ed etica laica della qualità della vita permette di constatare che, sebbene la dottrina della sacralità della vita abbia ricevuto una sistematizzazione concettuale particolarmente coerente  nei documenti del Magistero della Chiesa cattolica romana (e una conseguente influenza politica, se non sociale, specialmente in Italia), essa abbia trovato espressione anche in altre tradizioni filosofiche e religiose:

Dal punto di vista teorico e dottrinale le bioetiche della indisponibilità della vita si rifanno alle teorie religiose e filosofiche (presenti non solo in ambito cristiano ma anche nella filosofia greca, nell’ebraismo, nell’islamismo e in altre fedi) secondo le quali l’entrare nell’esistenza, come il rimanervi o l’uscirne, non è prerogativa dell’uomo, ma solo della divinità.[10]

Ne consegue che, limitatamente al tema della morte volontaria oggetto della nostra riflessione (che meglio di altri può servire da “cartina di tornasole” degli opposti paradigmi)[11], secondo l’etica della sacralità e indisponibilità della vita, nessuna sofferenza o condizione dolorosa, quand’anche permanente, può ammettere la possibilità di rinunciare alla vita, in quanto essa è un bene non disponibile, intrinseco e inviolabile, la cui conservazione nonostante tutto obbedisce a una legge di natura[12] a cui non è lecito opporsi. Viceversa, secondo l’etica della qualità e disponibilità della vita, il soggetto, avendo facoltà di disporre della propria vita, nella misura in cui non può essere raggiunta o mantenuta una condizione di vita accettabile, può scegliere liberamente se continuare a sopportare le proprie sofferenze irreversibili o porvi fine interrompendo la vita stessa.

2. Bioetica cattolica, bioetica laica e senso della vita

Si avanza l’ipotesi, in questa sede, che l’antitesi fra questi due modelli bioetici pertiene alla domanda stessa sul senso della vita. Difatti, il modello etico della sacralità della vita comporta inevitabilmente l’adesione a un paradigma per cui la vita è un bene indisponibile alla cui conservazione l’individuo è obbligato semper et pro semper secondo un rigido deontologismo[13]; pertanto il senso non può che essere unico: conformarsi al piano di Dio sul mondo secondo la legge morale naturale. D’altra parte, se si aderisce a un’etica della qualità della vita, sostenendo che la vita è un patrimonio disponibile all’individuo, si concorda essenzialmente sull’assunto per cui la morale è una costruzione umana, fondata sulla libertà e il principio di autonomia piuttosto che sull’adeguamento ad una “natura” dal valore assiologico-normativo; ne consegue che il senso della (propria) vita è un costrutto individuale (e, pertanto, plurale).

Ne deriva che nel paradigma della sacralità della vita, il senso della vita risiede nella conservazione della vita biologica in quanto patrimonio inviolabile e indisponibile (donato da Dio)[14] al soggetto; ciò equivale all’adesione incondizionata al piano di Dio sul mondo, per il quale vita biologica e vita biografica coincidono in quanto l’essere umano è un’unità psicosomatica soggetta alla legge morale naturale. Nel paradigma della qualità della vita, i diversi costrutti di senso della vita (diversi come diverse sono le esistenze individuali in cui essi sono radicati) convergono sulla conservazione della vita biologica a meno che non intervengano fattori tali da rendere l’esistenza psicologicamente insopportabile ed emotivamente insostenibile (vita biografica, senso come significato e direzione) e/o biologicamente non autonoma (vita biologica, senso come gusto): in altre parole, il senso della vita risiede nella conduzione di una vita degna di essere vissuta. Ne consegue che, quando tale senso (inteso come significato, gusto, direzione) viene meno, ovvero di fronte all’insensatezza della vita biografica, il soggetto ha diritto a porre fine alla propria vita biologica. Che la distinzione di significati dei termini “vita” (vita biologica e vita biografica) e “senso” (nella sua pluralità semantica ed esistentiva) sia respinta dalla bioetica della sacralità della vita mentre venga ammessa dalla bioetica della qualità della vita riflette, da un lato, il rigoroso monismo della bioetica (cattolica) della sacralità della vita (per cui l’etica è vera in quanto derivata da una “natura” dal valore ontologico-assiologico assoluto), dall’altro, il pluralismo della bioetica della qualità della vita (per cui la libertà individuale è prioritaria su ogni dottrina ontologica e deontologica che pretende di imporsi come assoluta). Sintetizzando, è possibile affermare che, mentre nel paradigma dell’indisponibilità il senso della vita è la sua sacralità (valore intrinseco della vita biologica), nel paradigma della disponibilità della vita il senso risiede nella sua qualità (valore intrinseco della vita biografica).

3. Una soluzione laica alla questione del suicidio

La ponderazione della qualità della vita, che al limite può portare al suicidio (ammesso nel paradigma della disponibilità della vita, respinto sempre e comunque nel paradigma della indisponibilità della vita), non può prescindere da una valutazione del senso della vita che tenga in conto non solo la propria individualità, ma anche la dimensione relazionale in cui il soggetto è inserito[15]. Nessuno meglio di Giacomo Leopardi è riuscito a chiarire questo punto, nella risposta che Plotino dà di fronte alla volontà di Porfirio di togliersi la vita, nel relativo Dialogo[16]:

E perché anco non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso? […] Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. […] Ora ti prego caramente, Porfirio mio, […] non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce.[17]

Finché potremo godere dell’affetto anche solo di una persona che ha a cuore il nostro bene, dice Plotino, l’ipotesi del suicidio dovrebbe essere abbandonata in favore di una lotta comune contro la sofferenza e la sua origine (fisica o morale che sia): «Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che così, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono»[18]. È opportuno precisare che la conclusione di Plotino/Leopardi si inserisce a pieno titolo nel paradigma laico della disponibilità e qualità della vita. L’invito a evitare il suicidio non è infatti assoluto, ma condizionale: se godiamo dell’affetto dei nostri cari, allora è immorale scegliere consapevolmente di privarsi della vita e, con ciò, arrecar loro altro dolore che vada ad aggiungersi alle sofferenze quotidiane di ogni individuo. Ciò che Leopardi, per bocca di Plotino, ci suggerisce, è che una vita, per quanto dolorosa, se è accompagnata dall’amore è comunque degna di essere vissuta: il rifiuto del suicido non si giustifica con l’asserzione metafisica per cui la vita in sé è sacra e intangibile, ma con la considerazione etica che identifica, a livello individuale, nell’affetto ricevuto un dato qualificante della vita di chi, pure, soffre; e, a livello sociale, la sofferenza come un dato collettivo e non individuale e che, in quanto tale, collettivamente va affrontato.

Nell’accogliere pienamente la conclusione del Dialogo di Plotino e di Porfirio, una volta collocata nell’ambito del paradigma laico della disponibilità e qualità della vita, ritengo necessario trarne le conseguenze logiche radicali, date dalla struttura condizionale dell’argomento plotiniano: se un soggetto, già sottomesso dalla sofferenza, non può godere dell’affetto di nessuno (perché è, o si sente, solo) oppure, pur non essendo solo, la sofferenza che prova in atto è maggiore rispetto a quella che in potenza potrebbe causare ai suoi cari decidendo di morire, allora l’argomento di Plotino non è sufficiente ad allontanare l’ipotesi del suicidio quale scelta immorale. Ne deriva logicamente (e la casistica esistenziale ne offre diversi esempi) che alla sofferenza costante e permanente nella solitudine più disperata, l’unica consolazione è la morte. Di fronte a tale constatazione cinica, ovvero parresiastica in senso foucaultiano[19], la migliore reazione morale è l’impegno a far sì che coloro che sopravvivono nella disperazione (e sono più di quanto non si sospetti) non restino tali, o non diventino tali. Perché è proprio questo, in conclusione, ciò che auspica Leopardi:

Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.[20]

[Foto di Giovanni Altadonna: Tramonto a Milazzo]


[1] G. Altadonna, Due o tre parole sul senso della vita, in «Il Pequod», IV, 7, 2023, pp. 30-39.

[2] V. Mancuso, A proposito del senso della vita, Garzanti, Milano 2021.

[3] Cfr. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Mondadori, Milano 2009. Consiglio una lettura completa di questo interessante volume per un approfondimento di tale tematica, che in questa sede non può essere esaurita nella sua complessità. Mi limiterò, piuttosto, a sintetizzare gli aspetti teorici principali della questione allo scopo di contestualizzare le tesi qui espresse.

[4] L’aggettivo “laico” va inteso qui, secondo la precisazione di Fornero, in senso “forte”, «cioè in un senso per il quale esso si oppone programmaticamente alla posizione di chi, facendo un uso strategico-normativo dell’idea di Dio (inteso come sorgente dell’essere, legge eterna del mondo e norma ultima del bene) postula una metafisica razionale in grado di cogliere il disegno divino delle cose e di fungere da piattaforma universale del discorso bioetico» (ivi, p. 73), a indicare cioè una bioetica di contenuto laico (laddove bioetica “laica” in senso “debole” indica un approccio metodologico razionale e non fideistico alle questioni biomorali, adottato anche dalla Chiesa cattolica ufficiale: cfr. ivi, pp. 62-73).

[5] Ivi, pp. 22-98; G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica: tra passato e presente, in L. Lo Sapio, Bioetica cattolica e bioetica laica nell’era di Papa Francesco. Che cosa è cambiato?, UTET, Torino 2017, pp. 16-28.

[6] Tentativi sulla cui coerenza teorica Fornero esprime più di una perplessità.

[7] Si adopera il termine in senso non strettamente kuhniano, ma nell’accezione generale impiegata da Fornero: «per paradigmi s’intendono sia i modi complessivi, cioè gli occhiali o le lenti (e quindi gli apriori epistemici) attraverso cui vediamo la realtà, sia le griglie concettuali di base tramite cui “organizziamo” e “interpretiamo” l’esistente. […] Più in dettaglio, in quanto background ermeneutici dei nostri discorsi intorno al mondo, i paradigmi si configurano come degli insiemi strutturati di credenze che ruotano intorno a determinate idee guida» (ivi, p. 209). Cfr. anche G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica: tra passato e presente, cit., pp. 7-16.

[8] Sullo statuto epistemologico della bioetica cfr. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, cit., pp. 1-21.

[9] Ivi, p. 167.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, pp. 168-177.

[12] Laddove per “natura” si intende un «principio non solo ontologico, ma anche assiologico ed etico (che fa tutt’uno con l’idea di una morale in grado di acquisire norme dalle strutture dell’essere». Una impostazione che, per inciso, «si contrappone in toto a uno dei teoremi più diffusi della filosofia morale del Novecento, ossia alla cosiddetta “legge di Hume”, la quale vieta di dedurre un ought (cioè una prescrizione) da un is (cioè da una constatazione)» (ivi, p. 55 e nota).

[13] Cfr. ivi, pp. 42-48.

[14] Che la vita umana abbia, per la bioetica cattolica ufficiale, valore intrinseco in quanto realtà creaturale e non in quanto tale chiarisce perché l’accettazione della morte inflitta, qualora finalizzata alla testimonianza (martirio), non contraddice la dottrina della sacralità della vita della Chiesa cattolica romana: a essere sacra non è la vita biologica in quanto tale, ma la vita biologica in quanto dono di Dio, alla quale, nel caso-limite del martirio, l’individuo rinuncia per un fine superiore (la vita eterna). In tal senso, non è possibile sostenere che il Magistero affermi una dottrina “biologista” o “vitalista” della sacralità della vita. Cfr. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Mondadori, Milano 2009, pp. 32 e 44.

[15] Ciò equivale al modello bioetico noto come personalismo relazionale, il quale «sottolinea il valore fondante del rapporto intersoggettivo nelle scelte morali» (G. Fornero, Biotica cattolica e bioetica laica, cit., p. 52).

[16] Va precisato che l’apologia del suicidio avanzata da Porfirio concerne non una vita particolarmente piena di sofferenza, bensì la vita in quanto tale, l’esistenza sostanziata dalla noia, da quel taedium vitae ricorrente nell’opera leopardiana: «[…] ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata. Di maniera che non solo l’intelletto mio, ma tutti i sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità» (G. Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio, cit., pp. 544-545).

[17] Ivi, pp. 567-569.

[18] Ivi, p. 569.

[19] Cfr. M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984) (Le courage de la vérité. Le gouvernement de soi et des autres II. Cours au Collège de France 1983-1984, 2009), trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2016. Il riferimento si spiega alla luce dello stretto nesso che Foucault rintraccia fra la filosofia cinica e la parresia, in quanto sia il cinico che il parresiasta adeguano il proprio modo di vivere al dire-il-vero (ivi, p. 164). Per di più, il cinico non si limita a enunciare il rapporto di corrispondenza fra parola e vita, ma «fa della forma dell’esistenza un modo di rendere visibile […] la verità stessa» (ivi, p. 170). Lo scandalo cinico consiste nel fatto che il filosofo segue il discorso dell’interlocutore e, in una sorta di mimesi, risponde mostrando qual è l’effetto logico che ne deriva, esortandolo così a trarre le estreme conseguenze dalle tesi etiche che sostiene: «Il coraggio cinico della verità consiste in questo: riuscire a far sì che gli uomini condannino, respingano, disprezzino, insultino la manifestazione stessa di ciò che essi ammettono, o pretendono di ammettere, sul terreno dei princìpi. Si tratta di affrontare la loro collera dando loro l’immagine di ciò che ammettono e al tempo stesso valorizzano sul terreno del pensiero ma rigettano e disprezzano nell’ambito della loro stessa vita» (ivi, p. 225).

[20] G. Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio, cit., pp. 569-570.

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