L’isola, la casa, la donna

di Enrico Palma

 

Dialoghi con Leucò (1947), probabilmente il capolavoro di Cesare Pavese, sono un confronto con il mito classico e il tempo che passa, con le forze e gli elementi sacri del mondo. Perché gli dèi sono il raggio dell’aurora che scalda al mattino, la nuvola carica di pioggia, le messi che si indorano, il vento che spinge le onde, gli scogli, i fondali, la luce del firmamento che splende sul viso di una donna. 

Di seguito, si cerca di cogliere il mito e di farlo parlare, attraverso un tentativo di lettura di uno dei Dialoghi più belli, L’isola, in cui a dialogare sono un uomo e una dea innamorati ciascuno del proprio amore.

 

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Ero poco lontana,

ero dentro di te

quando tu ne uscivi alla cerca.[1]

 

e vorrebbe aver sonno e scordare ogni cosa 

come un tempo al ritorno dopo un lungo cammino.[2]  

 

Odisseo si trova nell’isola Ogigia, casa dell’antica dea Calipso. L’eroe però non vuole più dimorarvi: i sette anni trascorsi in quel luogo (nove nell’indicazione di Pavese) sono stati per lui un indicibile tormento. Con un decreto di Zeus caldeggiato da Atena gli viene infine accordato di poter abbandonare l’isola e di proseguire il suo viaggio verso casa, verso Itaca. L’isola infatti è il simbolo del provvisorio, della sosta, una zolla di terra nel vasto oceano. Essa non è l’oceano inesausto né la stanca terraferma: una zona liminare che suscita, grazie a tale accostamento topografico, questi due stati d’animo contraddittori, il flussico e il permanente. La casa di Calipso è lussureggiante, rigogliosa, invitante, uno dei luoghi più belli della Terra in cui a un mortale sia concesso mettere piede. In essa il tempo non scorre, la divinità è amica e compagna innamorata, l’immortalità è pronunciabile. 

E tuttavia Odisseo si strugge:

 

Sul promontorio, seduto [Calipso] lo scorse: mai gli occhi 

erano asciutti di lacrime, ma consumava la vita soave

sospirando il ritorno, perché non gli piaceva la ninfa.

Certo la notte dormiva sempre, per forza,

nella cupa spelonca, nolente, vicino a lei che voleva:

ma il giorno, seduto sopra le rocce e la riva,

con lacrime gemiti e pene il cuore straziandosi,

al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime.[3]

 

Calipso tenta di convincere Odisseo che la propria isola non è tanto diversa da quella da cui è provenuto e verso cui tende indefesso. Secondo la dea le loro condizioni sono più simili di quanto l’eroe stenti ad ammettere: «Anche tu come me vuoi fermarti su un’isola»[4]Come me, dice Calipso, poiché entrambi i personaggi sono accomunati dalla stessa angoscia opprimente. Odisseo ha conosciuto e sofferto ogni cosa del mondo, ed è giusto che adesso si fermi a godere della rilassatezza che una dea dai molti nomi ha preparato per lui. Sono stanchi, di un «grosso destino» (DcLibidem), di un disegno più grande i cui responsabili sono sempre gli Olimpi, un disegno di stanche ellissi che per tutt’e due ha significato soltanto patire. 

L’isola che Calipso propone è quella della mancanza di dolore, dell’affrancamento da ogni sofferenza. «Qui mai nulla succede» (DcLibidem) continua la dea. L’isola di Calipso è l’offerta della pace, della serenità. «C’è un po’ di terra e un orizzonte. Qui puoi vivere sempre» (DcLibidem). Ma sono davvero quella terra e quell’orizzonte che Odisseo desidera per sé? 

Calipso gli propone la vita eterna. «Immortale è colui che accetta l’istante. Chi non conosce più un domani» (DcLibidem). Un  convintamente nietzscheano, ma anche una vibrazione cosmica che il Wittgenstein del Tractatus ha saputo cogliere ed esprimere in modo cristallino: «Lebt der ewig, der in der Gegenwart lebt»[5]. Ma può mai essere vita quella che nel tempo non vive? La proposizione di Wittgenstein ha tutt’altro orizzonte di riferimento ma chiarisce il cruccio di Odisseo sin da queste prime battute. L’atemporalità è la chiave dell’immortalità promessa da Calipso, la porta della serenità, ciò che in verità Odisseo non desidera. Il suo cuore pretende altro. 

«Chi non spera di vivere» (DcLibidem), dice Calipso, è l’immortale, ovvero chi non vuole più conoscere il lato doloroso del domani, chi ha patito molto e non vuole più patire, chi vuole stare sereno e vivere nella pace imperturbabile degli dèi. Il vero sentimento di Odisseo si rivela nelle sue brevi, laconiche battute: «Se domani io partissi tu saresti infelice?» (DcLibidem). Rivolgendo tale domanda a Calipso, Odisseo manifesta il suo stato d’animo più profondo, l’abissalità del suo desiderio rispetto alla quale persino la proposta di una stupenda dea è insufficiente. Odisseo rimugina la notte sulle cose del mondo e su se stesso, piangendo e fissando l’orizzonte del suo confino alla fine delle onde, lontano, lì dove il suo cuore batte davvero. Restare a Ogigia significa per lui «assomigliare allo scoglio, contro cui s’infrangono continuamente le onde ed esso rimane fermo e intorno ad esso si addorme il ribollir delle acque»[6]. È questa serenità che per Odisseo è insostenibile. Tale ribollire è nel suo animo inquieto, indomito, che si appaga di Calipso ma solo per rendere più sopportabile il suo soggiorno. 

Calipso gli ha prospettato la soppressione del domani, e con esso anche del passato, estirpando in tal modo non soltanto il desiderio di Odisseo, ma anche la radice più tenace della sua nostalgia. «Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte, non uscirai da quel destino che conosci» (DcLibidem). Se Odisseo non adopera l’oblio del passato e l’attesa speranzosa del futuro non avrà mai scampo dalla smania, non sarà mai tranquillo. Non avrà imparato il sorriso del dio. Egli ha così di fronte due orizzonti: accettare il divino uscendo dal tempo, oppure immergersi nuovamente nelle acque del divenire e accogliere la finitudine della temporalità umana. Perché «si tratta sempre di accettare un orizzonte» (DcLibidem), di scegliere da quale limite farsi definire

Che cosa avrebbe in cambio se accettasse l’offerta di Calipso? Il riposo. Calipso vuole proprio ciò, e lo vuole ardentemente,vuole gettarsi nell’assenza del dolore, nell’oblio della sofferenza. Odisseo le chiede se sia felice ma Calipso evade il punto della domanda, perché, in definitiva, la felicità non è ciò che gli sta offrendo, non è ciò che gli può offrire. 

L’isola è vuota, poiché il desiderio è sprofondato come i nomi e le cose del passato in cui il volere di Calipso era il destino, era la legge, era il sacro palpitare dei canti d’ogni giorno. E però ne rimane una traccia, un segno che graffia il silenzio e lo interrompe, una voce che dalla quiete risuona insieme ai «rimbombi del mare» e agli «stridi d’uccelli» (DcL, pp. 101-102). La divinità potente e temibile che Calipso era un tempo non esiste più, sostituita dai nuovi dèi. E tuttavia non vuole rimpiangere il ricordo sbiadito dei suoi giorni dolorosi, perché in quel silenzio si ode il crepitare di «un’antica tensione e presenza scomparse» (DcL, p. 102). Scomparse, ma non perdute. Come il passato di Odisseo, che tra gli scogli, ogni notte, l’eroe invoca con il cuore in mano pronto a lanciarlo oltre quell’orizzonte. 

«Dunque anche tu parli agli scogli?» (DcLibidem), dice Odisseo, ma si sbaglia. Calipso aveva parlato del sonno, del tacere. Ella non può parlare ma solo ascoltare quel silenzio. Non vuole né morire né vivere, non spera in nessun futuro. Gli umani hanno la stessa sorte: il lento morire della vita che è la vecchiaia e il rimpianto per non essersi risparmiati tale dolore. 

La dea immortale ha comunque bisogno di lui, di un essere finito, per essere aiutata a sopportare. Come il dialogo, infatti, ha bisogno di almeno due individui che istituiscano il loro spazio con la parola, allo stesso modo ne ha bisogno tale «reciproco bene» (DcLibidem) del silenzio. L’uno nell’altro vivranno dunque accettando l’istante, e più che un’accettazione benevola della propria condizione di esseri inquieti si tratta bensì di un accontentarsi. Solo chi ha il cuore trafitto dagli aghi degli evi dolorosi e del tempo affannoso desidera per sé il silenzio, il non aggiungere altro, l’oblio della parola che è il ricordo del passato e la costruzione del futuro. 

Odisseo pone quindi la domanda più intelligente di tutte: «Non ti basta che sono con te oggi?» (DcLibidem). Calipso non dovrebbe allora accontentarsi dell’istante? Colui che vive in eterno, forzando Wittgenstein, vive in un eterno presente, ma le eternità di Odisseo e Calipso sono incommensurabili. È in questo passaggio che si condensa la matrice desiderante dell’accontentarsi di Calipso. La dea vuole possedere Odisseo perché ne desidera il tempo. L’amore, che sia amore totalizzante o geloso, è la pretesa di annullamento dell’altro prima di tutto in senso temporale. Il vero innamorato vuole infatti possedere il tempo dell’altro, vuole che il suo presente coincida con il suo. Per tale ragione Calipso chiede a Odisseo di dimenticare quel passato che la dea non può ottenere, e di estinguere il suo futuro e abitare insieme a lei per sempre. «Non sei con me, Odisseo. Tu non accetti l’orizzonte di quest’isola. E non sfuggi al rimpianto» (DcLibidem). Odisseo non accoglie l’eterno presente dell’immortalità di Calipso, né accetta di sopprimere il passato che ha nel cuore e che lo risospinge verso Itaca. 

Calipso ha voluto il suo orizzonte. Gli dèi vogliono, gli umani subiscono, e a volte le loro aspirazioni coincidono con ciò che si suole chiamare divina benevolenza. Calipso era sprofondata nel tempo dell’inedia, del torpore e della stanchezza, ma soprattutto nella tromperie dell’amore che la partenza del suo amato avrebbe svelato con una straziante rottura dell’incanto. «Temo l’alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio» (DcLibidem). Tale è il sonno che Calipso vuole proteggere, tale è il domani che vuole allontanare. Calipso vuole titanicamente annullare il tempo affinché Odisseo rimanga. 

Ma Odisseo ha un’altra terra e un altro mare dentro di sé. «Ma da quando sei giunto hai portato un’altr’isola in te» (DcL, p. 103). C’è un’altra vita, un altro tempo, un altro limite in Odisseo, il quale è tutt’e tre queste cose. Odisseo vuole vivere, vuole desiderare, vuole parlare, vuole essere felice. «Da troppo tempo la cerco» (DcLibidem). Odisseo cerca senza posa quest’isola, l’isola che ha nel cuore, la patria, la casa, la moglie. La speranza di Odisseo, il suo futuro, è palpabile nel desiderio, spesso frustrato, che ogni terra avvistata sia la sua terra.

Odisseo ha la speranza per poter rinnovare la sua nostalgia, che è nostos e algos, il dolore del ritorno. È il dolore per la vicinanza delle cose lontane. Mai come in Odisseo si avvera la Sehnsucht dei romantici, la brama della brama, il desiderio per il desiderio che nel desiderare consuma. Odisseo nuoterebbe come nel mito di Ero e Leandro musicato da Schumann mit Leidenschaft, nella notte[7] degli scogli, con una passione di cui invece Calipso tenta di privarlo. 

Odisseo vuole tornare a casa, vuole ritrovare se stesso, il tempo che ha perduto nel viaggio, che lo ha cambiato, trasfigurato, reso ancor di più consapevole della fondatezza del suo desiderio. «Eppure, Odisseo, voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto è sempre un male. Il passato non torna» (DcLibidem). Il rischio è che una volta tornato la delusione sia più cocente del dolore provato nell’aspirazione al ritorno. Calipso tenta di proteggere Odisseo dal rimpianto di un nuovo approdo. Ma il paradiso di Odisseo non è quello prospettato da Calipso, «car les vrais paradis sont les paradis qu’on a perdus»[8]. Il passato, come ignora il Jay Gatsby della Fernanda di Pavese, non può tornare indietro[9] ma deve essere ritrovato nelle intermittenze del cuore di Odisseo, il quale al vibrare della nostalgia desidera sostituire la pienezza della presenza di ciò che si ritrova, benché ciò sia sempre diverso da quel che si è perduto. L’unica eternità possibile per Odisseo è la ricerca della felicità, che consiste nel riportare al corpo e al cuore la presenza della sua casa. 

Nella conclusione del dialogo Calipso parla davvero a Odisseo: è solo alla fine che rompe il silenzio e la parola erompe. Odisseo sarà immortale se avrà ascoltato Calipso. E stavolta deve farlo. «Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?» (DcLibidem). Vivere in eterno significa vivere nel presente che si fa passato nella protensione verso il futuro, significa abitare il tempo benedicendolo, significa memoria, dolore, parola, nostalgia, speranza, desiderio. Tali infatti sono le parole della felicità di Odisseo. 

«Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?», chiede Calipso non ancora paga, a cui Odisseo risponde: «Se lo sapessi avrei già smesso» (DcLibidem). L’eroe non sa ciò che lo muove e che lo nutre ogni notte nell’attesa della nuova aurora. E tuttavia, pur non sapendo, lo sente nelle ossa, nei nervi, nei muscoli. Lo sente nel cuore. 

«Quello che cerco l’ho nel cuore, come te» (DcLibidem). Come te. Solo adesso, insieme a Odisseo, si comprende la natura di questo come. All’inizio del dialogo Calipso presume di sapere che come lei l’amato voglia fermarsi su un’isola. Ma l’isola di Odisseo non è quella in cui si trova, non è quella in cui giace, non è quella di Calipso. Odisseo deve ritrovare l’isola che si porta dentro, che ha nel cuore e che il ricordo gli sollecita come le onde del mare notturno che si rifrangono sugli scogli: ciò che «quand toutes nos larmes semblent taries, sait nous faire pleurer encore»[10].

Cos’è che cerca Odisseo? Cos’è stato finora il suo vagare? Potrebbe dirlo Rilke, dalle Frühe Gedichte

 

Das ist die Sehnsucht: wohnen im Gewoge

und keine Heimat haben in der Zeit.

Und das sind Wünsche: leise Dialoge 

täglicher Stunden mit der Ewigkeit.[11]

 

La brama nostalgica e dolorosa di Odisseo è questo: abitare il fluttuante e il divenire degli istanti, non avere nessuna patria, casa o dimora nel tempo, che è l’eternità di Calipso, dove si accetta il sereno ma ci si priva di desiderare la felicità. I suoi desideri sono infatti un dialogo tacito e quotidiano con l’eternità, con il presente, con l’immortalità che è la dea.

E però la più degna conclusione viene da Pavese stesso, dall’alfa della sua opera di cui i Dialoghi sono probabilmente l’omega. Nel dialogo tra Odisseo e Calipso, inscenato in quest’isola «troppo vuota», rimbomba un’eco poetica. Sembra Odisseo a parlare: «Val la pena esser solo, per essere sempre più solo? / Solamente girarle, le piazze e le strade / sono vuote»[12]. A Odisseo non serve girovagare per le strade del mondo popolate dagli dèi immortali: egli deve tornare al suo «pezzo di terra quant’è lunga una donna»[13], al suo cuore, a casa, da Penelope. Il cuore di Odisseo sarebbe la casa, e «la casa sarebbe / dove c’è quella donna e varrebbe la pena»[14]. Donna dunque, e non dea. E tanto basta[15].

 

 

In foto: Panarea e Stromboli viste dalla spiaggia di Canneto a Lipari al tramonto.

 


[1] M. Luzi, Tra le cliniche, in Nel magma, in Le poesie, Garzanti, Milano 2020, vv. 16-18, p. 322.

[2] C. Pavese, Ulisse, in Lavorare stanca 1936-1943, in Le poesie, Einaudi, Torino 1998, vv. 17-18, p. 56.

[3] Omero, Odissea, trad. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2020, Libro V, vv. 151-7, p. 137. Il corsivo è mio.

[4] C. Pavese, L’isola, in Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 2019, p. 101. Le prossime citazioni da questo testo saranno contrassegnate dalla sigla DcL e dal relativo numero di pagina. 

[5] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Werkausgabe, volume I, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2016, p. 83, proposizione 6.4311. «Vive eterno colui che vive nel presente», trad. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 2009, p. 107.

[6] Marco Aurelio, I ricordi, a cura di C. Carena, Einaudi, Torino 2019, IV, 49, p. 57.

[7] Si ascolti R. Schumann, Fantasiestücke, Op. 12, 1837, V, In der Nacht (Nella notte).

[8] M. Proust, Le Temps retrouvé, a cura di P.E. Robert e B. Rogers, in À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, Gallimard, Parigi 2019, p. 2265. «Perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto», trad. di M.T. Nessi Somaini, Rizzoli, Milano 2012, p. 249.

[9] Il passo fondamentale del romanzo, le due battute tra Nick e Gatsby, suggella proprio ciò: «“Non pretenderei troppo da lei”, arrischiai. “Non si può ripetere il passato”. “Non si può ripetere?”, fece lui incredulo. “Ma certo che si può!”», in F.S. Fitzgerald, Il grande Gatsby (The Great Gatsby, 1925), trad. di F. Pivano, Einaudi, Torino 2014, p. 98.

[10] M. Proust, À l’ombre des jeunes filles en fleurs, a cura di P.L. Rey, in À la recherche du temps perdu, cit., p. 356. «Quando tutte le nostre lacrime sembrano prosciugate sa farci piangere ancora», trad. di M.T. Nessi Somaini, Rizzoli, Milano 2012, p. 248. Il corsivo è mio. 

In che misura Proust sia un pensatore e uno scrittore omerico, e grande quanto Omero, a me sembra cosa nota; faccio dunque notare la convergenza, almeno per me assai significativa, tra i versi dell’Odissea citati all’inizio e questa fulgente frase proustiana, nonché l’incrocio di questi temi in Pavese. 

[11] R.M. Rilke, Das ist die Sehnsucht, vv. 1-4. «Questa è la Sehnsucht: abitare nel fluttuante e non avere dimora nel tempo. / E questi sono i desideri: taciti dialoghi / di ore quotidiane con l’eternità». 

[12] C. Pavese, Lavorare stanca, in Lavorare stanca 1936-1943, in Le poesie, cit., vv. 9-11, p. 48.

[13] Id., La luna e i falò, Einaudi, Torino 2014, p. 15.

[14] Id., Lavorare stanca, in Le poesie, cit., vv. 19-20, p. 48.

[15] Devo ai corsi dei Proff. A.G. Biuso e A. Sichera, nonché a un viaggio inatteso, la sollecitazione a scrivere questo testo.

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