Parusia e Sein-zum-Tode. Paolo, Heidegger, il tempo

 

di Nicoletta Celeste

 

Il tempo è povero non soltanto perché Dio è morto, ma anche perché i mortali sono a malapena in grado di conoscere il loro essere-mortali. Essi non sono ancora padroni della propria essenza. 

La morte si ritrae nell’enigmatico.[1]

           

Paolo di Tarso è una figura difficilmente classificabile in categorie ermeneutiche precostituite. Credere di poter condensare in uno schema la complessità della sua identità e l’intensità del suo messaggio significa perseverare in un’idea nemica della sua realtà storica e umana. La profondità, la lungimiranza, la ricchezza del suo messaggio mostrano un uomo dilaniato tra due mondi, quello giudaico e quello ellenistico, ma anche un abile scrittore in grado di utilizzare in maniera competente tutti i mezzi della retorica greca e latina. Paolo, infatti, è stato uno dei primi autori dell’antichità a introdurre la comunicazione a distanza, prendendo in prestito il genere della lettera utilizzato già ampiamente nel mondo greco-romano e facendone uno strumento per mantenere vivo il rapporto con le nuove comunità cristiane unite dalla stessa fede e dislocate nei vari territori dell’impero orientale. Con uno stile appassionato, persuasivo, coinvolgente, il suo epistolario ha sempre suscitato atteggiamenti contrastanti nei suoi lettori che vanno dall’estremo di un’adesione entusiastica a quello di un ostile rifiuto. Tra questi lettori, si distingue un giovane Martin Heidegger che, proprio agli esordi della sua carriera accademica, rintraccia nelle pagine paoline la possibilità del «Das Leben verstehen!», di comprendere la vita nella «concretezza esistenziale della sua storicità, delle connessioni di senso in cui si vive e da cui è vissuta»[2].

Proprio nei corsi friburghesi del 1920-21, raccolti in un volume dal titolo Fenomenologia della vita religiosa, Heidegger sente l’esigenza di attuare una concreta “riabilitazione” postuma di quell’illustre «ciarlatano»[3] di Tarso, disprezzato e deriso pubblicamente dai filosofi presenti nell’Areopago ateniese. Una “riabilitazione” innanzitutto filosofica in vista di una più ampia “inversione” (Umwendung), anzi di una vera e propria “conversione” (Umwandlung) del sapere filosofico che, sulla base del frequente ricorso alla categorializzazione fenomenologica dei vissuti, si era progressivamente allontanato dall’Erleben, dall’effettività della vita nelle sue molteplici sfumature patiche e pratiche. Il “torto” dell’approccio fenomenologico di Husserl, secondo Heidegger, era quello di considerare la filosofia esclusivamente come scienza teoretico-oggettivante, vale a dire come un’indagine che privilegia le questioni di tipo epistemologico e gnoseologico, disinteressandosi di tutti quegli ambiti della vita irriducibili alla dimensione noetica. Ripartire da Paolo significava allora ritrovare e riscoprire la complessità dell’esistenza umana come intreccio inscindibile con il mondo, con la storia, con il tempo, con la morte: «Ciò che viene vissuto nell’ambito della vita fattuale, il contenuto di questa esperienza, è “mondo”, ma non in quanto oggetto della conoscenza, bensì in quanto elemento «in cui è possibile vivere», mondo della vita»[4].

Nell’analisi dell’epistolario paolino, il giovane Heidegger si sofferma su alcuni passi tratti dalle due lettere che Paolo scrive ai credenti della comunità di Tessalonica, in cui viene affrontata la questione escatologica della παρουσα e lo sviluppo della temporalità cairologica. Bisogna, tuttavia, sottolineare che quando Paolo utilizza il termine παρουσα «si riferisce direttamente alle festose visite, chiamate “parusie”, esattamente come la venuta finale di Cristo, che erano compiute da re, imperatori e personaggi di rilievo alle città ellenistiche del tempo; dove il cerimoniale contemplava la gioiosa uscita dei cittadini»[5]

In corrispondenza dell’evento parusiaco non ci sarà alcuna modificazione esterna né tantomeno un cambiamento cosmico straordinario o spettacolare. Nella prospettiva paolina l’attesa è quella di una persona reale che implica la modificazione interna dell’esistenza e le sue relative decisioni. L’attesa escatologica di questo momento cruciale si traduce nell’esperire concretamente il rapporto autentico con il tempo che rimane, con l’intervallo tra futuro ultimo e tempo presente deciso in una specifica modalità esistenziale. Così scrive lo stesso Paolo ai Tessalonicesi:

 

Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre perché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Sì, voi tutti siete figli della luce e figli del giorno. Non siamo della notte, né delle tenebre. Perciò non dobbiamo come gli altri dormire, ma stare svegli e lucidi di mente, mettendoci la corazza della fede e dell’amore e l’elmo a speranza della salvezza.[6]

 

Questo intervallo temporale compreso tra il presente e il futuro parusiaco è ciò che i greci chiamavano Καιρóς, il tempo che si fa spazio nel tempo, in cui tutti gli uomini sono interpellati a una risposta decisiva sul loro destino. Il Καιρóς è il “frattempo”, il tempo della traità che non salva l’uomo dalla sua fine, né lo sottrae alla corruzione fisica, ma «si limita a illuminarne l’ac-cadere»[7].

Nella sua originale ermeneutica dei testi paolini, Heidegger comprende che la temporalità compressa di Καιρóς rappresenta quell’irrinunciabile occasione per i credenti di vivere fino in fondo il tempo che rimane. Se nell’epistolario paolino la παρουσαè l’evento imminente e ineludibile che segna la condizione-limite del credente e la sua cronicità esistenziale, nelle pagine heideggeriane di Essere e Tempo questo stesso ruolo è assunto dalla morte. Per il Dasein (l’Esserci) quest’ultima è caratterizzata dall’inevitabilità e dall’incombenza futura: «La morte incombe sull’esserci. La morte non è qualcosa non-ancora sottomano, né un ultimo restar-fuori ridotto al minimo, ma piuttosto un incombente star-di-fronte»[8]. E, come per il credente cristiano il decidersi autentico consiste nella vigilante attesa della fine del tempo, così per il Dasein heideggeriano è la “decisione anticipatrice” (Vorlaufende Entschlossenheit) a predisporlo autenticamente al tempo della fine. 

Pertanto, finché il Dasein vive non può esimersi dal domandare circa il senso del morire e del suo essere-alla-morte (Sein zum Tode). Heidegger stesso scrive che: «La morte, in senso latissimo, è un fenomeno della vita»[9].

Così, nella prospettiva di terminus a quo della vita, la morte può essere interpretata in base ai vari significati assunti da una parola latina spesso intesa come suo sinonimo: finis. Questo termine, come la maggior parte di quelli appartenenti alla classicità, è polisemico e, dunque, traducibile in modi diversi (limite, termine, scopo) che possono, a loro volta, essere ricondotti a tre valenze semantiche fondamentali coincidenti con le tre forme reali che una qualsiasi linea può assumere:

 

1.  Morte come la fine. Qui, finis va inteso come quella linea oltre la quale la vita non può più continuare. La morte è, innanzitutto, ciò che interrompe la vita, le dà lo stop definitivo.

2. Morte come il fine, il lato oscuro e onnipresente di ciò che chiamiamo vita. Quotidianamente, infatti, all’interno del nostro corpo migliaia di cellule muoiono, alcune, specie quelle cerebrali, non rigenerandosi del tutto. La morte non è, dunque, solo quell’evento da proiettare in un lontano futuro, ma l’intima compagna della dimensione biologico-esistenziale umana. È vero, infatti, che una linea come quella del traguardo può essere interpretata sia come una mèta da raggiungere, un punto di arrivo e di compimento del percorso svolto, sia come qualcosa che è anche atteso e verso il quale vengono proiettati tutti i propri sforzi presenti. È in questa direzione che Heidegger colloca il vero esser-proprio del Dasein. La possibilità più propria del Dasein è quella di non avere – a un certo punto – nessun’altra possibilità. La morte è proprio quell’evento drammatico e inevitabile a cui il Dasein non può non prescindere dal rapportarsi nel futuro. Nelle parole di Heidegger la morte è «la possibilità più propriaincondizionata e insuperabile»[10]. Anche il teologo Karl Rahner mostra come quest’ultima non possa essere mai ridotta a un processo che riguardi esclusivamente il corpo. La morte è un vero e proprio atto spirituale che implica soprattutto il compimento di un processo, «un totale prendersi-in-possesso della persona, un aver realizzato-se-stessi»[11].

3. Morte come con-fine. A un certo punto della propria esistenza, qualunque essere umano pone la domanda su cosa sia la morte, cercando di rintracciare una risposta guardando innanzitutto nelle drammatiche “pieghe” della morte di chi lo circonda. La sua risposta resterà, pertanto, sempre confinata all’interno del cerchio limitato di queste sue esperienze. La morte si trova proprio in questo aporetico spazio tra la domanda e la risposta, come “il” confine di tutti gli altri confini che limitano la vita in tutta la sua energia propulsiva. 

 

Se, pertanto, la morte o la παρουσα cristiana sono eventi ineludibili, occorre allora comprendere quali diverse modalità esistentive/esistenziali vengano assunte dal Dasein o dal credente per affrontarli. Da un lato si delinea, così, un possibile percorso esistentivo inautentico caratterizzato da un congelamento elusivo verso ciò che incombe, un rattrappimento sulla disperata angoscia e sulla fluttuosa irrisolutezza. Chi dimora in questo oscuro scadimento rimane attaccato e disperso nell’onticità mondana, ricerca la tranquillità e la sicurezza nell’effettività presente, si acquieta sul tempo misurato e misurabile e sull’irrefrenabile tentazione di nascondere la morte. Dall’altro lato, invece, emerge un possibile percorso esistenziale autentico legato alla decisione di assumere la propria finitezza, di cambiare dolorosamente la prospettiva di sé, del mondo circostante e dello scorrere del tempo. Per Paolo quest’ultimo è il rivolgimento cairologico di vigile attesa di ciò che è a-veniente. Per Heidegger è la Vorlaufende Entschlossenheit che assume primariamente l’avvenire come dimensione fondamentale del tempo e che permette al Dasein di riconoscersi come parte effimera dell’incompiuto, dell’inatteso e dell’eventuale. 

Da questa decisione per la propria autenticità scaturisce proprio ciò che Heidegger chiama Sein-zum-Tode, l’essere-per-la-morte. Pertanto, il Dasein come “essere-per” non si possiede mai in una realtà presente, ma si comprenderà solo come “veniente” a se stesso. Questo avvenire, come quello dell’escatologia paolina, non va inteso come semplice futuro, come qualcosa che non si è ancora attuato e compiuto e che lo sarà successivamente, ma è quel tipo di movimento attraverso cui il Daseincome il credente cristiano, perviene alla sua dimensione più propria: l’essere-per il tempo che viene, per la morte che incombe, per il compimento escatologico. 

L’unico sentiero etico possibile e autentico è, dunque, quello in cui occorre progettare ciò che resta del tempo che trascorre come un autentico vivere-per-la-morte (Sein-zum-Tode) in Essere e Tempo; come un vivere-per-l’incontro finale con Cristo, nella prospettiva paolina. 

È in questa analoga condizione che l’uomo e il credente percepiscono la vita come un passaggio labile, accidentale, sdrucciolevole in cui è solo il futuro la vera forma estatica del tempo che può attualizzare, meglio del presente, tutti i contenuti e i riferimenti delle decisioni umane. È solo il futuro che conduce l’uomo dinanzi al limite del suo esistere, all’impossibilità radicale di eludere ciò che lo potrà trasfigurare o nullificare, portare a compimento o annientare. Sulla scia di queste riflessioni si innesta quella di Rahner, che ebbe modo di seguire personalmente i corsi di Heidegger a Friburgo e che proprio ne Il concetto di futuro stimola a rintracciare due tipi di configurazioni di questa dimensione temporale: 

 

Con futuro innanzitutto e genericamente si intende il risultato dell’opera dell’uomo, vale a dire «quello che oggi concretamente prevediamo e domani realizzeremo, disponendo di piani precisi e di mezzi efficaci, che ci permetteranno – è solo questione di tempo – di tradurlo in realtà» […] Questo futuro Rahner lo chiama futuro intramondano (innerweltliche).[12]

 

A questo futuro, che non è mai totalmente nuovo perché già contenuto nel passato e prevedibile nel presente, si accompagna il futuro «non evolutivo, non-progettato, non-disponibile»[13] tutto denso di novum e di inatteso. Jürgen Moltmann ha riproposto in seguito questa distinzione utilizzando due termini latini distinti e riconducibili a due direzioni diverse: futurum, quello intramondano, legato all’idea di sviluppo in avanti, presente nel verbo fieriadventus come novità che irrompe, che viene incontro all’inverso. Tutto quello che conta è educare l’essere dell’uomo affinché sia capace di affrontare il futuro che, come sostiene Rahner, non è solo quello che oggi concretamente prevediamo e che domani realizzeremo (futurum), ma è soprattutto l’adventus, il futuro totalmente nuovo, inatteso, imprevedibile.  

Come sostiene Theodore Kiesel, è possibile affermare che Heidegger non avrebbe mai potuto elaborare alcune parti decisive dell’opera del 1927 senza avere rilevato dalla sua attenta lettura dell’epistolario paolino un’esperienza del tempo caratterizzata dal senso del compimento e dalla radicalità della dimensione vissuta. Come afferma Kiesel, la ‘cairologia’ del tempo costituisce: «il cuore più essenziale, e tuttavia in gran parte non detto, di Sein und Zeit»[14]

Le parole di Essere e Tempo riflettono lo stesso temperamento spirituale di Paolo, racchiudendo un messaggio intramontabile circa il dovere umano di prendere le distanze dai facili autoinganni del vivere mondano e di assumere autenticamente la propria caducità e finitudine. Dall’antica scrittura di un apostolo che suggerisce agli uomini scelte radicali, il giovane Heidegger attinge quello spirito non convenzionale che anima il suo iniziale cammino filosofico, nel tentativo di ricostruire in profondità la concretezza del vissuto esistenziale, il limite tanatologico che l’attraversa da ogni parte, il tempo come sua condizione necessaria.

 

 

 


[1] M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes), in Sentieri interrotti (Holzwege, 1950), trad. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 25.

[2] E. Mazzarella, «Vita ed essere. Il doppio inizio della Seinsfrage heideggeriana», in Bollettino Filosofico, XXXV (2020), p. 110.

[3] At 17,18. 

[4] F.W. von Herrmann, «Esperienza della vita fattuale e religiosità cristiana originaria», in Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’Epistolario paolino, a cura di A. Molinaro, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2008, pp. 19-20.

[5] F. Manini, Lettere ai Tessalonicesi. Introduzione, traduzione e commento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2012, p. 132.

[6] 1Ts 5,4-8. 

[7] S. Gorgone, Il tempo che viene. Martin Heidegger dal kairós all’Ereignis, Guida, Napoli 2005, p. 22.

[8] M. Heidegger, Essere e Tempo (Sein und Zeit, 1927), trad. di A. Marini, Mondadori, Milano 2006, § 50, p. 707.

[9] Ivi, § 49, p. 697.

[10] Ivi, § 50, p. 709.

[11] K. Rahner, «Sulla teologia della morte», in Trattato di escatologia, a cura di A. Nitrola, vol. II, Pensare la venuta del SignoreEdizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p. 92.

[12] A. Nitrola, Trattato di escatologia, cit., vol. I, p. 310.

[13] K. Rahner, «Il concetto di futuro», in ivi, p. 312. 

[14] T. Kiesel, «The Genesis of Heidegger’s “Being and Time”», in Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’Epistolario paolino, cit., p. 92.

 

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