Della luce e del pensiero: sul senso della filosofia

di Luca Dilillo

Wer das Tiefste gedacht, liebt das Lebendigste

(Chi pensa il più Profondo, ama il più Vivo)

Hölderlin, Sokrates und Alkibiades

 

Tutti siamo costantemente in contatto con il fenomeno della luce. Letteralmente, è per suo tramite che vediamo, o, se vogliamo dirlo in termini filosofici, essa è la condizione di possibilità del vedere. Ciononostante – ma forse proprio in conseguenza di questa prossimità – la “natura” della luce, la sua essenza peculiare, non è qualcosa che solitamente prendiamo in considerazione. La sua presenza intermittente e misteriosa viene data per scontata, il che è provato dal fatto che nella vita di tutti i giorni ci accorgiamo della luce solo quando essa non c’è – e anche allora, desta il nostro interesse esclusivamente per motivi estrinseci ad una sua considerazione per così dire “essenziale”. Tutto ciò non ha impedito, però, che nel corso della storia più d’uno si interrogasse sulla questione: in epoca medievale ci fu perfino chi edificò sul tema una vera e propria Metafisica[1]. L’interesse ontologico e gnoseologico nei confronti del fenomeno luminoso trovò ovviamente nuova linfa negli anni della Rivoluzione scientifica; per tre secoli, da Newton a Maxwell, passando per Goethe, le teorie sulla luce si sono susseguite, cambiando anche radicalmente nel tempo. Così, il fenomeno all’apparenza banale comincia a rivelare, a occhiate più attente, una notevole complessità. E per rafforzare ancor di più questa complessità, aggiungeremo un altro particolare. Quando si pensava che la nuova scienza avesse chiarito in via definitiva la natura del fenomeno luminoso, ecco che giunse una clamorosa scoperta: la luce non era altro che la minuscola parte di un fenomeno molto più esteso e in larga misura inaccessibile ai sensi umani: la radiazione elettromagnetica! Erano le ben note equazioni di Maxwell. Tutte le idee tradizionali sulla centralità e sulla dignità della luce, perfetta immagine dello splendore divino, crollarono nel momento in cui questa si rivelò come il misero frammento visibile di un lunghissimo spettro che andava dalle onde radio ai raggi gamma. Ma arriviamo a oggi: ebbene, oggi che la natura della luce è finalmente chiarita, cosa mai di questo fenomeno dovrebbe ancora sorprenderci? La conoscenza “vera e oggettiva” non ci ha sufficientemente liberato tanto dai toni mistici e ispirati, quanto dalle incertezze della vecchia scienza? 

Eccoci al punto. Questo strano discorso intorno alla luce non è il frutto di una spiritosaggine: al contrario, esso ci permette di notare come nella vita dell’uomo siano all’opera due forze, la cui matrice è unitaria: da una parte, la forza del senso comune; dall’altra, quella che potremmo chiamare la forza del pregiudizio scientifico. La storiella sulla luce ce le ha mostrate entrambe in azione. Esse derivano da una tendenza che chiameremo inclinazione abitualizzante o inclinazione disincantante. Proviamo a formalizzare quanto detto in precedenza: di solito, l’ubiquità di un fenomeno all’interno della nostra vita ci porta semplicemente a non occuparcene, dandolo per scontato insieme alle idee generalmente accettate che gli gravitano intorno: è il ben noto “senso comune”; a un certo punto, però, il fenomeno in questione potrebbe diventare di improvviso interesse per un certo numero di uomini, spingendoli alla ricerca di una risposta che sia in grado di spiegarlo compiutamente. Nondimeno, una volta trovata, la risposta determina un nuovo oblio dell’oggetto problematico: questo secondo oblio è causato stavolta da un senso di sicurezza; sicurezza derivante dal fatto che confidiamo nella risposta apparentemente definitiva da noi trovata a quel problema, il quale, d’ora in avanti, cesserà dunque di essere tale. L’esistenza dell’uomo si muove incessantemente all’interno di questo schema, oscillando da una sicurezza all’altra, in un percorso che termina con la risoluzione del mistero e ricomincia non appena il mistero si presenti di nuovo, rifluendo in enigma. Allora – si potrebbe dire restando in argomento – dove sta il problema? La questione è semplice: a furia di togliere il mistero dalle cose, a furia di “disincantare” il mondo, la mentalità scientifica – o come Husserl lo chiamerebbe, l’atteggiamento obiettivo-naturalistico – rischia di portarci a un mondo dove i problemi, semplicemente, non esistono più. Invero, per molti – continuando a giocare con le parole – questo non sarebbe un problema: del resto, la conoscenza non mira a illuminare ogni cosa, non mira a raggiungere la chiarezza e l’evidenza più assolute in ogni angolo dello scibile? Non possiamo negarlo. Ci permettiamo, però, di esprimere un’opinione: che, se mai questo stato dovesse raggiungersi, ciò significherebbe per il mondo la fine del suo essere umano; ma anche la fine del suo essere naturale. Ci ritroveremmo in un mondo di automi, di macchine, in un mondo morto e spento. In un mondo illuminato di risposte al punto tale da farsi incandescente come una lampadina troppo a lungo rimasta accesa, il cui destino è quello di fulminarsi. Il problema sta, per l’appunto, nell’assenza del problema. Ci sia permesso un ulteriore chiarimento – o meglio, per mantenere la coerenza, un ulteriore oscuramento… 

Il problema custodisce al suo interno un’essenza equivoca, che è possibile rinvenire fin dall’uso più abituale e immediato del termine, come quando diciamo, per esempio, che ogni problema nasconde anche un’opportunità. Superato questo livello, poi, ci si possono presentare ulteriori riflessioni.   Prendiamo in considerazione il terreno dell’etimologia, sul quale il problema già disvela la sua grande ricchezza, congiunta a un’ambiguità altrettanto grande: il greco προβάλλειν, da cui il nostro vocabolo deriva, vuol dire, sì, “porre davanti” (come ostacolo), ma significa pure “muovere in avanti”, “avanzare”, “proporre” e “produrre”[2]. Vogliamo muovere avanti, dunque, scavalcando la comoda interpretazione secondo la quale questo dato linguistico non ci direbbe altro se non che sì, in effetti è il problema a farci progredire e produrre il nuovo, anche se solo indirettamente, attraverso il suo superamento e lo spazio che questo apre. A dire il vero, tale spiegazione – che certo conserva una sua validità – non ci sembra del tutto soddisfacente: se, infatti, il valore del problema non gli è intrinseco, ma risiede nel suo venir meno, pare che questo valore sia decisamente fuori posto; non è dove dovrebbe essere. Preferiremmo di gran lunga che il senso di tale molteplicità etimologica ricada sul problema medesimo e non al suo esterno. Per cui siamo incalzati da un interrogativo: e se fosse il problema stesso questo “muovere in avanti”, questo “avanzare”? Se fosse il problema in sé quel processo, quel produrre e quel prodursi che, nella misura in cui comprende l’ostacolo, la fragilità, le sconnessure (raccolti nel “porre davanti” che pure vi dimora), solo di rado è lineare, né sempre chiaro, prevedibile quasi mai? Beh, in tal caso il problema assumerebbe un volto a noi familiare, il volto della nostra più vecchia conoscenza: la Vita. Questa tortuosa, interrotta, mobile, indeterminabile, che da sempre contrasta ogni tentativo di riduzione a generica e prevedibile astrattezza, da sempre tenacemente si aggrappa a forme di esistenza singolari e irripetibili; e dunque non chiamiamola “la Vita”, bensì “i Viventi”, viventi in ogni loro possibile forma, di uomo, d’animale o vegetale; e così pure chiamiamolo il “Vivente”, quel tutto vivente che è l’inanimato. L’intero essere, l’interezza della Welt, sarebbe dunque problema. Alla luce di questo essenziale che in esso e in tutte le cose dimora, ci è possibile ora considerare il problema da due prospettive affatto diverse: secondo una modalità abituale, obiettiva, naturalistica, il problema è qualcosa da risolvere al più presto, un imbarazzo da estirpare totalmente: questa visione è legittima e in molti casi, perfino auspicabile; ma accanto ad essa, un secondo modo, filosofico, fenomenologico e diciamo pure storico, di cui assolutamente non dobbiamo dimenticarci, ci dice che il problema è prima di tutto un chi. Il problema può ben essere un oggetto, un che di estraneo, l’appendice cancerosa e inessenziale di un soggetto. Ma può essere altro: può essere l’Altro e l’Io. Il qualcuno invece che un qualcosa. Abbiamo imparato molto bene che il mondo e noi stessi abbiamo problemi: quello che ancora dobbiamo imparare è che noi stessi siamo problemi, che tutto il reale è problema. Così siamo davanti a una biforcazione tra cosa e chi: cosa è il problema in quanto malattia, da estirpare, rimuovere, superare, guarire; ma chi è il problema in quanto malato, l’esistente soggettivo e individuale che non può e non deve esser violato nella sua essenza intimamente problematica: Egli è l’Inviolabile. La malattia più profonda è il divenire cosa, la cosificazione del chi, ridotto a oggetto fra oggetti, mutilato, non più problema. Il pericolo è la volontà di riportare tutto il problematico alla dimensione di problema abituale, di problema scientifico, di problema della cosa: si estirpa il malato e non la malattia. Il male è l’illusione di poter risolvere, o peggio, di aver già risolto l’essenziale esser-problema di enti ed eventi. 

A questo punto, augurandoci di aver colpito nel segno, e cioè che la storia si sia fatta ancor più aggrovigliata, la domanda da farsi è la seguente: sarebbe ancora possibile vivere da uomini in un mondo senza meraviglia e senza problemi? E che tipo di vita sarebbe quella verso la quale sembra che ci stiamo dirigendo? Una vita più comoda? Più desiderabile? Più umana? Non abbiamo usato a caso la parola “meraviglia”: è il termine che Platone e Aristotele impiegano per indicare quel sentimento originario da cui sorge la filosofia. Perché è di questo che dobbiamo parlare: di filosofia. E, precisamente, del senso della filosofia nel mondo di oggi. Chiedersi se oggi c’è ancora spazio per la meraviglia equivale, infatti, a chiedersi se c’è ancora spazio per la filosofia. A tal proposito, viene alla mente quell’indispensabile dispositivo della filosofia fenomenologica husserliana che è l’epochè trascendentale: tale strumento, da cui origina – e che sempre deve accompagnare – ogni disporsi autenticamente filosofico, non è altro se non l’approntamento del campo per l’effettivo “fare filosofia”; ebbene, questa epochè esige un congedo dal mondo. Significa un prendere congedo dal mondo[3]. Ma cosa avrebbe a che fare tutto ciò con il θαμα, con la meraviglia filosofica? Verrebbe da pensare, al contrario, che l’epochè ci chieda di dire addio al mondo, di disinteressarci delle cose; in realtà, è proprio il movimento dell’epochè a determinare le condizioni affinché possa sorgere il θαυμάζειν. Il suo movimento è in sé stesso scaturigine di meraviglia, poiché compie il paradosso mirabile, l’armonia nel contrasto[4] per cui allontanandoavvicina: ci congediamo dal modo abituale, statico, scientifico di vedere il mondo, proprio perché abbiamo verso il mondo un interesse supremo. Così, prendendo le distanze da ciò che lo riveste, ci approssimiamo a ciò che esso è davvero: ancor di più, sprofondiamo in esso, ci immergiamo nel mondo come in un caldo abbraccio con qualcuno che amiamo. Quel che ci preme è mostrare come la filosofia possa cambiare radicalmente, praticamente, il nostro rapporto con la realtà, come la filosofia possa traslocarci da un esistere nel modo della distanza, dove il preconcetto ci allontana e ci rende ostili verso il mondo, a un esserci come intimità, rispetto e amicizia verso il reale. Mostrare, insomma, come la filosofia sia a tutti gli effetti un riorientamento del pensiero, piuttosto che un insieme di pensieri, piuttosto che una dottrina, una teoria o peggio, un’ideologia. 

La ragione umana, lungi dell’essere una mera facoltà, è un sistema complesso di interconnessioni, un’unità piena di distinzioni; questo sistema ci appartiene in quanto uomini. Ciò che può cambiare è l’uso che facciamo di questa complessa struttura, il modo in cui possiamo intenderne il senso, la direzione e l’applicazione. Non possiamo che sviluppare questo discorso sul suo terreno ideale, che d’altra parte ci è molto caro: la storia. È, infatti, proprio guardando alla storia dell’umanità che possiamo osservare la modalità prevalente e quasi esclusiva con cui abbiamo utilizzato la nostra ragione nel corso dei millenni: essa è in fondo la forma di funzionamento naturale del pensiero. Siamo sempre portati a pensare che esista, o sia esistito, un ordine immutabile della realtà, un ordine assoluto, sussistente, dato una volta per tutte; cosicché il nostro fine in quanto uomini sarebbe quello di conformarci a quest’ordine stabilito dall’esterno. Nella migliore delle ipotesi, questo assetto ideale sarebbe collocato nel passato o, più specificamente, in un lontano passato, in una “età dell’oro” dove l’armonia assoluta tra le cose, la giustizia e il bene regnavano sovrani; inevitabilmente, questo stato perfetto è andato perduto, per cui tutti dovremmo lavorare alla sua restaurazione. Nella peggiore, invece, quest’ordine ideale sarebbe già dato nel presente e coinciderebbe esattamente con lo status quo, il determinato, attuale e “naturale” stato di cose, immutabile e definitivo, a cui il nostro pensiero sarebbe tenuto a conformarsi. Queste due modalità del pensiero sono quelle che storicamente hanno dominato la vita degli uomini per millenni, definendo la visione tradizionale dell’esistenza[5]. Ma non si pensi che esse appartengano solo a un lontano e antiquato passato: a tutt’oggi, la naturale tendenza della nostra mente ci spinge verso l’una o l’altra di queste direzioni, riattualizzandone le forme con la forza del senso comune e del pregiudizio scientifico. Eppure, a un certo punto della storia, un evento dalla portata incommensurabile è sopraggiunto a dare una scossa al naturale conformismo della ragione, a iniziare contro questo una lotta senza quartiere: la nascita del pensiero filosofico. 

Nel Simposio di Platone è espressa in una maniera difficilmente eguagliabile l’essenza autentica della filosofia. In quel testo straordinario si parla di amore, di ardente desiderio. Per la prima volta, in forma compiuta, vi si trova pronunciato l’enorme mutamento di prospettiva che la filosofia comporta: il pensiero non è più inteso come conformità ad un ordine stabilito, bensì come ricerca, desiderio, amore e ancora una volta, problema. Il presunto ordine non è altro che tradizione, abitudine, stratificazione di credenze umane, troppo umane, costituitesi nel passato e scambiate per assolute. La filosofia interviene a spezzare questa catena, liberando la vita umana per il presente e per il futuro. Perché se quest’ordine è stato costruito nella storia, allora può anche essere superato. Questa nuova forza del pensiero, questa «nuova vita finale»[6] che sorge dalla storia, immette un rinnovato sforzo etico nell’esistenza umana; uno sforzo etico motivato dal dovere morale di pensare, adesso, veramente per vivere: di dover pensare per trasformare la realtà, per determinare la propria vita, per costruire un ordine concreto, che non c’è ancora, ma che potrebbe sorgere, in futuro, dentro la storia. Un ordine che, in quanto storico, non può mai essere definitivo, mai dogmatico, mai intollerante e violento, ma infinitamente perfettibile, infinitamente plasmabile e migliorabile. Un ordine sempre incerto, sempre precario, sempre incompleto, relativo e problematico. E per questo veramente umano. Non si può, del resto, desiderare ciò che già si possiede. La filosofia trasforma il pensiero in cassa di risonanza del desiderio, del bisogno, dell’amore per qualcosa che non possediamo, che mai avremo definitivamente, se vogliamo che questo amore continui ad ardere. Questa consapevolezza è l’unica che possa tenere desti la meraviglia e l’incanto delle cose, il cui mistero problematico non è mai risolto una volta per tutte. La nostra εντελέχεια e la nostra Zweckmäßigkeit si realizzano se accettiamo il compito, intellettuale, etico ed estetico, di proteggere questa meraviglia e questo incanto. Ne abbiamo la suprema responsabilità.

 Lo sforzo etico a cui la filosofia ci indirizza è nel presente ed è per il futuro. Il passato ci guida nella misura in cui è vivificato nel presente, nella misura in cui non determina la nostra vita, le nostre credenze, il nostro agire. Non siamo più schiavi della tradizione: essa è al nostro servizio. Per questo la filosofia è, sopra ogni cosa, attività pratica. Perché essa può davvero cambiare la nostra vita; perché essa cambia la vita del pensiero, lo rende vivo, trasformativo, pratico, etico, storico, lo mette in movimento: insomma, lo fa divenire desiderio. Lo fa divenire Problema. E, soprattutto, lo fa divenire Amore. 

 


[1] Ci riferiamo alla Metafisica della luce del vescovo e teologo inglese Roberto Grossatesta (1175-1253), da alcuni considerato un vero e proprio precursore della Rivoluzione scientifica.

[2] Le definizioni sono tratte dal Vocabolario della lingua greca, a cura di F. Montanari, Torino, Loescher, 2004.

[3] Si veda su questo tema la trattazione di E. Fink in Introduzione alla filosofia, Edizioni ETS, Pisa, 2011 (trad. it. a cura di A. Lossi).

[4] La suggestione è chiaramente eraclitea. Volendo parafrasare l’oscuro Efesino, l’epochè, come il dio, «σκίδνησι κα πάλιν συνάγει, κα πρόσεισι κα πεισι» [22B91 DK], «disperde e di nuovo raccoglie, e si avvicina e si allontana» (Colli, 14 [A 45] b, in G. Colli, La sapienza greca III. Eraclito, Milano, Adelphi, 1980, p. 57).

 

[5] Un esempio ben localizzato di queste naturali tendenze è quello del Vicino Oriente Antico, dove per millenni si usò presentare le riforme dei sovrani come restaurazioni di un ordine immutabile ed eterno. Per maggiori informazioni si veda il testo fondamentale di M. LiveraniAntico Oriente. Storia, società, economia, Laterza, Roma-Bari, 2011.

[6] E. HusserlLa Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. di E. Filippini, Milano, Il Saggiatore, 2015, p. 489.  

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