Lo sguardo sull’abisso. Moby Dick, una rotta di lettura

 di Nicoletta Celeste

         

Es nehmet aber 

Und giebt Gedächtniß die See[1]

 

Nella prefazione alla seconda edizione italiana del 1941, Cesare Pavese scrive chiaramente che Moby Dick è un vero e proprio poema sacro nel quale, dietro l’allegorico racconto della caccia alla balena, si nasconde la ricerca filosofica della realtà noumenica e l’esigenza tutta umana di entrare in contatto con l’Inconoscibile, con l’Assoluto. Moby Dick, come del resto tutti i grandi capolavori, è realmente un compendio narrativo indefinibile: le sue lunghe pagine risultano stratificate in una pluralità di stili di scrittura che vanno dall’asciutta incisività del diario di bordo, all’intensa emotività del racconto autobiografico, fino alle didascaliche dissertazioni fornite sul mondo cetaceologico. È dunque innegabile l’estro multicolore del suo autore, Herman Melville, che è riuscito a far sì che in ogni capitolo e in ogni frase del libro appaia: «quell’aria inevitabile e fatale che è come un suggello di classicità»[2]. Nasce proprio da qui la difficoltà a comprendere e definire questo classico della letteratura mondiale, infinito e abissale come i mari che attraversa

Di seguito, si cercherà di scandagliarne proprio questa abissalità, seguendo una rotta di lettura filosofico-antropologica del testo. 

 

1. Pensiero e oceano: la memoria del mare

 

È Esiodo nella Teogonia a raccontare come Gea, divinità primordiale, congiuntasi a Urano partorì il titano Oceano che Omero, nel XIV canto dell’Iliade, definisce «l’origine degli dèi (θεν γνεσις[3] e «l’inizio di tutte le cose (γνεσις πντεσσι[4]. Oceano era infatti dotato di un’inesauribile potenza generatrice. Dalla sua unione con la sorella Teti nasceranno sia un centinaio di divinità fluviali che una lunghissima discendenza di figlie, le Oceanine, personificazioni sacre delle correnti marine. Anche per il filosofo Talete l’acqua, l’elemento umido, costituisce il fondamento di tutte le cose esistenti, l’origine della vita, del suo divenire e del suo mistero. L’acqua è la linfa vitale della vita umana e di tutti i suoi bisogni. Ed è proprio l’acqua, con la sua trasparente luminescenza e l’oscurità dei suoi abissi ad attraversare e inondare le innumerevoli pagine di Moby Dick. 

Il lungo racconto di Ismaele è un’esperienza narrativa sacra e profana, una lunga traversata intellettuale, insieme allegorica e filosofica. Una caleidoscopica fusione di sapienza biblica, psicologia, storia naturale accompagnano il lettore attraverso il racconto del viaggio del Pequod. Un denso monologo, quello di Ismaele, che comincia proprio dalla constatazione metafisica della reciprocità sostanziale tra l’acqua e la vita, tra l’uomo e la sua eterna sete di verità:

 

Perché gli antichi persiani consideravano sacro il mare? Perché i greci gli dedicarono un dio speciale, e per di più fratello di Giove? Certo tutte queste cose non sono senza significato. E ancora più profondo è il significato della storia di Narciso, che, non riuscendo ad afferrare l’immagine tormentosa e soave che vedeva nella fonte, in essa s’immerse ed annegò. Ma quell’immagine la vediamo anche noi, in tutti i fiumi, in tutti gli oceani. È l’immagine del fantasma inafferrabile della vita; e qui sta la chiave di tutto.[5]

 

Moby Dick parla anche dell’umano furore esistenziale e della sua eterna sconfitta con le forze della natura, del tempo, della morte. E tuttavia, nella sua foga retorica, Ismaele sembra davvero celebrare l’audacia del pensiero umano, il tentativo eroico di ricercare la Verità e ritrovarsi di fronte soltanto l’Abisso. Le asperità del mare aperto, i rischi e le fatiche continue permettono all’uomo di essere un tenace ramponiere che, in modo rapido e acuto, scaglia la sua arma sul pericolo che incombe, riuscendo solo raramente a penetrare fino in fondo, con la punta del suo intelletto, il cuore della realtà che lo circonda. 

È anche per questo che il Pequod è una nave composta da marinai che, come vere e proprie isole umane, dimorano all’interno dei suoi limiti e che si presentano, a loro volta, come personaggi assolutamente limitati nei pensieri e nelle parole. Balenieri che, nonostante la lucida consapevolezza della loro finitudine e solitudine esistenziale, si mostrano allo stesso tempo subito capaci di sopravvivere insieme, come fedeli confederati a bordo di una stessa chiglia:

 

Sul «Pequod», erano quasi tutti isolani, e per di più isolati […] dato che non riconoscevano il comune continente degli uomini, e ciascun isolato viveva su di un separato continente tutto suo. Eppure, confederati ormai su di una sola chiglia, che gruppo che formavano questi isolati![6]

 

Un equipaggio che condivide la ricerca ossessiva del capodoglio bianco, un’avventura spesso più mentale che reale, al di là dei loro limiti e delle loro esperienze. Sembra davvero possibile credere che tale leviatano noumenico rappresenti per questi uomini la Vita e la Morte. La Vita proprio in quanto oggetto di passione, di desiderio e di disincantata meraviglia. Moby Dick è ciò che li fa muovere e li fa partire, ciò che li costringe a lasciare i loro “porti sicuri” per affrontare gli oceani, in balìa delle tempeste. Moby Dick è il vero scopo del loro viaggiare, è la mèta agognata della loro caccia filosofica, è la pura forza della Natura. Moby Dick è il Destino che mobilita l’esistenza.

E, allo stesso tempo, Moby Dick è anche la Morte, come ciò che getta una lunga scia oscura sulle loro rotte esistenziali. Moby Dick è oggetto di vendetta, ossessione, crudele malvagità. Moby Dick è la Paura stessa. La paura sì di morire e di soccombere all’interno di quell’oscuro abisso che non si è riusciti fino in fondo a penetrare e a comprendere, ma che – almeno per il giovane Ismaele – si è riusciti a raccontare. Moby Dick è la memoria del Mare e della Morte, il racconto della loro infinita potenza e della loro inquietante spettralità.

Il bianco spettrale è, infatti, la caratteristica più evidente della balena, raccontata e descritta minuziosamente in un capitolo a parte, il quarantaduesimo. Per Ismaele, il bianco rappresenta la sfumatura acromatica del Nulla e della Morte, l’ateismo dei colori, la loro visibile assenza. Ed è proprio questa sua qualità elusiva a richiamare alla nostra sensibilità il senso del funereo, del lugubre, del cadaverico:

 

O forse perché nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore quanto l’assenza visibile di ogni colore, e insieme l’ammassarsi di tutti i colori: è per queste ragioni che c’è un tale senso del nulla, muto e pieno di significato, in un vasto paesaggio di nevi, un ateismo incolore e omnicolore che ci dà raccapriccio?[7]

 

Per evitare il naufragio in questa spettrale realtà noumenica, occorre non perdere mai di vista la rotta della propria realtà fenomenica. È quello che Ismaele raccomanda in uno dei capitoli più suggestivi dell’intero romanzo, intitolato La raffineria, quando incaricato di guidare la nave, cade in un leggero sonno. 

La sua mente viene così confusa da una serie di oscure visioni al punto da perdere il controllo completo della barra di navigazione. Così, la mente di Ismaele e la nave, prive di una direzione certa e sicura vengono sballottate qua e là nell’oceano dell’informe, dell’inconscio, del noumenico. Ma ecco che, poco prima che tutto venga gettato e capovolto nel turbinìo dei venti, Ismaele si desta e, con un brusco monito dal sapore profetico e filosofico, richiama se stesso e il lettore: 

 

Non guardare troppo a lungo dentro il fuoco, uomo! Non sognare, con la mano sulla barra! Non voltare le spalle alla bussola; accetta il primo monito del timone che sussulta; non prestar fede all’artificio del fuoco, quando la sua vampa fa apparire spettrale ogni cosa. Domani, alla luce naturale del sole, risplenderanno i cieli; a coloro che sfolgoravano come demoni tra il biforcarsi delle fiamme, darà contorni diversi il mattino; il sole glorioso, dorato, gaio, unica lampada verace: ogni altra è menzogna![8]

 

E nella pagina successiva, riprendendo l’insegnamento biblico del saggio re Salomone, Ismaele esorta a non allontanarsi mai dalla via della sapienza nonostante l’abissalità del proprio dolore: «Non abbandonarti dunque al fuoco, o ti invertirà, ti stordirà; come fece allora con me. C’è una saggezza che è dolore; ma c’è un dolore che è follia»[9].

Il dolore, infatti, può costituire allo stesso tempo la via per il raggiungimento della verità e della saggezza, ma anche la causa della follia e dell’irrazionalità. Il dolore è come il fuoco che divampa nella raffineria dell’anima umana. È ciò che purifica, trasforma, riscalda e illumina. Ma, al contempo, è pura energia che brucia, distrugge e forgia tutto ciò che tocca. Così, l’uomo per Melville è l’uomo dei dolori di Isaia che «ben conosce il patire»[10] e la sua finitudine esistenziale. Un uomo che, dopo i suoi strazianti tormenti, «vedrà la luce»[11]. Proprio questa è, per Melville, la memoria del mare. La memoria del dolore.

 

2. L’utopia del dominio

 

Siediti da sultano fra le lune di Saturno e considera, con alta astrazione, l’uomo da solo: ti sembrerà una cosa mirabile, grandiosa, dolente. Considera ora, dallo stesso punto, l’umanità in massa e ti sembrerà quasi sempre un’accozzaglia di inutili duplicati, sia contemporanei che ereditari.[12]

 

È con queste parole pungenti che Ismaele descrive l’umanità verso la fine del romanzo. Un evidente senso di sfiducia per i suoi consimili che, probabilmente, nasce in lui dalla consapevolezza che l’uomo sia davvero il peggiore tra gli esseri viventi. L’uomo di Melville è solo un «animale che produce denaro»[13], una tendenza predominante nella sua esistenza, che molto spesso macchia l’apparente genuinità dei suoi buoni sentimenti. Un uomo che, in alcune circostanze di sopravvivenza, manifesta un’aggressiva ferocia e un tale atteggiamento sadico impossibile da riscontrare nelle altre specie carnivore. 

Moby Dick è infatti anche il resoconto narrativo-letterario della folle caccia ai viventi marini che ha caratterizzato buona parte della storia occidentale del XIX secolo. Melville, sulla scorta del celebre naufragio della baleniera Essex, avvenuto nel 1820, racconta in Moby Dick l’ingenua utopia umana di realizzare un dominio esclusivo sulle forze della natura e sugli altri esseri viventi. Una pretesa antropocentrica di totale supremazia che viene capovolta proprio nelle pagine finali del libro. 

È Starbuck, il primo ufficiale del Pequod, a cercare di svegliare il capitano Achab dalla sua follia omicida, mostrandogli apertamente la profonda ridicolaggine della sua esasperazione: «Oh, Achab  gridò Starbuck; – non è troppo tardi nemmeno ora, al terzo giorno, per rinunciare. Guarda! Moby Dick non ti cerca. Sei tutu, che da pazzo vai in cerca di lui!»[14]

Achab è infatti riuscito a trasformare la balena bianca nella personificazione dei suoi tormenti, nell’oggetto della sua ferocia omicida, nell’incarnazione «monomaniaca» del suo delirio antropocentrico. Moby Dick, dal canto suo, non ha mai cercato Achab: lui è il simbolo dell’animalità libera e sovrana. L’animalità sacra che vive e rispetta la solitudine dei suoi ambienti geofisici. Tutto il contrario degli esseri umani che, come già gli antichi greci intuivano, spesso tendono alla βρις (hýbris)a oltrepassare il senso della misura e del limite, il senso del loro essere רָפָע (afàr)parola biblica che indica la polvere insignificante che ci costituisce come viventi corporei. 

La chiosa lapidaria del racconto illustra infatti tragicamente il fallimento della dismisura antropocentrica. Cacciatore e preda sono accomunati dallo stesso destino: entrambi naufragano all’interno di quel «vortice rapido e improvviso della morte»[15]. Così, nella sua disperata follia, l’anima di Achab rimane vittima del suo stesso narcisismo, divorata dall’incapacità di accettare il suo posto all’interno dell’infinita varietà del mondo. Un mondo che, prima dell’uomo e del suo tempo, apparteneva alla luce, al vento, alle rocce e alle balene che, come vere regine delle acque, nuotavano indisturbate prima ancora che gli stessi continenti si separassero. E se mai, come scrive profeticamente Melville, questo nostro mondo civilizzato davvero scomparisse, allora davvero resteranno le rocce, resteranno il vento e la luce. Resterà l’acqua e la balena che «ergendosi all’Equatore sulla cresta più eccelsa […] sfiaterà la sua sfida schiumante verso i cieli»[16].

È possibile affermare, in ultima analisi, che Moby Dick insegni davvero ai lettori di tutte le età ad «aleggiare sulle acque»[17], la stessa azione compiuta dallo spirito di Dio agli inizi della creazione del mondo. Un «aleggiare» che ha il significato di «volare sopra» ciò che è informe, di soffermare lo sguardo nel Nulla, desolato e vuoto. Guardare cioè l’abisso nella sua tenebrosa impenetrabilità, nel tentativo di comprenderlo e di farne luce. Proprio come fa il sole, nel tentativo di illuminare e riscaldare gli oceani e la loro oscurità. 

Solo tenendo a mente questo, l’uomo potrà davvero comprendere la sua vita come un «passare ad altre rive»[18], una fugace «traversata e non un viaggio di andata e ritorno»[19].



[1] F. Hölderlin, Ricordo (Andenken), in Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1977, vv. 56-57, p. 563. «Il mare dona e toglie il ricordo».

[2] C. Pavese, in H. Melville, Moby Dick o la Balena (Moby Dick or the Whale), trad. di C. Pavese, Adelphi, Milano 1987, p. 5.

[3] Omero, Iliade, XIV, v. 201.

[4] Ivi, v. 246.

[5] H. Melville, Moby Dick, trad. di Pina Sergi, Rizzoli, Milano 2004, p. 26.

[6] Ivi, p. 165.

[7] Ivi, p. 254.

[8] Ivi, p. 519.

[9] Ivi, p. 520.

[10] Is 53,3.

[11] Is 53,11.

[13] Ivi, p. 507.

[14] Ivi, p. 680. Il corsivo è mio.

[15] Ivi, p. 356.

[16] Ivi, p. 563. 

[17] Cfr. Gn 1,1.

[18] Cfr. Mc 4,35, l’episodio della “tempesta sedata”.

[19] H. Melville, Moby Dick, cit., p. 70.

Lascia un commento