Considerazioni nell’epoca dell’IA: la tecnologia in quanto testimonianza dell’umano

di Mattia Spanò

“Sapere” questo che è così un sapere etico: sapere che è appunto sapere quello che si fa: collocarsi ogni volta in un inizio e perciò in una destinazione, cioè in un orizzonte figurato di mondo, secondo la necessità “assegnata” delle nostre figure. Il che significa: non in base al nostro arbitrio, ma in base a quelle condizioni che ci destinano e che ci assegnano alle nostre transitanti pratiche di vita e di sapere[1].

Carlo Sini

1. Consapevolezza tecnologica: profondità e superficie

Accade, non di rado, che il corpo collettivo si approcci agli oggetti del proprio ed attuale mondo-ambiente – beninteso, non per tutti uguale – dal punto di vista del prodotto finito. Così – e ci si permette un riferimento al proprio vissuto per rendere il concetto in abiti usuali – di fronte ad un documentario dedicato alla straordinaria figura di Leonardo da Vinci, può capitare che più d’uno degli spettatori osservi qualcosa come: «Non ci sono più i geni di un tempo, si è perso il senso del progetto, la meraviglia della complessità». Tenendo fermo l’immenso salto temporale e culturale che ci separa dall’epoca rinascimentale – non è di certo questa la sede per approfondire opportunamente la questione – tracima, da queste parole, un evidente e fondamentale gioco prospettico. Una centratura visiva dalla quale esonda ciò che potrebbe sembrare, a primo impatto, una (apparentemente) innocua e nostalgica riflessione sugli stranianti tempi attuali in contrapposizione ad epoche, ormai passate, cariche di senso: una “semplice” osservazione tecnico-antropologica che suona come la rassegnata constatazione che l’odierna umanità, ormai povera di geni, sia globalmente incapace di concepire – ancor prima che realizzare – alcunché di meravigliosamente complesso. Se, però, si accoglie la riflessione non solo dal, seppur fondamentale, punto di vista per così dire “interiore” – il soggetto che osserva un oggetto osservato – ma ci si sofferma anche sulla dimensione retroflettente ed estroflettente che ogni spunto espressivo restituisce, emerge dell’altro.

Innanzitutto occorre osservare che ogni considerazione sul mondo che l’uomo abbozza accade all’interno del mondo stesso – l’esistente puro e semplice, avrebbe detto Spinoza[2] – che si intende interpretare. In seconda battuta, se lo spirito dell’osservazione in questione risuona oggi – in modi, tempi e contesti diversi – con una significativa ricorsività, affiora l’occasione di accostarsi alle principali modalità con le quali il corpo collettivo si approccia a quanto la riflessione in questione muove.

Torniamo, allora, sull’osservazione, rammentandola: «Non ci sono più i geni di un tempo, si è perso il senso del progetto, la meraviglia della complessità». Anche solo a guardarsi intorno, senza addentrarsi nei più reconditi meccanismi di funzionamento degli scenari e degli oggetti che ci circondano, non si può che notare qualcosa di affine all’osservazione e qualcos’altro che la eccede. Di convergente c’è un fatto di fondamentale importanza: la complessità, almeno da quando la rivoluzione digitale si è radicata nel mondo umano al punto tale da modellarne ampie regioni dell’esistenza, ha subito una riconfigurazione globale. Si può dire, a grandi linee, che abbia lasciato il passo alla superficialità, senza per questo però scomparire. Siamo nel cuore del digitale, direbbe Alessandro Baricco, che a proposito degli strumenti maggiormente utilizzati nell’epoca (da lui stesso definita) del game, così si esprime: 

Tutte punte dell’iceberg: dietro, sotto, dentro – non so – c’era un sacco di complessità, ma l’essenza delle cose galleggiava in superficie, la trovavi al primo sguardo, la capivi in un attimo, la utilizzavi immediatamente (senza mediazioni, senza sacerdoti). L’iPhone è fatto così, Google è fatto così, Amazon è fatto così, Facebook è fatto così, YouTube è fatto così, Spotify è fatto così, WhatsApp è fatto così: schierano una semplicità dove l’immensa complessità del reale risale in superficie lasciando dietro di sé qualsiasi scoria che ne appesantisca il cuore essenziale[3].

Ecco che il taglio prospettico che fonda l’osservazione sulla complessità, inizia ad assumere una postura differente. Ecco l’altro che la eccede, che si raccoglie, pur non esaurendosi, nell’interrogativo: siamo gettati in un’epoca incapace di meravigliosa complessità o quest’ultima è andata, gradualmente e mai definitivamente, a ricollocarsi nel teatro complessivo del mondo?

Interrogativo che, in buona – quando non larga – misura, discende anche dall’ipertrofia espositiva dell’uomo alle nuove, e sempre in più rapida evoluzione, tecnologie; e al conseguente senso d’abitudine che le stesse recano in sé. Stato di cose che favorisce l’innescarsi di ciò che il neurologo Davide Borghetti definisce cecità tecnologica:

[…] l’IA rappresenta già oggi una realtà talmente ben radicata nel tessuto della nostra vita da passare pressoché inosservata. In forme semplificate o con funzioni limitate rispetto a come siamo abituati a immaginarla, opera a nostra insaputa con modalità spesso poco comprensibili e un po’ lontane dal nostro concetto di intelligenza, svolgendo silenziosamente tutta una serie di attività che già adesso ci semplificano, prolungano o rendono più piacevole l’esistenza[4].

In questa cornice, allora, occorre che l’uomo si approssimi al fondo della carsica complessità che fonda l’epoca dell’intelligenza artificiale. Per poi, dalla e nella stessa, risalire in superficie, solcandone i tratti con una – sempre e ancora – rinnovata consapevolezza. Si tratta di un’esigenza complessiva, dettata dall’odierna necessità di espandere i propri confini conoscitivi e prassici nella duplice ma unitaria direzione di un sistema di realtà «a doppia forza motrice, dove la distinzione tra mondo vero e mondo virtuale decade a confine secondario, dato che l’uno e l’altro si fondono in un unico movimento che genera, nel suo complesso, la realtà»[5].

Abitare l’intelaiatura dell’attuale contesto globale in cui – come in ogni epoca – l’uomo elabora la propria gettatezza si rivela, allora, di fondamentale importanza. Occorre, in altri termini, porre e attraversare gli interrogativi di fondo sulla cui trama si sviluppano e avvicendano i più recenti, complessi e delicati, dibattiti internazionali incentrati sul tentativo di individuare direzioni esistenziali ed esistentive in un’epoca caratterizzata da un respiro precipuamente digitale, anche se ancora profondamente analogico; e i cui scenari – anche quotidiani – sono modellati da un diffuso impiego di strumenti dotati di intelligenza artificiale.

2. Variazioni sul tema del rapporto tra uomo e tecnica

Gettati in questa soglia occorre, intanto, chiedersi: come si è arrivati fin qui? Si tratta del culmine di un processo che, ex novo, sta rimodellando l’uomo senza la possibilità che quest’ultimo, imbrigliato nelle sue redini, se ne avveda o ne possa mutare l’ordinario corso?

Di un ambiente – come si è detto – a doppia forza motrice che, implacabilmente, ha condotto l’uomo in una rinnovata geografia globale composta da luoghi-non luoghi che pre-definiscono ogni architettura di pensiero e azione? E, soprattutto, è questo nuovo sistema di realtà ad avere causato una metamorfosi dell’umano che, ad oggi, sembra irreversibile o spinte, slanci ed esigenze umane hanno contribuito alla strutturazione dello stesso?

Arduo – se non vano – è il tentativo di attraversare gli interrogativi in questione con la pretesa di pervenire ad una risposta univoca; di gran lunga più proficuo si rivela, invece, il procedere di una ricerca che si snodi sul manto del mai-del-tutto-definibile intreccio di pratiche che fonda l’incedere umano nel mondo. Spunti chiamano spunti, accenni rimandano ad accorate accelerate che, nel teatro del mondo, si intrecciano in una complessa struttura comunicativa; è poi la volta di burrascose frenate ed imprevisti cambi di rotta, deludenti abbagli e promettenti isole di senso scovate d’improvviso e gravide di nuove terre concettuali e prassiche; forse, si intende. Perché poi riparte l’impresa della ricerca, ancora e sempre, ininterrotta ed asintotica: slanci si danno nei limiti, limiti si danno negli slanci.

In questa dinamica si può scorgere un primo ed ultimo schizzo paradigmatico – senza, chiaramente, voler esaurire una questione che soverchia ogni tentativo umano di comprenderla in forma definitiva. Uno schema che, archetipicamente, fonda lo stare al mondo dell’uomo nell’inestricabile relazione con i suoi strumenti. Una trama che si annoda, snoda e riavvolge – e, a volte, sconvolge – ogniqualvolta si perviene al mettersi in opera della tecnica: slanci si danno nei limiti, limiti si danno negli slanci in una corsa millenaria, originaria e prospettica, della quale gli ultimi sviluppi tecnologici non ne sono che la più recente – seppur anche la più di-rompente – configurazione.

In caso contrario, si dovrebbe scovare un punto di rottura che, da un certo punto in poi della storia dell’umanità, ne abbia cambiato ex nihilo il corso. Eppure l’uomo si rapporta alle macchine ed agli automi da tempo immemore[6]. E ripercorrerne le tappe significa dover necessariamente passare in rassegna un processo che ben prima della famosa domanda posta da Alan Turing – «possono pensare le macchine?»[7] – suppone i più disparati e stratificati momenti esplorativi. Senza tutto ciò, bisognerebbe chiedersi se e in che misura sarebbe stato possibile arrivare a Turing e a tutto ciò che ne consegue.

Sicché è difficile pensare che tanto l’approdo all’impiego – e alla diffusione – di un determinato strumento, quanto la rimodulazione complessiva che l’utilizzo dello stesso reca nei confronti dell’umano, possano accadere senza una preventiva disponibilità. E di quest’ultima cos’altro si può dire se non che si tratti di quel potere (in ultima analisi) invisibile[8] che siamo soliti chiamare tradizione? E che – ancora – lungi dal configurarsi monoliticamente come un che di già dato univocamente e definitivamente, concorriamo a costruire ininterrottamente dal suo stesso interno? Problema complesso ma di fondamentale importanza, che chiama in causa la percezione stessa che l’uomo ha di sé e del mondo, al variare dei suoi strumenti di mediazione:

Nel giro di lunghi periodi storici, insieme con le forme complessive di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale. Il modo e il genere secondo cui si organizza la percezione sensoriale umana – il medium in cui essa ha luogo – è condizionato non soltanto in senso naturale, bensì anche in senso storico[9].

Nell’attraversamento della riflessione di Benjamin, allora, occorre riconsiderare l’attuale congiuntura storico-culturale. E ritornare all’interrogativo: come si è arrivati fin qui? Emerge, ancora una volta, la necessità di addentrarsi in uno scavo archeologico delle pratiche del presente che le ricollochi nella geografia del complessivo intreccio di pratiche che fondano lo stare al mondo tecnico dell’uomo. Risulta, dunque, di fondamentale importanza sostare su quanto Alessandro Baricco osserva affacciandosi sulle regioni di transizione dell’intelligenza artificiale:

Qualsiasi cosa nascerà dall’intelligenza artificiale, gli umani hanno iniziato a costruirla anni fa, quando hanno accettato il patto con le macchine, scelto la postura zero, digitalizzato il mondo per poterlo fare elaborare da immense potenze di calcolo, prediletto i tool alle teorie, lasciato agli ingegneri il timone della loro liberazione, salpato per i mari dell’oltremondo, accolto la promessa di un’umanità aumentata, ripudiato le élite che gli avevano insegnato a morire, accettato il rischio del campo aperto, scelto la pace, e dimenticato l’infinito[10].

Patto con le macchine, postura zero – resa da Baricco nella figura uomo-tastiera-schermo – digitalizzazione del mondo e calcolo; e – ancora – i tool, gli strumenti, e gli ambienti aperti di un luogo-non luogo virtuale che costituisce, con l’universo fisico, l’impianto a due forze motrici del più recente sistema di realtà. La preventiva disponibilità che ha portato fin qui l’umano affonda le radici in tempi lontani: è, appunto, in costruzione già da tempo.

Ma ciò non significa che ogni passo evolutivo sia da salutare con favore[11]. Il punto risiede altrove: ogni nuova possibilità reca in sé rinnovate prospettive e problemi in costante aggiornamento. Per farsi carico dei quali, occorre tentare di abitare la complessità di un ampio e intricato tragitto o – se si preferisce – di un intreccio di pratiche, al cui culmine cronologico troviamo una società modellata, in larga misura, dall’impiego di strumenti digitali e dotati di intelligenza artificiale.

3. Sorvolare gli abissi, risalire in superficie

Basta (continuare a) guardarsi intorno: dall’intelligenza artificiale l’uomo odierno è – consapevolmente o meno – circondato; sia sul piano dello svolgimento delle (più o meno) abituali faccende quotidiane, sia sul fronte della bolla informazionale che, negli ultimi anni, si è creata sulla stessa. In rapidissima evoluzione – come d’altronde lo sono gli studi in questione –, quest’ultima ha raggiunto un picco ipertrofico che rasenta le regioni dell’inflazione. E, probabilmente, il principiale passo etico nei confronti di qualsivoglia questione si abbia intenzione di affrontare, risiede nell’espansione – ancora e sempre in cammino – degli orizzonti conoscitivi della stessa.

L’argomento è di difficile presa, le implicazioni teoretiche e prassiche innumerevoli e, spesso, dilemmatiche. L’attuale impianto comunicativo-informazionale – sia dal punto di vista di chi le informazioni le batte e diffonde, sia sotto il rispetto di chi la consuma – tendenzialmente sintetico, veloce e divisivo.

Ancora Alessandro Baricco, parla a tal proposito di verità-veloce, ossia di «una verità che per salire alla superficie del mondo – cioè per diventare comprensibile ai più e per essere rilevata dall’attenzione della gente – si ridisegna in modo aerodinamico perdendo per strada esattezza e precisione e guadagnando però in sintesi e velocità»[12]. Ancora una volta: tutto ciò non sarebbe possibile in un mondo diverso dall’attuale; privo, cioè di quegli strumenti – affatto neutri – che ne costituiscono buona parte dell’assetto percettivo-mediatico. E, si potrebbe aggiungere, l’esigenza complessiva che ha condotto alla strutturazione degli stessi ha radici lontane e intrecciate.

Sintesi, rapidità e divisità. Quest’ultima – aggiunge Baricco – ricopre, oggi, un ruolo di significativa centralità perché «i duelli attirano sempre l’attenzione, semplificano le cose e sono veloci da capire. Ciò che può essere riassunto in duello avrà vita facile nella quotidiana lotta per la vita»[13]

Ritornando, a mo’ di Kehre, all’osservazione da cui ha preso le mosse il presente (e modesto) itinerario – «Non ci sono più i geni di un tempo, si è perso il senso del progetto, la meraviglia della complessità» – è, in effetti, la divisività a reggere la trama di un commento (più che legittimo e dotato di una certa ragionevolezza) sull’attuale stato di cose, che sorge e si snoda in un teatro d’incontro-scontro con un mondo distante secoli, ma percepito – profondamente sentito, occorre dire – come proprio. Ed accolto, elaborato e riproposto come tale, probabilmente perché ancora intriso di un’umanità caratterizzata intimamente da quel fare tecnico-analogico che ne tutela l’autenticità; e che, ancora, si erge ad ultima frontiera di riconoscibilità dell’umano a sé stesso, sulla scorta della sensazione che l’agire individuale e collettivo stia gradualmente disperdendosi in meccanismi di fuori uscita dal sé, resi sommamente manifesti dal sempre più diffuso impiego di strumenti tecnologico-digitali e dalla frequentazione di ambienti virtuali che intervengono radicitus sul concetto-prassico di corporeità.  Il vecchio mondo, contro il nuovo. Dinamica di confronto che, puntualmente e quasi del tutto ineludibilmente, si ripresenta anche (e soprattutto) quando si tratta di affrontare la tematica intelligenza artificiale.

Nuove possibilità, nuovi problemi: il dispositivo si ripresenta, con la co-emergente necessità di risalire in superficie dopo un’ineludibile immersione in ciò che non si dà a vedere nel – tendenzialmente e a tratti irrinunciabile – corrivo incedere dell’uomo nel mondo. Si tratta, in altri termini, del tentativo di accostarsi alla complessità che, nel costante evolversi dell’apparato tecnico-tecnologico umano, ne costituisce il fondo più o meno manifesto: «Reimmaginare tutto senza per forza azzerare il mondo, evitare la tabula rasa della distopia escapista o di una comoda apocalisse, tornando sempre alla base»[14].

A ben vedere, nonostante le più recenti fratture prospettico-mediali abbiano causato uno smottamento (che non è difficile considerare) senza precedenti, da sempre l’uomo è gettato in un ambiente mediato e si rapporta a media capaci di creare nuovi ambienti. Occorre, allora, farsi carico della questione nel fondativo intreccio di pratiche che costituisce lo stare al mondo di quel frammento dell’intero che si definisce homo sapiens.

4. Ambienti mediati e media ambientali: la tecnologia in quanto testimonianza dell’umano

Spaesato, l’uomo postmoderno si aggira nel perturbante ambiente da lui stesso costruito. Di stratificazione in stratificazione, e sempre in cammino, l’orizzonte complessivo che chiamiamo mondo – ancora una volta: non per tutti uguale – restituisce le coordinate entro le quali homo sapiens elabora la propria gettatezza:

una nuova città algoritmica che pullula di intelligenze artificiali, big data, internet, social network, robot, elettrodomestici che si parlano tra di loro, touch screen ovunque, realtà virtuale e aumentata, innesti bioingegneristici, macchine fotografiche che riconoscono i volti, auto a guida assistita, stampanti 3D, criptovalute e smartphone tuttofare. […] Non c’è ormai dominio delle nostre vite che non sia intessuto di tecnologie che accumulano, distribuiscono ed elaborano informazioni[15].

Non stupisce, dunque, che la più recente figura assunta dal contesto tecnico-tecnologico conduca l’uomo ad un ripensamento globale del sé e del mondo. A maggior ragione se – come si è tentato di evidenziare – la complessità del lavoro umano sia costantemente relegata nel fondo di un iceberg, dalla cui punta visibile emerge il prodotto finito a scapito del processo che lo rende tale. Stato di cose – questo – che coinvolge soprattutto chi in questa temperie vi è approdato tanto gradualmente quanto freneticamente; chi, in altri termini, si sente culturalmente ed esistenzialmente erede e custode di un’altra civiltà; e «per una civiltà del genere, poter dimostrare di discendere direttamente da umani che erano integralmente umani è un punto irrinunciabile»[16]. E, probabilmente, questo è anche uno dei motivi che fondano il distacco di molti individui dall’attuale congiuntura storica, culturale, sociale, tecnologica che ha modo di estrinsecarsi anche in una – lo si ripete, più che lecita – riflessione come quella da cui prende le mosse il presente (e modesto) scritto.

Vi è, però, un’ulteriore osservazione da compiere sulla scorta dell’espressione «integralmente umani». In primo luogo ci tocca rammentare – come, in parte, si è già accennato – che l’attuale forma di transito assunta dall’ambiente umano non è che la più recente, e ancora e sempre metamorfica, evoluzione di un processo di lungo corso: «noi cambiano il mondo e poi il mondo cambia noi: è una vecchia storia. Non vale solo per le nostre menti, ma anche per i corpi. Noi infatti siamo gli eredi di passate rivoluzioni non meno travolgenti»[17].

Occorre ribadirlo: risulta arduo, nonché votato al fallimento, il tentativo di scorgere il punto originario di innesco di una tale dinamica; equivarrebbe alla pretesa di stabilire con esattezza insindacabile il momento a partire dal quale l’essere umano sia diventato essere umano per come lo si intende oggi (e come lo si intende oggi, rimane pur sempre una questione in definitiva ancora aperta). È, nondimeno, di fondamentale importanza soffermarsi su un nodo cruciale, posto in essere da Francesco Parisi:

[…] il fatto è che, qualunque direttrice si imbocchi, bisogna tenere a mente che l’ambiente in cui viviamo è sempre, in un certo senso, aumentato […], cioè un ambiente in cui l’informazione eccede la mera percezione ecologica del mondo. Ciò è originariamente possibile per l’Homo sapiens se non altro a causa della sua prima, straordinaria tecnologia di cui ha goduto: il linguaggio[18].

Da questo passo emerge una soglia di ineludibile importanza: l’uomo vive da sempre in ambienti mediati, la cui prima soglia di mediazione – ancor prima dell’emergenza linguistica – risiede nel proprio corpo, «la prima apertura opaca […] al mondo, il primo medium di cui disponiamo che mostra nascondendo» e rivela come «la trasparenza non esiste nemmeno nella percezione naturale, perché la nostra percezione è già mediata dal corpo»[19]. Da qui in poi, quel processo di ininterrotta e asintotica relazione, mediazione, esternalizzazione e retroazione con strumenti ed ambiente che ha fatto dell’uomo un animale tecnologico; laddove, ci si può riferire alla tecnologia come «insieme di strumenti che estendono (talvolta riducono) la capacità della nostra cognizione (retroazione)» e come «ambiente originante che obbliga a riconsiderare la nostra stessa nozione di umanità (relazione)»[20].

Risulta, allora, di imprescindibile importanza accogliere l’attuale ambiente a doppia forza motrice dell’umano – intriso di digitale e strumenti dotati di intelligenza artificiale – come il risultato mobile di un gesto di discontinuità re-ontologizzante nella continuità di un unico processo.

Intendere, al contrario, l’attuale scenario nei termini di una fase del tutto irrelata rispetto a quanto accaduto nella storia della tecnica umana, all’interno del cui perimetro l’uomo stesso è espropriato di qualsivoglia capacità di intervento, significa esporsi al rischio di disperdere fattivamente ed irrimediabilmente la testimonianza dell’umano nel lavoro tecnico-tecnologico che, in così larga misura, caratterizza e scandisce le nostre vite. E il rischio di una tale deriva si situa proprio in quella variegata e diffusa attitudine prospettica di un’umanità che, assuefatta alla più recente cornice tecnologica, si approccia agli oggetti-scenari che la costituiscono dal punto di vista del prodotto finito.

Su questo asse di riferimento, innegabilmente e almeno a primo impatto, l’impronta dell’uomo nei prodotti si fa sbiadita. E non è difficile attribuire ai più disparati strumenti dotati di IA un’intelligenza autonoma e del tutto indipendente dall’azione umana, proprio perché spesso manifestano una somiglianza con l’assetto comportamentale-esecutivo antropico. In questa cornice entra anche in gioco ciò che il filosofo Daniel C. Dennett ha definito «atteggiamento intenzionale (intentional stance)», vale a dire l’antica propensione umana ad intendere «il comportamento osservabile degli esseri viventi e degli oggetti […] come manifestazione di una volontà interiore tesa al raggiungimento di un determinato obiettivo»[21]. Ma, sebbene gli sviluppi degli studi sull’IA procedano a passo spedito – ed abbiano raggiunto notevoli risvolti – almeno fino ad oggi, tutte le tecnologie di tal fatta a nostra disposizione, complesse e sgargianti quanto possano apparire, sono di tipo ristretto. In altri termini, sommamente efficaci ed efficienti nella risoluzione di compiti algoritmicamente predefiniti, ma prive di qualsiasi forma di coscienza o intenzionalità – caratteristiche di fondo di ciò che invece, in contrapposizione alle prime, viene definita intelligenza artificiale forte o generale. E, per quanto ad oggi – tra rotocalchi, social network, piazze e salotti – non trascorra giorno in cui non si affronti la questione dell’IA, non è scontato pensare che il corpo collettivo sia avvezzo a questa basilare e fondamentale distinzione.

Ora, il punto non risiede in una rassegna panoramica di ciò che, fino ad ora, è riuscita a produrre l’industria dell’intelligenza artificiale; né tantomeno si colloca nell’intento di comprendere se e in che misura, in un futuro più o meno remoto, dall’attuale stato di cose si potrà transitare ai primi abbozzi di intelligenze artificiali generali; e l’attuale non è nemmeno la sede adatta per discutere, con il debito rigore, le premesse e le implicazioni che co-emergono e si co-evolvono nell’intreccio tra quest’ambito e le ulteriori pratiche umane.

Ci si vuole, invece, soffermare su quell’attitudine prospettica che conduce l’uomo a rapportarsi – per i più disparati motivi – agli oggetti dell’attuale ambiente tecnologico sotto il rispetto dei prodotti finiti. Sulla scorta di ciò, risulta invece di importanza irrinunciabile accogliere gli stessi anche come esiti mobili di processi umani. In quest’orizzonte, l’uomo non si configura naturalmente come l’unico e statico soggetto del processo tecnico, perché nel rapportarsi ad ambienti mediati e media ambientali, diventa al contempo oggetto degli stessi: nel modificare il proprio mondo-ambiente e i propri strumenti ne è al contempo modificato, in un complesso intreccio in cui soggetto ed oggetto si avvicendano.  In questo quadro, non risulta particolarmente proficuo né agghindarci precipitosamente di ampollosi orpelli di protagonismo che non ci appartengono; né, al contempo, dimenticarci di noi, a favore di una presunta e ancora, in parte, remota autonomia delle macchine. 

In questa direzione, come osservato – tra gli altri – da Telmo Pievani, anche la scienza dovrebbe intraprendere un modo comunicativo che non si limiti

a sciorinare i risultati, i prodotti, i dati, i numeri. Sono essenziali, certo, ma quelli cambiano nel corso del tempo, si accumulano e vanno aggiornati. Ancor più importante è spiegare come si arriva a quei risultati, perché sono affidabili ed entro quali limiti: bisogna, insomma, raccontare anche i processi, cioè l’approccio scientifico, il metodo, la genesi di quei prodotti, la loro validazione[22].

Soprattutto nel caso delle ricerche sull’IA – poiché uno degli ambiti in cui maggiormente ci si rapporta al prodotto finito – occorre che si racconti anche il processo, affinché il lavoro tecnologico si configuri, ancora e sempre, come testimonianza dell’umano. Il che non significa, almeno in prima battuta, assumere una postura favorevole o meno all’avanzamento tecnologico – termine-prassico così complesso che andrebbe discusso ad ogni sua particolare applicazione; ma si configura, al contrario, come il tentativo di strutturare la cornice complessiva di dialogo entro cui poter stabilire, asintoticamente e ininterrottamente, il verso dove dell’umano in relazioni ai suoi strumenti: «Pare oggi che il medesimo processo evolutivo che ha permesso al Sapiens di guadagnare il centro lo riporti, paradossalmente, al margine o quanto meno lo costringa a ridefinire il suo posto nel mondo»[23].

La frequentazione degli oggetti del mondo in quanto (presunti) prodotti finiti e non processi, rischia di assumere la forma di fattore e catalizzatore di inibizione prospettica. Occorre volgersi alla complessità, al ritorno mai sopito verso la radice speculativa socratica: la domanda sul che cos’è, sulla cosa in sé, che ha nel suo fondo aporetico tanto il suo limite quanto il suo carburante. Non la si possiede mai, dal punto di vista umano, la cosa stessa; ma, come insegna la tragedia greca, la misura la si struttura nella sua – di volta in volta attuale – figura di transito, solo guardando l’abisso. Solo misurandosi e rimisurandosi, asintoticamente e ininterrottamente, con la meravigliosa e terribile complessità dell’intero.


[1] C. Sini, Raccontare il mondo. Filosofia e cosmologia, CUEM, Milano 2001, p. 20.

[2] Su ciò Cfr. Spinoza, Etica, trad. e cura di G. Durante, Bompiani, Milano 2007, Parte I, Definizione I, p. 5: «Intendo per causa di sé ciò la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente». Per un commento ragionato della prima definizione dell’Etica spinoziana si rimanda a C. Sini, Spinoza o l’archivio del sapere in Opere, a cura di F. Cambria, vol. IV tomo I, Jaca Book, Milano 2012: «Il mondo è già là con tutte le sue cose: questo è l’esistente puro e semplice, questo è il sorprendente e l’inusitato per il pensiero. Ma voi direte che queste cose non sono l’esistente puro e semplice, non sono propriamente il “che c’è” del mondo. Sì, ma l’esistente in ognuna di esse è già là, come il puro e semplice esistente, e non va cercato altrove. Questa è la sconvolgente formula spinoziana che, come tutte le formule, dice tutto e non dice nulla, sicché ancora la ripetiamo […]: Deus sive natura. Pensare queste tre parole […] significa inoltrarsi nell’abisso. Tutte queste cose – terre, soli, mari, galassie –, tutte queste cose non sono propriamente l’esistente; ma esso in ognuna è già là, sicché non v’è inizio che possiamo immaginare o pensare, che non sia già, che non frequenti già questo esistente» (p. 127).

[3] A. Baricco, The game, Einaudi, Torino 2018, p. 152. A tal proposito è doveroso specificare che Baricco colloca la presente riflessione nell’epoca della colonizzazione digitale (1999-2007), che segue l’età classica (1981-1998) e precede il periodo definito propriamente del game (2008-2016).

[4] D. Borghetti, intelligentIA, Lekton edizioni, Acireale 2022, p. 17.

[5] A. Baricco, The game, cit., p. 88.

[6] Su ciò Cfr. C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

[7] Su ciò Cfr. A.M. Turing, Intelligenza meccanica (Collected works of A. M. Turing. Mechanical Intelligence, 1992), trad. e cura di G. Lolli e N. Dazzi, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 121-157.

[8] Su ciò Cfr. C. Sini, Il potere invisibile in C. Sini, Inizio, Milano, Jaca Book, Milano 2016, pp. 21-57.

[9] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936), trad. e cura di F. Valagussa e E. Filippini, Torino, Einaudi 2014, p. 9.

[10] A. Baricco, The game, cit., p. 248.

[11] Su ciò Cfr. E. Mazzarella, Contro Metaverso. Salvare la presenza, Mimesis, Milano-Udine 2022; B-C. Han, Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete (Infokratie, 2021), trad. e cura di F. Buongiorno, Einaudi, Torino 2023; Id., Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (Undinge: Umbrüche der Lebenswelt, 2021), trad. e cura di S. Aglan-Buttazzi, Einaudi, Torino 2022.

[12] A. Baricco, The game, cit., p. 283.

[13] Ivi, p. 284.

[14] M. Meschiari, Landness. Una storia geoanarchica, Meltemi, Milano 2022, p. 190.

[15] T. Pievani, La natura è più grande di noi, Milano, Solferino 2022, pp. 130-131.

[16] A. Baricco, The game, cit., p. 310.

[17] T. Pievani, La natura è più grande di noi, cit., p. 131.

[18] F. Parisi, La tecnologia che siamo, Torino, Codice edizioni 2019, p. 34.

[19] Ivi, cit., p. 162.

[20] Ivi, p. 4.

[21] D. Borghetti, intelligentIA, cit., p. 95.

[22] T. Pievani, La natura è più grande di noi, cit., p. 131.

[23] S. Natoli, Il posto dell’uomo nel mondo. Ordine naturale, disordine umano, Feltrinelli, Milano 2022, p. 11.

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