Sofferenza-amore. Lungo il fiume di Mario Luzi

di Enrico Palma

 

 

Chi esce vede segni inaspettati,

toppe di neve sopra i monti. Il freddo

di Pasqua è crudele con i fiori,

fa regredire i deboli, i malati

e più d’uno dimessa la speranza

rabbrividisce dentro sciarpe e baveri. 

 

 

Sembra il racconto in versi di un paesaggio, un quadro di veduta, una sinfonia manchevole della melodia dei violini e carica della straziante voce di un oboe soccombente sotto il tuonare degli ottoni. È primavera, almeno secondo il calendario astronomico, ma non per il divenireDopo lungo tempo, ci suggerisce la poesia, usciti da un profondo letargo invernale, ciò che si vede non è quello che si sperava di osservare, non è il panorama che si desiderava contemplare, quando, due stagioni prima, ci si era addormentati pieni di ottimismo verso il futuro. Ma colui che esce, da casa propria, dal paese, semplicemente dalla consunzione del freddo di sé in quanto singolarità inesaudita, coglie segni inattesi. Vede che la stagione presente non è quella che dovrebbe essere. Cosa è cambiato? Cosa c’è di diverso rispetto alla primavera in cui il rigoglio dei fiori e il raggio di sole ci hanno chiamati al risveglio, alla sortita da noi stessi? Cosa delude la nostra vista? Le cime dei monti sono innevate, segno evidente che l’inverno si protrae ancora duro e ostinato. Si doveva stare chiusi per qualche tempo in più nel giaciglio, al sicuro dalle cattive sorprese di un tempo incomprensibile e ammattito.

È Pasqua, segno inequivocabile di rinascita, il giorno nel quale per essenza ciò che era morto torna a nuova vita, risorge dalla defezione, monda il sangue del sacrificio trasfigurandolo in luce. La Pasqua di cui ci parla Luzi è però di tutt’altro genere e natura. Una Pasqua la quale, piuttosto che far avanzare i morti verso la vita, ferma chi è già nato, provoca nuovamente il brivido di paura che essi avevano già conosciuto e che credevano nel giorno della Luce di essersi lasciati alle spalle. Il freddo del giorno di Pasqua è anche crudeleLo sapeva anche Eliot che april is the cruellest month, aprile che spesso è il mese della Pasqua, che sferza i fiori appena nati e che dovrebbe accompagnare dolcemente a crescere, a effondere profumi, a rinverdire l’aria, ma che in verità nasconde una folle e insensata brama di vita. I deboli che desiderano la forza, promessa dal calore in arrivo con il cambio di stagione, sono costretti a differire sine die il giorno del loro rinfrancamento. I malati, ai quali più di tutto la Pasqua lascia in pegno il sigillo della vita, vedono allontanarsi la guarigione sul vento freddo che li atterra ancora. Il freddo di Pasqua, che la Pasqua stessa non è stata in grado di scacciare, toglie a tutti la speranza. La Pasqua, che dovrebbe dotare di un corpo chi ne era stato privato, rigenerare la carne del Figlio sacrificata al suo popolo per essere il Dio-con-loro, compiere il destino della divinità tra la morte e la resurrezione, manca l’appuntamento con il proprio giorno. È una Pasqua crudele, che arriva ma non rende ciò che ha promesso. Una Pasqua dimidiata, un’elargizione a metà, un sole comparso sul filo dell’orizzonte ma troppo pallido per dirsi pienamente sorto. Gli uomini, pur coperti tra sciarpe e baveri, non hanno il fuoco dentro di sé per potersi riscaldare e reggere ancora, poiché il giorno che aspettavano ha steccato la giustezza del suo arrivo al momento opportuno.

Se però non può essere Pasqua ogni giorno, bisogna trattenere il numero dei Venerdì. Bisogna tentare di porre un freno al dolore con la speranza che la passione in qualcosa sarà pur servita. Eppure quando la speranza è impedita da segni inattesi, quando il freddo punge in luogo di un tepore annunciato come sollievo dal gelo e preludio al vero fuoco, la sensazione è quella di un’inutile sopportazione, di trovarsi in un limbo incomprensibile. Il Venerdì, il giorno del dolore, lo abbiamo passato, ma la Pasqua che doveva arrivare tarda a venire. Quella che Luzi ci descrive è una dimensione di infrangibile sospensione, come un corpo in caduta libera che impatta su un terreno che non gli appartiene e che aspira a sollevarsi per poter scendere ancora, verso il proprio elemento naturale e a cui tende davvero. Non c’è spazio alcuno per la gioia, bensì per un mesto sorriso di chi ha superato il male, ne porta dentro di sé ancora i segni e teme che i germogli di un tempo nuovo seminati in un’epoca di dolore muoiano sul nascere. Nel giorno della luce, in definitiva, c’è gelo in Dio. 

 

 

Se t’incontro non è opera mia,

seguo il corso di questo fiume rapido

dove s’insinua tra baracche e tumuli.

 

 

Nell’opera del mondo, per citare un altro Luzi, il poeta ci parla di un incontro. Non si tratta di una giustificazione. Non è il responsabile del fatto, con tutto ciò che comporta il lessico degli incontri umani, sguardi di odio, di affetto, abbracci, pulsioni, sgomento, amore. Il poeta ha seguito il corso del fiume, che scorre rapido tra enti in rovina, provvisori e stanchi della loro forma, baracche di fortuna dove si pesca o si va caccia, tumuli di sassi e materia organica, di roba da buttare. Ciò che importa è che egli segue questo fiume, un moto umano e universale che dà il titolo alla poesia e ne spiega il senso. L’opera non è sua ma del fiume, il quale, seguendolo, ha fatto sì che l’incontro avvenisse, che la sciagura o la fortuna si compisse, che l’opera a lui destinata si realizzasse. Al posto di una certezza il poeta pone un’eventualità, aperta dal se e lasciata defluire tra le acque e le case di questo panorama desolato.

 

 

Son luoghi ove il girovago, flautista

o lanciatore di coltelli, avviva

il fuoco, tende per un po’ le mani,

prende sonno; il vecchio scioglie il cane

lungo l’argine e guarda la corrente

e l’uomo in piedi sulla chiatta fruga

il fondo con la pertica e procede

ore e ore finché nelle casupole

sulla tavola posano le lampade.

 

 

Luzi elenca gli uomini dalla speranza dimessa, che hanno creduto nella salvezza in bocca al mattino abortito della Pasqua. Sono i luoghi dei circensi, o dei tanti quadri del Picasso blu, immagini intrise di tragico, di uomini che dovrebbero essere felicità diramante e invece finiscono per farsi subissare anche loro dal gelo del mondo. A turno, lungo il fiume, compiono l’azione che a loro meglio si addice: riscaldarsi, merito di chi viaggia e di chi si muove molto, e che alla fine del giorno trova dimora nel luogo in cui decide che essa si trovi; fare suono con se stessi, dare voce al sé, parlare, gridare al mondo con musica di sillabe per udire il suono altrui e venire uditi. Bisogna tendere le mani, sgranchirsele per il freddo e tenersi pronti a suonare, e tenderle anche per la presenza altrui, per averle ferme e calde così da poter stringere con vigore; riposare, accontentarsi della fatica dell’oggi e rimettersi in forze per quella del domani, il lanciatore che fa del guizzo e della precisione, del pericolo e del rischio, il proprio specimen esistenziale. I luoghi del fiume dove il poeta viene condotto dal suo scorrere, a cui come detto deve obbedire, gli suggeriscono il vecchio, il quale di infide stagioni e di false promesse consumate dalla speranza, ancorché sottratte dal tempo, ne ha viste molte, e che si ferma a contemplare la corrente, questo divenire inesorabile che apparenta il nulla all’essere. C’è anche un uomo che, diversamente dal vecchio che lascia il cane libero di andare lungo l’argine, sta invece ritto sulla sua barca, intento a scandagliare il fondale, a tastare fino a sera ciò che la superficie nasconde agli occhi, i quali non sanno nulla di cosa giace sotto la patina appena increspata del fiume in divenire. 

Luzi ci propone dunque figure di azione, di intervento e di presa sulla vita, chi viaggia, chi suona, chi rischia, e in più due figure teoretiche, l’una di saturnità contemplativa, l’altra di analisi attiva sul mondo. I luoghi del fiume e dei primi incontri sono la sintesi del destino umano e che è il nostro orizzonte, la nostra opera mondana. Girovagare poiché nomadi per natura, cantare perché dotati delle parole con cui intercettare l’afflato che si solleva dal mondo verso Dio e dire le cose a noi stessi e all’essere, rischiare perché mortali sostanziati dal limite che cercano calore, invocano la musica, reclamano il riposo. Anche qui la dialettica del trattenimento, strutturante la poesia, definisce i personaggi: il girovago si ferma e si prepara un giaciglio per la notte; il flautista tende le mani nell’imminenza di suonare; il lanciatore di coltelli reclama per sé un po’ di calma. Alla condizione umana appartiene la contemplazione, che è cosa dei vecchi e dei saggi, ma direi anche sopravanzare la teoria e anticipare le risposte con la prassi della ricerca, persino se estenuata per un tempo lungo quanto lo è la nostra dimora transeunte presso il fiume e che coincide con il tempo della nostra vita. 

Tale è dunque l’opera del fiume, una sintesi con cui Luzi propone il vivere umano nel Tempo, tentando di vivere in esso e nel frattempo di coglierne le ragioni più profonde, ammirando e studiando.

 

 

Il paesaggio è quello umano

che per assenza d’amore

appare disunito e strano.

 

 

È realmente un paesaggio, un paesaggio umano, propriamente umano? Luzi, in questa dislocazione fluviale, descrive la presenza umana in esso ma ne specifica il senso. Questo paesaggio trattenuto in se stesso, in cui è in atto il tradimento pasquale della rinascita e della comparsa di forze nuove e fresche, che appare disunito e perciò anche irriconoscibile, ha una causa ben determinata per il suo essere in questo modo, essere cioè così curiosamente poco umanoLuzi imputa tutto ciò alla mancanza d’amore, che la sapienza greca, sin dai pensatori delle origini (penso a Eraclito e a Empedocle), o la riflessione neotestamentaria (mi riferisco all’ontologia dell’amore in Giovanni), hanno inteso come principio ontologico di addensazione della realtà, ciò che ne risolve i conflitti, ne ripiana le contraddizioni e ne acquieta il turbinio pulviscolare. L’amore che renderebbe umano il paesaggio è svanito: il mondo trasalisce a ogni presenza ricacciata indietro nel corso del fiume, gli uomini hanno perduto l’essenza del loro parlare, divenuto vacuo stridio di masse amorfe e respiri sonori lasciati andare per i fluidi. La mancanza d’amore dai luoghi del fiume, e quindi dal mondo, ha determinato la scomparsa della speranza, realmente salpata per altri lidi. L’amore vacante, concetto di unione e parificazione degli elementi, ha reso la primavera infelice, gli uomini tristi, i deboli più fiacchi e i malati più bisognosi. La mancanza d’amore che ha un altro nome, più oscuro e basale, ma in fondo quello più vero: dolore. 

È impossibile, date queste premesse, eludere il riferimento a un’altra, grande poesia di Luzi, la tenera e bellissima Aprile-amore, nella quale l’aprile di cui parliamo viene assimilato in un unico concetto con l’amore venuto meno di questa poesia. Lì l’amore aiutava a vivere e appunto a durare, a stare per qualche tempo in più qui su questa terra disunita dalla carenza d’amore e dissodata dall’aratro inglorioso della sofferenza. Lì l’amore annullava e dava principio. È di questo aprile che ci parla Luzi, di tale mese terribile a cui corrisponde una parte della vita, forse tutta, in cui sofferenza e amore diventano le due teste del problema, le forze coesive della natura come anche le cause desolanti della sua stessa devastazione.

 

 

Tu come t’aggiri solitaria.  

 

 

È nuovamente al tu di prima che Luzi si rivolge, a un tu che adesso capiamo essere al femminile. Si aggira solitaria la donna d’amore, la creatura amata dal poeta, anche lei colpita dal patema della mancanza. Si aggira, come il girovago che si era fermato ad accendere il fuoco presso il giaciglio nel quale avrebbe passato la notte, ed è sola. Ma è tale perché così vuole, perché ha rifiutato o è stata rifiutata? In questa danza di presenze incoglibili e scampanii nel vento freddo di un inverno tardivo, l’assenza d’amore priva i corpi del contatto, dell’unione nutriente che reciprocamente avvinghia gli esseri e dona loro vita, li fa vibrare insieme e ricrea l’anima per accogliere la Pasqua e attendere la speranza. Questo paesaggio disunito e strano separa nella solitudine coloro che si amano o, meglio, vorrebbero amare.

Luzi ci aveva detto, riannodandoci al verso che aveva preparato l’ingresso di questo tu, che l’incontro, anche se fosse avvenuto, non sarebbe stato opera sua. L’incontro sarebbe avvenuto tramite il fiume, seguendo il quale avrebbe anche potuto, magari, imbattersi in lei, presenza sgradita o benedetta al punto da donargli salvezza. È nella potenza del come, taciuta e allo stesso tempo così eloquente, che consiste però il segreto di questo incontro non accaduto ma desiderato. Il corso del fiume non ha permesso che l’io del poeta e il tu del suo amore si incontrassero. Pensando a Buber, il fiume come divenire senza coesione amorevole è una Zwischenheit sbagliata, una traità infondata. La solitudine va lenita ma la cura va cercata altrove, nell’amore che in questa occasione non deve dare principio, ma essere principio.

 

 

È più chiaro che mai, la sofferenza

penetra nella sofferenza altrui

oppure è vana 

– solo vorrei non come fiume freddo,

ma come fuoco che comunica…

 

 

Arriviamo al nucleo della poesia, al suo cuore adamantino. Luzi afferma con forza che la verità del suo verso è lampante. Mai prima d’ora è stato così chiaro, mai come adesso la verità rifulge tanto chiaramente, essendosi aperto lo spiraglio alla comprensione nel quale risiede, del resto, il miracolo della parola poetica. La sofferenza è un fatto transitivo, che penetra nei corpi e si infigge poi nella carne, nelle ossa, nel sangue, fino a irrorare l’intera consistenza del nostro essere, come un altro fiume in piena, tracimante e più maestoso. La penetrazione della sofferenza è il conio dell’incontro, il suo vessillo. L’incontro, che non era opera del fiume e nemmeno dell’amore, è opera della sofferenza. Non è un fiume, infatti, algido e di moto modesto, ma furioso, una fiamma che arde e consuma, che comunica le anime le une alle altre e poi le riunisce nel principio divino e amorevole. Il segreto della sofferenza, il suo senso, è di incontrare l’altro, di essere condivisa e raccontata, di fare della propria materia dolorosa e inestinguibilmente individuale un’opera collettiva. 

La sofferenza, pensando al Wilde del De Profundis, è l’ultimo dato della vita, ciò che resta quando ogni cosa a questo mondo ci è stata tolta. Se tuttavia la poesia tace su una possibile semantica del dolore, ciò che esclama con decisione è un’ermeneutica della fatticità esistenziale intesa come abbattimento della resistenza al dolore che gli altri oppongono e generano in noi. Se l’assenza d’amore disumanizza il mondo, ci è data un’ultima àncora a cui aggrapparsi, quella sofferenza disposta a penetrare e a farsi penetrare, a comunicarsi e a farsi parola, a lenire il vagare solitario relegato in questo tempo di attesa che nulla sa della Pasqua e di ciò che c’è oltre la crudeltà di aprile. Che significa tuttavia che la sofferenza ha un senso solo quando scambiata? Non è il dolore una prigione in cui si abita con la sola compagnia di se stessi e dei motivi spesso inspiegati del perché del nostro soffrire in essa? Non viene il dolore inferto da quell’altro a cui dovremmo dare la sofferenza nel tentativo di attribuirle un senso, consapevoli che in realtà è proprio in quel tu che giace la radice di ogni dolore pensabile e, espungendolo dal nostro orizzonte, anche la possibilità di risparmiarcelo? Ma il fuoco del dolore che arde l’altro, accostato al mio dolore, dice Luzi, invece di bruciarmi mi riscalda.

 

 

Amore difficile a portare,

difficile a ricevere. Se osa

si turba, sente il freddo della serpe,

ma se non osa volge inappagato,

preme d’età in età, di vita in vita.

 

 

C’è una forma vicaria di dolore, una rappresentazione più ristretta e quindi più precisa del paesaggio sospeso e inerme che Luzi compone in questa poesia. I versi successivi sono la lucida presa di coscienza dello scacco che è il vivere, e soprattutto dell’amore che unisce e separa, il sentimento più radicale e intenso che a volte ci avvicina agli esseri benedetti dal nostro incanto ma che in realtà ce ne allontana, provocando con ciò i dolori insopportabili della separazione, del rifiuto, del più crudele abbandono. L’amore è difficile, in qualunque senso lo si voglia intendere; difficile a covare dentro di sé, sopportare, manifestare, persino reprimere; difficile ad accogliere, perché se non si ha in sé lo stesso sentimento l’altro ci disturba, ripugna, insolentisce. Luzi descrive allora il momento cosmico e topico della decisione a muoversi quando si ama qualcuno, con una poesia-microscopio che, dalle distanze da cannocchiale con cui ci aveva fatto vedere le leggi universali degli astri, si focalizza sulla dinamica dell’io-tu sorretta dal sentimento amoroso. Quando l’amore è dentro di sé, il dubbio che attanaglia è di fare il passo avanti: se lo si fa, si ferisce la comunque sterile contemplazione di un sentimento astratto e privo di contenuto reale; se si rimane inermi, genera rimorso e rammarico, e attanaglia come un peso strozzante in tutte le età della vita e da questa vita a un’altra ancora. Che resta dunque da fare, in questo mondo in cui amare fa soffrire e soffrire sensatamente è la verità da proteggere e tenere ben salda come bussola esistenziale?

 

 

Il fiume corre, snoda le sue rapide,

la famiglia raccolta per la cena

brucia l’attesa, si divide il cibo.

Tuona, a tratti pioviggina. Cresce erba.

 

 

In questo mondo nel quale è verità inconcussa che quando amiamo facciamo del male o ne subiamo a nostra volta, venendone colpiti spesso a morte e feriti al punto da desiderare una fredda e perenne Pasqua, per paura che il calore porti con sé nuovi amori e quindi nuovi motivi di dolore, Luzi ritorna al fiume, allo scorrere delle cose che è oltre noi, allo stare dalla parte di Eraclito e, come capiamo, di Spinoza, nell’accettazione dell’intero come opera necessaria del cosmo. C’è però una famiglia, la quale, fattasi sera, brucia, consuma in quanto metafora dell’insieme, l’attesa di quella Pasqua calda in cui si sperava ardentemente. Si divide il cibo, metafora di quello che resta in questa mancata primavera sferzata dal gelo e di cuori infranti. La natura, oltre l’umano e la miseria dei suoi sentimenti, non si avvede di questa disunione generata dalla codardia o dalla saggezza di non amare e di non condividere il dolore. Procede indisturbata con il colpo di tuono, con quella pioggia che scioglierà comunque le ultime nevi sulle cime dei monti. L’immagine con cui Luzi ci congeda è bellissima: cresce l’erba, infatti, e con essa anche la vita, che questa poesia ha espresso come renitenza esistenziale di chi, avendo sofferto, si chiede se valga la pena sperare nel sogno mortifero di una Pasqua totale, in un’epifania del divino nel sé come totalità appagante e momento risolutivo per la salvezza, e che si spera con ogni stilla di energia vitale che abbia nome amore, che abbia, dico meglio, il nome che il nostro amore ha dato all’altro che amiamo. 

Non possono essere tutti i giorni Venerdì di dolore, né Pasqua di gioia. La poesia non propende verso nessuno dei due. Eppure, la desolazione spinge a qualcosa, a fare in modo che l’incontro con il tu, se non altro, sia cognizione dell’opera mia. A essere fuoco.

 

 

* La poesia si trova in M. Luzi, Onore del vero, in Le poesie, Garzanti, Milano 2020, pp. 231-2.

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