Disvelamento. Nella luce di un virus

Alberto Giovanni Biuso

Disvelamento. Nella luce di un virus

CONTEMPORANEA. Concetti, pratiche e forme/6

Algra Editore, Viagrande 2022

Pagine 148

€ 12,00

 

di Enrico Palma

 

Quando si tratta di un libro che affronta tematiche così stringentemente attuali la tentazione di inserire considerazioni personali è molto forte. Cercherò di resistere. Il titolo, molto ambizioso, unisce lo sguardo filosofico a quello sulla realtà, tentando di utilizzare il Covid-19 come strumento appunto di disvelamento delle complessità etiche, estetiche, sanitarie, sociali e soprattutto politiche della contemporaneità virale. Il virus, per Biuso, è infatti una questione prima di tutto politica. Ed è tale perché il Covid-19 ha coinvolto ogni livello del vivere, sia individuale che collettivo. Sulla base di un’identità libertaria, filosofica e critica, Biuso individua allora alcune delle maggiori problematiche e delle più scottanti criticità nella gestione dell’emergenza sanitaria, facendo emergere l’ondata nichilistica, oscurantistica e irrazionalistica che ha pervaso i decisori politici e quindi di riflesso l’opinione dominante impattante sul corpo sociale, ammalato secondo l’autore di autoritarismo, servilismo e negligenza intellettuale ben più di ogni infezione da Covid-19. 

Individuo alcuni degli effetti più nefasti e sui quali giustamente l’autore si sofferma con dovizia argomentativa: la dissoluzione delle relazioni vissute in uno stesso spaziotempo, nell’illusione che la vicinanza spesso estenuata tramite applicazioni di messaggistica e videochiamate potesse sostituire la ricchezza inderogabile della presenza e della con-vivenza; l’annullamento di ogni distinzione tra le diverse pertinenze dell’esistenza, inglobate in un’esasperata domesticizzazione per cui la propria dimora è diventata luogo indifferenziato di svago, intimità, lavoro, divertimento, dolore; la negazione della morte e dell’insecuritas di cui è fatta la vita, nella convinzione che abbattendo il rischio di morte da Covid-19 tutto il resto venisse meno da sé; l’insorgere di malattie ben più gravi rispetto all’infezione provocata dal virus, come la depressione, lo scoramento per le difficoltà economiche, la nauseante sensazione di abbattimento continuo e di privazione delle reali possibilità esistenziali; l’infodemia, la mitraglia di dati sui telegiornali, l’assuefazione da notizie, la narrazione compulsiva e il terrore dilagante; l’asservimento volontario a un’autorità smarrita e paternalistica che agisce non per il benessere collettivo bensì per un bisogno inconscio e spasmodico di perpetuare se stessa a qualunque costo; il dominio di Big Pharma, delle grandi corporation informatiche e delle multinazionali dell’intrattenimento nelle nostre vite quotidiane; la dispersione dei rapporti sociali e la loro quasi totale disincarnazione.

Soprattutto quest’ultimo mi sembra il portato più pericoloso dell’emergenza sanitaria, punto su cui l’autore si sofferma più volte definendo con esattezza il problema, che va ben oltre il virus e l’emergenza in sé essendo una questione tristemente pervasiva nelle relazioni odierne, laddove le cose più significative della vita, pur con il favore che a volte la distanza della scrittura concede, vengono scritte su WhatsApp, non si ha più il coraggio di concedersi l’un l’altro in uno scambio di esperienze e di vissuti di impronta autentica e non virtuale, il contatto e la frequentazione in presenza sono considerati un vero e proprio lusso. «Il liberismo contemporaneo si esprime in particolare nella trasformazione delle relazionalità da rapporto tra corpimente in un ossessivo rapporto dei corpimente con i dispositivi elettronici, in una relazione nella quale diventa dominante la dimensione virtuale e iconica, il QR. È questa forma mentis astratta ad aver reso ‘normale’ nel linguaggio una formula ossimorica e distruttiva come “distanziamento sociale”» (p. 50). Oppure, con ancora più precisione e con un senso di richiamo alla politicità corporea dell’umano e resistente: «Abituandoci a sostituire le relazioni del mondo degli atomi con la finzione del mondo dei bit rischiamo di perdere la nostra stessa carne, il senso dei corpi, la sostanza delle relazioni. Non saremo più entità politiche ma fantasmi impauriti e vacui» (p. 74). Non saprei dire sulla seconda parte politica della chiusa ma è senz’altro vero che la regressione delle relazioni a entità protoplasmatiche sembra incontrovertibile. Veramente efficace è a questo proposito la formula «idiozia digitale» (p. 76).

In ogni caso, la profondità di questo volume emerge dall’intera impostazione, dall’ampio spazio dato ai pensatori di ogni epoca e soprattutto dalla chiamata al rigore della ragione vocata più che mai a fare luce nelle tenebre e ad analizzare il reale sine ira ac studio. Ciò che Biuso auspica è una riappropriazione del senso del vivere che non si appiattisca sul mero dato biologico, su ciò che Agamben – e anche Foucault e Benjamin prima di lui – ha definito appunto la nuda vita, la vita cioè privata di ogni datità di senso che la descrive nel profondo, in vista di se stessa e del suo mantenimento a ogni condizione e qualunque sia il prezzo da pagare. Secondo l’autore, tale scelta da parte di molti governi, compresi alcuni democratici, in ragione del contenimento della diffusione del contagio, quella cioè di adoperare la più drastica delle decisioni, chiudere tutto, recidere le relazioni e la socialità incarnata, erodendo la formazione, il lavoro, gli investimenti e lo stato di diritto, è frutto di un crimine inemendabile.  

La reprimenda di Biuso continua inoltre anche nei confronti dei colleghi intellettuali e pensatori, formulata con grande durezza: «Che cosa hanno da dire i levinasiani, che cosa hanno da dire su questo totale impoverimento del volto umano e dunque dell’umana vita? Che cosa hanno da dire su tutto questo i foucaltiani, i filosofi, gli intellettuali critici, i sessantottini, i progressisti? Tutti riconvertiti al terrore e al servaggio? Tutti transitati da Lévinas e Foucault all’anima nera Don Abbondio e al suo già ricordato, e sempre memorabile, “quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire”?» (p. 60). Le mascherine (o maschere/museruole nel gergo dell’autore) avrebbero eradicato ogni dottrina levinasiana sul volto, l’adesione dei foucaultiani anche irriducibili alle dinamiche del green pass avrebbe ucciso violentemente la biopolitica, all’insegna della protezione della vita biologica e della sua presunta sacralità. Si potrebbe replicare che proprio in quanto si conosce bene l’ontologia etica di Lévinas si è assunta la responsabilità di coprirsi il volto e di sospendere l’epifania dell’altro per la sua salvaguardia, che proprio in quanto si conosce bene la biopolitica foucaultiana si è ritenuto che bisognava anche esercitare più cautela sia in un senso che nell’altro, dalla parte e dei governanti e dei governati.

Ad ogni modo, ho veramente difficoltà a comprendere pienamente la posizione dell’autore. Mi sembra che in almeno quattro loci del libro la malattia da Covid-19 venga presa nella sua realtà per la salute e dunque come evento da trattare con serietà e da fronteggiare anche in senso sanitario. La pandemia da Covid è detta da Biuso «tragedia» (p. 14); sarebbe stata accresciuta da una folle e scriteriata politica di sorveglianza e di inseguimento senza i costi della quale «si sarebbero potuti acquistare strumenti sempre più necessari» (p. 36); avrebbe colpito «in modo drammatico i Paesi, Italia compresa, le cui classi dirigenti reputano la sanità pubblica uno spreco da tagliare» (p. 55); sarebbe stata anche una mistificazione sulle reali ragioni del contagio (riassunte da Biuso, in conclusione, nella crescita demografica eccessiva e nella mancanza di equilibrio nello sfruttamento delle risorse del pianeta), «qualcosa non solo di patetico ma anche di pericolosamente sciocco di fronte al pericolo che il Covid19 rappresenta per tutti» (p. 98). Faccio difficoltà a coniugare una tale diversità di posizioni, come sia possibile cioè da una parte declinare una critica così lucida e largamente condivisibile alla gestione della pandemia e ai danni arrecati dalla risposta politico-sanitaria e dall’altra affermare la realtà del virus e non agire di conseguenza. 

Perché, e lungi da me giustificare ciecamente l’operato dei governi in risposta all’emergenza, la domanda che mi pongo è da un po’ di tempo sempre la stessa: cosa si doveva fare, allora? Oppure: ne è valsa la pena? Si dica pure che non è compito dell’intellettuale trovare delle soluzioni e che a lui spetta quello eminentemente socratico del tafano che analizza ciò che accade dalla distanza politica necessaria allo scopo e che formula critiche e riflessioni. Eppure, come suggeriva Hannah Arendt a suo tempo, è già un atto politico e collettivo uscire da casa propria e fare anche un solo passo nel mondo, sicché ritengo serpeggi all’interno di questo libro un’irrisolta contraddizione. 

Esercitare la critica è il diritto e insieme il dovere di chi presuma di essere un intellettuale, ma la gravità di alcuni eventi impongono responsabilità a cui ottemperare con giudizio. Credo che la tesi di Biuso si sintetizzi in questa frase: «A quanti sono vittime del terrore sanitario, a coloro che invocano polizie e punizioni per chi difende se stesso e il proprio corpo dall’invasione dell’autorità, va dato questo consiglio: “Chiuditi in cantina, un posto sicuro”» (p. 90. Il corsivo è mio), dove l’espressione in corsivo costituisce la cifra della contraddizione di cui parlo. A prescindere o meno dalle convinzioni fideistico-scientifiche, a proposito delle quali Biuso giustamente avverte e istruisce sul pericolo, sull’uso delle mascherine, sulle pratiche di prevenzione del contagio come il distanziamento e soprattutto sui vaccini (ben lontani dall’essere un elisir di lunga vita e una garanzia di immunità permanente), cose che nel libro vengono tutte prese per non cogenti o di scarsa validità, mi sembra che si faccia confusione su questo punto: non condividere tali pratiche e l’inoculazione poiché semplicemente imposte da un’autorità, a mio giudizio rappresenta un principio di inconcludente allergia al comando, molto simile a quando si rifiuta, pur capendo comunque che il consiglio è corretto, il comando di un genitore per il semplice fatto di non volerne accettare l’autorità. Ho dunque una seria difficoltà a cogliere la tesi di fondo di questo volume, così come non riesco a condividere l’attacco manzoniano su Don Abbondio, personaggio giustamente deprecabile ma davanti alla frase del quale, prelevata dal contesto del romanzo e interpretata da Biuso, rimango perplesso, perché mi domando subito dopo cosa avremmo dovuto fare altrimenti, se lasciare che il virus galoppasse senza alcun colpo ferire oppure intervenire con decisione adoperando tutte le misure necessarie. 

Mi pare di intuire che il virus per Biuso sia quindi reale e pericoloso, e tuttavia, a prescindere dalle critiche acute e condivisibili che muove ai governanti, ma direi all’umano contemporaneo nella sua ottusità e mancanza di raziocinio, non vedo nessuna considerazione nel prenderlo seriamente come tale per le nostre vite. E per me questo è inaccettabile. Come ricordato dall’autore, la vita è rischio, sempre, è una sostanza che va molto al di là del mero dato biologico. Ma questo vorrebbe forse dire che dovremmo ignorare i pericoli che la attentano, a cui, insieme ad altre problematiche che Biuso illustra, come la continua e imperterrita distruzione del nostro sistema-mondo, in questi ultimi due anni si è aggiunto un virus pur non letale come i bacilli delle epidemie del passato ma comunque fatale per la fascia di popolazione più fragile ed esposta?

L’interrogativo a cui questo libro mi sollecita è comunque di altra natura, e credo che vada al di là della dialettica servitù-libertà, padroni-schiavi, terrore-ragione, benché elementi importantissimi per raggiungere un grado di consapevolezza più elevato sulla questione, e cioè se non potesse proprio andare altrimenti da come è andata. Voglio dire che il disvelamento del virus ha mostrato alcune delle nefandezze, e aggiungerei anche stupidità, dell’umano tout court, capire le quali potrebbe rendere più sostenibile e meno angosciosa la vita, far sperare in un mondo equo, più povero di frustrazioni ed esasperazioni e ricco di possibilità nutrienti, le stesse alle quali Biuso richiama alla fine del libro con Nietzsche, Spinoza, Heidegger, alla filosofia come luce del mondo. Un principio luminoso e di libertà profonda che ci ricorda del nostro limite, che lo fa accettare e benedire, che ci fa comprendere, distanti dall’illusione di gioie false e insperabili, la ferita e la tragedia che è la vita in sé, sempre, come sapeva, ben prima di ogni Covid-19, il Pavese con il quale Biuso termina in modo per me molto bello questo libro, che resta stimolante per la riflessione sul senso del nostro stare al mondo. Perché rimane prima di tutto un esercizio di libertà in vista della libertà stessa, un caveat radicalmente filosofico che intriso della lezione dei grandi maestri propone una prospettiva critica di comprensione su ciò che non dobbiamo smarrire, su ciò che dobbiamo ancora comprendere sulla nostra salus, che è insieme salute e salvezza.

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