Edipo re. Una nota filosofica

 di Davide Amato, Alberto Giovanni Biuso, Nicoletta Celeste, Sarah Dierna, Simona Lorenzano, Enrico Palma e Marcosebastiano Patanè*

 

La tragedia greca è un’immensa opera di pensiero. Attraverso il tragico l’uomo di tutti i tempi sperimenta un accesso diretto al mondo e alla sua complessità che altrimenti gli sarebbe precluso. Nel tentativo di dare senso alla condizione umana, all’esistere dilaniato e inquieto tra la vita e la morte, la libertà e la necessità, la tragedia greca è energia poetica e poietica inesauribile. Al centro di questo campo di tensioni, tra desideri e remore sta l’eroe tragico, in balia delle forze numinose del destino e del divino. È la Pizia di Delfi a convincere Edipo a risolvere forse il più importante di tutti gli enigmi: quello delle sue vere origini e della sua identità. Comincia così per lui un cammino tortuoso fatto di indizi, tracce, segni che vertiginosamente si accumulano fino a unirsi nel symbolon, nella connessione di tutti i frammenti del passato che getta innanzitutto una nuova luce sul suo presente. È questo symbolon, questa tragica connessione di segni a costituire – molto più del parricidio e dell’incesto  il vero cuore dell’evento tragico dell’Edipo re. Un symbolon, una connessione accecante di piccole/grandi verità sul passato che spegne definitivamente ogni luce della sua esistenza. Un symbolon e un destino che proprio come il Cristo nel Getsemani, non combatte, ma accetta fino alla fine. È quella di Edipo la tragedia di un eroe che non si rassegna, ma si consegna a quell’insondabile e profonda verità di se stesso, di un passato che trabocca di silenzi, inganni e decisioni subite. Se la Sfinge lo aveva costretto a fissare lo sguardo sul presente, sull’immediato, ora è Tiresia a esortarlo a guardare la verità del suo passato, risalendo a ritroso dalla fine all’inizio, dal buio alla luce delle sue origini. 

Se si afferma riguardo all’Edipo re, inoltre, che si tratta della tragedia per antonomasia si è nel giusto. Mai come in quest’opera lo spirito tragico si raccoglie e diventa trasparente allo spettatore, il quale, con la ben nota dinamica aristotelica di immedesimazione e di repulsione, dapprima invidia e si compiace del successo di Edipo, e poi lo esecra e condanna per essere divenuto la sciagura di se stesso. E perché mai lo è? Per quale ragione può dirsi fondatamente la più alta e la più esemplare delle tragedie? Edipo, metafora e anche sineddoche dell’umano, è infatti colui che pur non avendo commesso nulla, assolutamente incolpevole e favorito dalla sorte con l’intelligenza per battere la Sfinge e divenire re di Tebe, viene comunque subissato dagli dèi con le colpe più gravi che la civiltà antica potesse mai concepire: la profanazione di se stesso, della famiglia e, per ultima, della città. Dove gli dèi elargiscono, in termini di ricchezza, fama e potere, poi tolgono, e veramente stolto è colui che crede che tali beni dureranno per sempre. La ricerca della colpa di Edipo, in una forma di ironia tragica tra le più brutali, termina infatti in se stesso. Edipo doveva salvare la città, da cui la sua ossessione di sapere circa la ragione del male che la attanagliava, la peste, e poi di conoscere il suo passato immondo, la storia di turpitudini che l’ha condotto a violare le leggi degli dèi e a suscitare l’orrore generale. 

Accurata è stata la scelta di una scenografia spoglia, asettica, quasi cimiteriale. O per meglio dire la scelta di non allestirne alcuna in favore della cospicua presenza umana sulla scena, forse il tratto più riuscito della rappresentazione. Una grande scalinata grigia, quella del sapere a cui lentamente si approda per brevi e dolorosi passi, campeggia a chiudere l’ambientazione. Da questo, infatti, l’emersione delle decine e decine di componenti del coro, che a gran voce scandivano ritmicamente e coreograficamente lo strazio del loro re e della città. Un grande pubblico segue dunque Edipo, e insieme a lui Creonte, Giocasta e Tiresia, quest’ultimo l’unico in grado di camminare sulle silhouettes di abiti di coloro che erano morti per la peste e che ogni corifeo portava con sé, poi disposte in cerchio a significare la colpa ancora ignota nella città e dentro cui Edipo sguazzava completamente ignaro. 

Gli occhi di Tiresia vedono la verità; Edipo, una volta appresa, non ne regge la visione e se li strappa dalle orbite, divenendo così lo Sguardo rosso di Schoenberg posto a immagine-guida delle tragedie di quest’anno. Gli uomini e le donne sono infatti la scena, l’ambientazione, il tribunale che segue come un’ombra le vicende del loro re in preda al dubbio, alla paura e infine al terrore più viscerale. Avrebbe voluto assistere alla vicenda da un punto di vista esterno, ma ogni rivelazione dopo l’altra spinge Edipo verso il baratro della consapevolezza del male che egli rappresenta, della colpa che egli era e in cui il sapere stesso lo ha trasformato. È in gioco, dunque, la legittimità della conoscenza in relazione ai disegni che le forze più grandi di cui l’umano è in balìa determinano nascostamente. Cosa voglia dire tentare di conoscere ciò che una volta appreso ci distruggerebbe, nell’incoercibile desiderio, antico quanto la Sfinge degli enigmi, di squarciare ciò che appare e di raggiungere ciò che è in sé. Pervaso dalla volontà di sapere, intriso della passione dell’indagare, ossessionato dal bisogno di fare luce, Edipo rovina se stesso e la propria casa. C’è qualcosa di estremo e arrogante in questa necessità di portare a evidenza ogni anfratto degli eventi. Un’esigenza di comprensione che si volge contro chi la nutre. Ma che è greca, profondamente greca. Uomini furono che vollero conoscere e conobbero. E che di fronte a ciò che avevano appreso dissero parole talmente chiare da essere sempre e ancora nostre, sempre e ancora vere nell’affermare che nessun umano potrà essere detto sereno sino a quando in lui pulserà ancora la vita (στε θνητν ντα κείνην τν τελευταίαν δεν / μέραν πισκοποντα μηδέν λβίζειν, πρν ν / τέρμα τοβίου περάσ μηδν λγεινν παθών, vv. 1528-1530).

Il Tempo che vede tutto apre infine gli occhi a Edipo; Apollo, dio crudele, lo invade della propria luce di conoscenza; Necessità fa sì che ciò che deve accadere accade al di là anche del silenzio e delle parole di Tiresia. Convocare il quale è stato il primo gesto del lento processo di agnizione di Edipo. Tiresia gli consiglia di rinunciare a sapere, Giocasta gli consiglia di rinunciare a sapere, il vecchio servo che lo aveva tenuto in fasce gli consiglia di rinunciare a sapere. Ma Edipo, no. Edipo indaga. Si dichiara persona estranea ai fatti che condussero alla morte di Laio. Estraneo, lui. Si dice alleato del dio Apollo e del morto Laio. E fa luce. Una luce trionfale che gli regala un ultimo atto di gloria da parte della città che una volta ha salvato, un attimo intriso non a caso di Evoè, il canto vittorioso di Dioniso. Una luce straziante che lo farà tornare in scena completamente nudo, intriso del sangue dei propri occhi e di quello di Giocasta suicida.

Complice inconsapevole dell’unione incestuosa, Giocasta incarna la tragedia nell’elemento femminile, la tragedia di essere madre e moglie. Tenerezza e seduzione, accoglienza e desiderabilità sono caratteri del femminile già di per sé problematici da conciliare. Nel personaggio sofocleo questi caratteri raggiungono l’apice della tragicità nel momento in cui diventa chiaro che Giocasta è al contempo madre e moglie dello stesso uomo. Madre che abbandona il figlio per compiacere il marito Laio, Giocasta viene smascherata come madre contro natura. Il suo gesto tuttavia costituisce anche il tentativo disperato di strappare se stessa, Laio e il piccolo Edipo al comune destino nefasto. 

Meglio sarebbe stato non averlo mai generato quel figlio, meglio sarebbe stato non venire al mondo, ma essendo nati non c’è modo di fuggire al dolore e al destino. E il destino di Giocasta è stato quello di partorire non solo un figlio-marito, ma per di più di generare figli da un figlio. Una moltiplicazione del dolore di cui la donna non riesce a farsi carico e soffocata da questa spirale insostenibile si toglie la vita con l’impiccagione, dopo aver imprecato contro quello stesso talamo in cui Edipo era stato concepito e generato, in cui con Edipo si era unita dando vita a una stirpe infelice e nefanda. 

Ma qual è la colpa di Giocasta? Come nel caso di Edipo, la ricerca della colpa di Giocasta conduce a lei stessa, alla sua facoltà di generare, attualizzando quella vita di dolore in potenza che gli oracoli avevano profetizzato. Significativo è il fatto che, nella messa in scena di Carsen, quando Edipo ricompare nudo sulla scena viene coperto dai servi con la veste di Giocasta, come a voler ricordare che l’essere umano in quanto mammifero non può sopravvivere senza l’affetto materno, anche quando si tratta di una madre abbandonica che è anche moglie incestuosa.

Doppio è quindi il destino di Edipo, creatura apollinea, salvatore-re e mendicante-indovino, perché doppi sono i nomi degli dèi e così anche Apollo, dio del Sole. La natura doppia dei nomi divini si manifesta nel sacrificio di ciò che più si ama, che è ciò che è più caro agli dèi. Il dio desidera ciò che gli è simile. Come Artemide, dea della caccia e della foresta, della luna e delle iniziazioni femminili, protettrice della verginità e della pudicizia, esige il sacrificio di Ifigenia, così Apollo toglie la luce a Edipo, quella luce che aveva permesso al figlio di Laio di vedere tra gli enigmi della Sfinge e salvare la città di Tebe. La luce di Apollo non illumina ma acceca, non uno squarcio nel buio che scaccia le tenebre ma una ferita che brucia, non una luce che indica con chiarezza ma una lama obliqua, una lama che sgorga da lontano, come le frecce amare del dio, del suo arco, come le parole profetiche di Febo che rivelando troppo occultano, conducendo alla rovina. A questa logica potrebbe anche rispondere l’uso della luce sulla scena in diversi momenti chiave della rappresentazione, un’illuminazione simbolo dell’occhio splendente del dio. 

Appaiono e scompaiono i sovrani -Edipo, Creonte, Giocasta- lungo l’alta scalinata che dalla piazza di Tebe ascende all’alto della reggia e degli dèi.

L’Edipo, tuttavia, insegna anche altro. Rappresenta certamente un grande monito per chiunque commetta atti incestuosi e sacrileghi minacciando così l’integrità della città, ma bisogna scendere ancora di più nella trama dell’esistere: la nostra vita si mostra segnata da disegni a noi ignoti e che spesso ci conducono alla rovina e al dolore, senza che noi possiamo contro di esse ribattere alcunché, far sentire la nostra voce, anteporre la forza particolare del carattere alla necessità ineludibile del destino. C’era gioia, all’inizio, in Edipo, fortunato tra gli uomini come mai nessuno prima, e proprio per questo la crudeltà degli dèi si accanisce su di lui, così come su ogni umano che in lui si rifigura, un fuscello il quale, pur avendo saputo, sprofonda nella tenebra della non-visione, nudo, insanguinato, commiserato dalla città e che alla fine, disceso dalle alte gradinate del sapere, va verso il pubblico, mischiandosi, anzi, con noi, insegnandoci come il suo destino sciagurato non sia poi in verità tanto distante dal nostro: ovvero che a noi che siamo nati, e che era meglio che non ci fossimo, tocca ancora soffrire. 

È il percorso che la tragedia di Sofocle esorta tutti a compiere. È il percorso del sentimento tragico, che è pura fenomenonologia del dolore, che è pura fenomenologia della vita umana nel suo procedere annaspante nella potenza del tempo e della sua cieca irreversibilità. Quest’uomo, questo re, non ha alcuna colpa, perché non sapeva di essere l’omicida di Laio e lo sposo di sua madre. Ma l’intenzione è un concetto che per i Greci conta ben poco. A pesare è il danno oggettivo che l’agire di Edipo ha inferto alla città, il danno oggettivo che chiunque può infliggere. È a motivo del danno che si deve essere neutralizzati, non della volontà di far male o far bene. La seconda è semplice e insindacabile psicologia, la prima è la realtà.

Questo, alla fine, la luce portata da Edipo ci fa vedere.

 

Scheda della messa in scena:

Edipo re

Di Sofocle

Traduttore: Francesco Morosi

Regia: Robert Carsen

Scene: Radu Boruzescu

Costumi: Luis F. Carlvalho

Coreografie: Marco Berriel

Luci: Robert Carsen, Giuseppe Di Iorio

Direttore di scena: Giovanni Ragusa

Con: Giuseppe Sartori (Edipo re), Rosario Tedesco (Capo coro), Elena Polic Greco (Corifea), Graziano Piazza (Tiresia), Maddalena Crippa (Giocasta), Massimo Cimaglia (Primo Messaggero), Antonello Cossia (Servo di Laio)

Teatro Greco di Siracusa

 

 

*Questo testo nasce dalla visione collettiva della messa in scena siracusana, dalla condivisione e dalla rievocazione del tragico che si rende presente facendosi parola negli uomini e donne che dai Greci sanno imparare.

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