L’amore tra repressione e rassegnazione. Su Storia di una capinera di Giovanni Verga

 di Nicoletta Celeste

 

            

Amore difficile a portare,

difficile a ricevere. Se osa

si turba, sente il freddo della serpe,

ma se non osa volge inappagato

preme d’età in età, di vita in vita[1]

 

 

Come sosteneva il grande Giacomo Debenedetti, una lettura esclusivamente veristica dell’opera di Giovanni Verga risulta davvero «sfuocata e anacronistica»[2] e tale da annichilire la portata di un romanziere di tal genio. Innanzitutto perché risulta evidente agli occhi di tutti i lettori che il celebre scrittore catanese non è mai davvero così oggettivo, neutrale e distaccato dagli eventi che racconta. Al contrario, in ogni sua opera è possibile rilevare una certa compartecipazione ai drammi dei suoi “vinti”, alla violenza che domina i rapporti umani e la realtà che ci circonda. Degli esordi letterari del giovane Verga, la Storia di una capinera rappresenta davvero una perla preziosa, tale da offrire riflessioni ermeneutiche ampie e inverosimilmente dense di attualità. Una storia tragica e intensa, di cui si cercherà, almeno in parte, di restituire la bellezza e la profondità.

 

  1. Gli esordi giovanili e il romanzo epistolare

 

Storia di una capinera è un romanzo epistolare che raccoglie le lettere della protagonista, la giovane Maria, indirizzate all’amica Marianna. Tutto ciò che accade viene raccontato solo attraverso le sue parole e non si conoscono le risposte della destinataria. Risale alla prima fase della sua opera la scelta, da parte di Verga, di una scrittura quanto più possibile “vera” e “sociale” e l’approdo allo stile epistolare per raccontare da vicino «storie di amore e di morte […], riversando nei suoi eroi tanto di sé, con la volontà di coinvolgere anche il lettore, ma caricandole anche di un moralismo contestatario»[3]. Nel romanzo epistolare l’assenza del narratore onnisciente, che solitamente guida l’interpretazione della storia, fa sì che il lettore entri direttamente in contatto con la dimensione psicologica dei personaggi, con le loro indomite passioni e i loro laceranti conflitti. E ciò quasi al punto di produrre l’illusione che il testo che sta dinnanzi sia realmente un documento autentico, originale e non la creazione fittizia della mente di uno scrittore. Una delle caratteristiche più importanti del romanzo epistolare è proprio il racconto degli eventi in prima persona, attraverso il quale il lettore può accostarsi direttamente a ciò che il protagonista ha vissuto e soprattutto al modo in cui lo ha vissuto. La narrazione si svolge al presente incrementando la sensazione di essere assorbiti totalmente dalla realtà del personaggio e dalle sue continue oscillazioni emotive. Personaggio e lettore vivono, così, il puro presente, la possibilità di un destino aperto, lo spontaneo derularsi degli eventi la cui evoluzione è totalmente sconosciuta. 

Alle origini di questo racconto è possibile rintracciare un’esperienza autobiografica, sociologica e letteraria

Un’esperienza autobiografica in quanto sappiamo che Giovanni Verga conosceva bene la vita del chiostro: sua madre, Caterina Di Mauro e sua zia erano state educate nella badia di Santa Chiara, uno dei conventi più antichi della città di Catania e che si trovava nei pressi della casa dello scrittore. A questo aspetto occorre aggiungerne un altro, quello dell’esperienza di altre due zie dell’autore, donna Rosalia e donna Francesca, entrambe monache: l’una del convento di San Sebastiano a Vizzini, l’altra a Palermo. Sappiamo anche di un paio di soggiorni della famiglia Verga a Battisti e a Trecastagni per sfuggire all’epidemia di colera del 1867. Spostamenti che erano avvenuti già alcuni anni prima, nelle due estati del 1854 e del 1855, quando una precedente ondata di colera li aveva costretti a rifugiarsi a Tebidi, fra Vizzini e Licodia. Fu proprio lì, infatti, che il giovane scrittore conobbe il suo “primo amore”: una giovane educanda della badia di San Sebastiano. Finché durò l’epidemia i due riuscirono a vedersi con una certa frequenza e pare che Verga si fosse davvero invaghito della fanciulla. Tuttavia, una volta cessato il pericolo, la famiglia tornò a Catania e la fanciulla al suo monastero. È possibile, dunque, riscontrare — almeno in parte — queste esperienze nella vicenda del romanzo. 

Un’esperienza anche sociologica perché attraverso il racconto di Storia di una capinera Giovanni Verga cerca di mettere in risalto il grave problema sociale delle monacazioni forzate per far emergere tutto il disagio della condizione femminile dell’epoca. La storia di Maria è, infatti, anche la pubblica denuncia verghiana alla violenta repressione della spontaneità di queste giovani donne recluse, vere e proprie pedine umane del grande scacchiere degli interessi economici tra la Chiesa e alcune nobili famiglie italiane. In realtà, si tratta davvero di un vero e proprio topos storico che sin dal Medioevo ha caratterizzato negativamente la storia della condizione femminile. In Europa vigeva, infatti, la “legge del Maggiorasco”, secondo la quale tutti i patrimoni di famiglia spettavano in eredità unicamente al figlio primogenito. Agli altri figli, chiamati cadetti, restava ben poca scelta: intraprendere la carriera militare o quella ecclesiastica. Le donne non potevano mai disporre della propria vita, in qualsiasi circostanza. Le giovani più “fortunate” destinate al matrimonio non potevano spesso decidere liberamente con chi sposarsi e se avessero posseduto molto denaro o molti beni, essi sarebbero appartenuti al marito a cui avrebbero dovuto sottostare. 

Un’esperienza letteraria, infine, perché la vicenda narrata nella Storia di una capinera si inserisce all’interno di una tradizione letteraria già consolidata dalla Religieuse di Diderot e dalla monaca di Monza di Manzoni. Romanzi la cui struttura narrativa converge sull’inasprimento della vita di queste giovani donne in seguito a una scelta che lascia una scia tragica nelle loro vite. La giovane Suzanne di Diderot è una fanciulla castigata nel corpo e nell’anima dalla vita in convento. Alla stregua di Verga, lo scrittore francese permette al lettore di vedere con i propri occhi gli orrori e i soprusi che la reclusione forzata e l’esclusione dal mondo sociale generano in queste giovani vite. Il più celebre personaggio di Gertrude si inserisce, invece, all’interno del contesto “polifonico” delle vicende dei promessi sposi Renzo e Lucia: il destino della donna è qui maggiormente legato a quello degli altri personaggi e ciò che emerge è una storia fatta non solo di duri sacrifici, ma anche di desideri appagati e di trasgressioni vissute. 

A confronto con le altre audaci protagoniste, quella del giovane Verga sembra soltanto la storia di una repressa, di una vinta, del disfacimento dei suoi desideri più intimi. È come se la giovane Maria si trovasse “nel mezzo” tra l’audacia del peccato di Gertrude e le libertine trasgressioni di Suzanne. Maria, infatti, non renderà mai possibili le sue impossibili tentazioni, fino al punto di trasformare tutti i desideri proibiti in un’insanabile follia. Solo il sopraggiungere della morte, unica e vera dispensatrice di catarsi, riuscirà a preservare ciò che rimane dell’originario incanto della capinera.

 

2. La scoperta dell’amore tra turbamento e nuove consapevolezze

 

La trama di Storia di una capinera è davvero straziante e tristemente nota. Maria è una giovane fanciulla catanese, povera e priva di dote, che è stata costretta dai suoi familiari a prendere i voti in convento e restare lì fino alla fine dei suoi giorni. Il padre è una figura debole e fortemente incapace, coniugato in seconde nozze con una donna molto ricca e allo stesso tempo terribilmente crudele nei confronti di Maria. Tutta la famiglia lascia la città per trovare rifugio sul Monte Ilice a causa del repentino dilagare dell’epidemia di colera. Notevole rilievo è dato da Verga proprio alla dimensione paesaggistica della storia, elemento in cui si riflettono gli aspetti psicologici della protagonista: dal paesaggio di campagna come luogo idilliaco in cui fiorisce la passione della giovane Maria, all’angusta e asfissiante cella del convento, simbolo della repressione del suo indomabile sentimento amoroso. È proprio nella prima lettera che la protagonista, in preda allo stupore e alla gioia, descrive minuziosamente quella natura smagliante della stagione estiva siciliana:

 

Com’è bella la campagna, Marianna mia! Se tu fossi qui, con me! Se tu potessi vedere codesti monti, al chiaro di luna o al sorgere del sole, e le grandi ombre dei boschi, e l’azzurro del cielo, e il verde delle vigne che si nascondono nelle valli e circondano le casette, e quel mare ceruleo, immenso, che luccica laggiù, lontan lontano, e tutti quei villaggi che si arrampicano sul pendìo dei monti […]. Se vedessi com’è bello da vicino il nostro Etna! Dal belvedere del convento si vedeva come un gran monte isolato […]; adesso io conto le vette.[4]

 

È come se Maria sul Monte Ilice fosse “battezzata” a una nuova vita, alla conoscenza della verità del mondo, del suo calore che si estende al di là delle fredde mura claustrali. Qui fuori la vita, la vera vita è infatti movimento, scoperta, vertigine di sensazioni. Ed ecco che allora la campagna qui descritta non è solo un asettico diorama in cui i personaggi si muovono e agiscono, ma è l’estensione di un cuore ancora troppo giovane, ancora vergine di emozioni. Un paesaggio, quello siciliano, valorizzato da Verga in se stesso e nella dolorosa contrapposizione con il contesto claustrale chiuso e ristretto. La campagna è così ariosa, allegra, vigorosa e il mondo per Maria non è mai stato così ricco di particolari come lo è adesso. Nulla a che vedere con il soffocante chiostro del convento che «si percorre tutto in cento passi», in cui non è assolutamente possibile correre e fare schiamazzi. Sul Monte Ilice, invece, la bellezza della natura libera il corpo e l’anima di Maria, donandole quell’afflato di infinito finora mai vissuto. Il suo pensiero non è più «imprigionato sotto le oscure volte del coro, ma si estende per le ombre maestose di questi boschi, e per tutta l’immensità di questo cielo e di quest’orizzonte»[5]

La nuova realtà, dunque, stimola la giovane protagonista a prendere finalmente coscienza di se stessa, del suo “essere-nel-mondo” e a compiere persino nuove attività a lei prima non consentite come il gioco, la chiacchiera, il ballo. Maria si rende conto che oltre il silenzio, la solitudine, la preghiera e il raccoglimento esiste anche la bellezza del calore e dell’intimità degli affetti, ciò che secondo una mirabile espressione proustiana «nous ne pouvons pas trouver en nous-même»[6]. Maria scopre l’anima della vita, il calore dato innanzitutto dai legami familiari, dalle carezze e dagli sguardi amorevoli del padre che vengono da lei stessa contrapposti all’austera frigidità delle consorelle del convento:

 

Ma ora sento che amo il mio babbo assai più della Madre Direttrice, delle mie consorelle e del mio confessore; sento che io l’amo con più confidenza, con maggior tenerezza il mio caro babbo, sebbene possa dire di non conoscerlo intimamente da più di venti giorni […]. Tu non puoi immaginarti quello che io provo dentro di me allorché il mio caro babbo mi dà il buon giorno e mi abbraccia! Nessuno ci abbracciava mai laggiù, tu lo sai Marianna! …la regola lo proibisce …Eppure non mi pare che ci sia male a sentirsi così amate…[7]

 

In tutta la prima parte del romanzo Maria appare dunque sbalordita, trasognata, come trasportata improvvisamente in un mondo nuovo. Tutto ciò che la circonda è fonte di turbamento e confusione. Ed è proprio in questa gioiosa e trepidante atmosfera che Maria farà la scoperta più importante del suo processo di formazione personale, quella dell’amore per Nino, giovane rampollo della famiglia Valentini che vive nella casa vicina. Attratta e, allo stesso tempo, confusa dai suoi pensieri, Maria non riesce a decifrare ciò che si agita dentro il suo cuore, totalmente indifeso dinanzi a queste inattese “intermittenze”. Nelle lettere scritte all’amica Marianna trascorrono solo pochi giorni dal “peccato” solamente ipotizzato al “peccataccio” effettivamente commesso:

 

Se sapessi, Marianna! Se sapessi! …Il peccataccio che ho fatto! …Mio Dio! Come avrò il coraggio di dirtelo? Non mi sgridare! …a te, a te sola lo confesserò…ma all’orecchio, veh! E sommessamente …Non mi guardare in viso! …Abbracciami e ascolta …Ho ballato! …intendi? ho ballato! …ma senti …non mi sgridare! …non c’era nessuno …il babbo, Giuditta, Gigi, la mamma, Annetta, i signori Valentini …e il signor Nino …Anzi ho ballato con lui…[8]

 

 

Sarà solo però nella lettera del 20 novembre che emergerà l’intensità dei sentimenti di Maria, in una vera e propria dichiarazione d’amore ardente e appassionata:

 

Marianna! Marianna! …io lo amo! Io lo amo! Pietà! Tutto il mio essere è pieno di quell’uomo: la mia testa, il mio cuore, il mio sangue. L’ho dinanzi agli occhi in questo momento che ti scrivo, nei sogni, nella preghiera […]. Tutto ciò che sento per quell’uomo è nuovo, è strano, è spaventoso… è più forte di quello che porto al mio Dio! …Questo è quello che al mondo chiamano amore… l’ho conosciuto; lo veggo… È orribile![9]

 

Lentamente Maria inizierà ad associare questo sentimento al dolore, alla vergogna, a un forte senso di colpa nei confronti di tutto ciò che sente. Maria ama e allo stesso tempo si rimprovera di amare, in una continua oscillazione tra la gioia, che raggiunge il culmine nel momento in cui scopre di essere corrisposta nei suoi sentimenti dallo stesso Nino, e l’amara consapevolezza di non poter mai realizzare quello che il suo cuore desidera. 

Comincia così quella graduale deriva solipsistica della protagonista che la condurrà, nel giro di poco tempo, alla follia. La capinera è l’ennesima vittima della malattia amorosa, dinanzi alla quale ella non sa come difendersi. Malattia che aveva così proliferato da intrecciarsi oramai con tutti i suoi pensieri, le sue parole, i suoi gesti. L’amore che faceva a tal punto tutt’uno con suor Maria che per usare un’efficace espressione di Marcel Proust «non si sarebbe riusciti a strappargliela di dosso senza distruggere per intero, o quasi, la sua stessa persona»[10]. Ogni azione, ogni pensiero rivolto a Nino diventeranno per lei quelle “miche” di pane che inesorabilmente la condurranno verso la repressione dell’amore, verso la dolorosa distruzione di se stessa. L’amore, come un pungolo, torturerà il suo spirito fino al definitivo cedimento psichico. Al tramonto della sua esistenza, tra lacrime e affanni, Maria invocherà infatti un’ultima volta il nome dell’amato. Sarà suor Filomena, nella lettera senza data che chiude il romanzo, a raccontare questi ultimi, dolorosi momenti. Dell’amore perduto resteranno solo i petali essiccati di quella rosa che un tempo Nino le aveva donato. Resterà solo una disperata rassegnazione.

Esistono dei momenti nella vita di ciascuno in cui una folla di pensieri, sensazioni, ricordi fermenta dentro noi stessi e stordisce i nostri più lucidi ragionamenti. Ed ecco che nasce proprio in questi momenti la necessità di esprimere questa sofferenza, di raccontarla a se stessi e agli altri, nel tentativo di scorgere il senso più profondo di ciò che sta accadendo. È proprio quello che la giovane Maria, profondamente inquieta, fa nelle lettere rivolte a Marianna: le sofferenze, i desideri, i rimorsi, i deliri, i “peccataci” prendono vita, diventando scrittura. Quella scrittura che sola consente di trattenere ancora un poco la gioia fugace degli attimi vissuti e di ottenere la vera redenzione dal dolore dei giorni. La scrittura, vera custode della memoria e della vita. La scrittura che rimane alla fine dei giorni, alla fine del tempo e del dolore della povera capinera. La scrittura che rimane in quell’insieme di “fogli manoscritti” di suor Maria, così accuratamente numerati e avvolti da un nero cordoncino. Sarà l’estremo gesto, l’eredità eterna di Maria poi ritrovata e riscoperta mutatis mutandis proprio dallo stesso Verga[11].

 

Conclusioni

 

Con tutta la sua freschezza e acerbità, Storia di una capinera di Giovanni Verga rappresenta un racconto sui generis, intimo, passionale e profondamente umano. Un dramma esistenziale che colpisce forse maggiormente per la verità profonda di certi interrogativi che solleva: è davvero possibile per l’uomo sopravvivere senza quelle relazioni che lo nutrono? È davvero possibile chiudersi totalmente nelle gabbie psichiche del proprio sé, estirpando ogni gioia, ogni dolore che nasce dall’incontro con gli altri? 

Storia di una capinera ci insegna che la vita consiste nello spalancare le porte alla luce, nell’intonare la bellezza del nostro canto a chiunque possa ascoltarlo. Come già Martin Heidegger aveva intuito, vivere è sempre convivere, esistere nel mondo insieme agli altri. Vivere è espandere il proprio sentire oltre le clausure del cuore e trovarsi «di là, dove c’è il sole, l’aria, le vie, la gente»[12]

Oltre le grate delle nostre gabbie interiori c’è la stessa consolazione che la povera capinera ha trovato nell’ora più estrema: quella della vista del cielo e dell’infinito, orizzonte della vera gioia, della gioia piena.

 

 

*Ringrazio Filly De Luca per avermi suggerito la lettura di questo testo, per avermi dato la possibilità di ricredermi ancora una volta sull’amore, sulla sua potenza, sulla sua complessa verità.

 

Foto di Nicoletta Celeste: Monastero di S. Benedetto di Via Crociferi a Catania.

 

 


[1]  M. Luzi, Lungo il fiume, in Le poesie, Garzanti, Milano 2020, p. 232.

[2] G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, La nave di Teseo, Milano 1971, p. 274. 

[3] G. Petronio, La letteratura italiana raccontata da Giuseppe Petronio, Mondadori, Milano 1995, vol. V, p. 69.

[4] G. Verga, Storia di una capinera, Newton Compton, Milano 2013, pp. 31-32.

[5] Ivi, p. 32.

[6] M. Proust, Le côté de Guermantes, in À la recherche du temps perdu, a cura di T. Laget e B. Rogers, Gallimard, Parigi 2019, p. 1052; «non possiamo ritrovare in noi stessi», trad. di M.T. Nessi Somaini, Rizzoli, Milano 2012, p. 443.

[7] G. Verga, Storia di una capinera, cit., p. 33.

[8] Ivi, p. 46.

[9] Ivi, p. 59.

[10] M. Proust, Dalla parte di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, trad. di G. Raboni, Mondadori, Milano 1983, vol. I, p. 374.

[11] All’edizione del 1871 è anteposta una lettera di Francesco Dell’Ongaro, primo editore dell’opera, a Caterina Percoto. Egli si riferisce al testo come un semplice corpus di lettere scritto da una monaca e arrivato tra le sue mani grazie al tramite di Verga, che gli aveva anche chiesto di proferire un giudizio sulla dolente storia che essi contenevano.

[12] G. Verga, Storia di una capinera, cit., p. 120.

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