«Viene un tempo che l’amore si fa soltanto in sogno». Un delicato viaggio con Lalla Romano, seduti su di una panchina, osservando “le lune”

di Mauro Distefano

 

Io: – Mi domando perché stiamo bene insieme.

A.: – Perché ci somigliamo.

– No, io amo il primo mattino, tu il mezzogiorno, che 

a me fa paura.

– Entrambi vogliamo l’assoluto.[2]

 

 

«Questo libro è nato dalla volontà del libro stesso». Così Lalla Romano inaugurava il risvolto di copertina della I edizione de Le lune di Hvar (1991), testo profondo, intimo, che risente della scrittura degli ultimi anni dell’autrice, ormai ottuagenaria, incline a una sintassi ridotta al minimo, o meglio all’essenziale: semplici frasi nominali, abbreviazioni, annotazioni numeriche. Una scrittura epigrammatica sapientemente amalgamata dal suo inconfondibile stile asciutto, diretto; mai banale, mai ridondante con inutili orpelli stilistici. Di difficile attribuzione per quanto riguarda il genere nel quale collocarlo, il libro può avere – e ha avuto – varie definizioni: accezione semplice di «appunti di viaggio», che starà stretta, come detto da Grazia Cherchi[3]; di raccolta di appunti e semplice diario. Dunque, come considerare questo testo? Accettando la definizione dell’opera come diario di viaggio, quest’ultimo venne concepito durante delle vacanze estive nell’isola dalmata di Hvar: quattro soggiorni tramutati in quattro lune – come i capitoli del testo, chiamati lune appunto – accompagnata dalle proprie paure, ansie, passioni e da Antonio Ria, inseparabile presenza. La Romano scandaglia con il suo occhio attento, seppur stanco[4], un acquerello di pace dalmata; un piccolo mondo aperto al turismo straniero prima delle nefaste nubi della guerra che inghiottiranno quella parte d’Europa. Sapori e colori si mescolano a descrizioni pittoriche dei luoghi e della gente; di Antonio e di Lalla stessa e di quei tramonti osservati da quella panchina “estrema”, nella quale la scrittrice visse intensamente le sue lune. Tutto si riduce all’essenziale, quell’essenziale che risulta essere il tutto. Schegge, frammenti, appunti celeri che perdono segni di interpunzione, soggetti e logicità, carichi di abbreviazioni varie, ma che lasciano una traccia nella mente del lettore; la straordinaria capacità di immedesimarsi, e vedere – ma allo stesso tempo percepire – ciò che la scrittrice ci narra. Un viaggio ricco di chiaroscuri soprattutto per via dell’atteggiamento della Romano nei confronti del mondo, nei confronti di Antonio, figura sospesa ora tra il figlio, ora tra l’amato devoto e paziente che dice, rivolgendosi a una Lalla indebolita sia dall’età sia dal suo essere: «Rientrare e vedere che ci sei»[5]. Riducendoci all’essenziale, come ci ha abituati il libro, e prendendo in prestito uno stralcio di lettera che Giulio Bollati, editore della Romano, le inviò dopo la lettura del libro, osiamo dire questo: tale libro conferma, ancora una volta, la grandezza della Romano come scrittrice[6].

 

1.Guardare come scrittura

 

Il viaggio inizia nel 1986 partendo da Milano, in auto, fino al confine con l’Istria per poi giungere in Dalmazia. Un viaggio sfiancante non solo per una donna anziana, ma per la molteplicità di problematiche che, inevitabilmente, sarebbero sorte lungo il cammino. Eppure viaggiando in auto vi è la possibilità di arricchirsi col viaggio stesso: non attraverseranno soltanto i luoghi ma li vivranno intensamente interfacciandosi con la cultura croata, con la gente locale – molti personaggi incontrati dalla Romano durante i soggiorni saranno, come suo solito, ribattezzati con altri nomi: Beograd, Ulisse, Abbagnano, Polifemo ecc., con i sapori e i silenzi. Le prime due “lune” mostrano una sintassi più coesa rispetto alle ultime due – per coesione intendiamo un organico più vicino a un testo di senso compiuto, un racconto, che non a semplici annotazioni essenziali – questo, probabilmente, perché la scrittrice non conosceva i luoghi in cui andava. Sulla falsariga dell’angoscia legata alla novità, si innesta il tema che permea l’intero testo e che presenta reminiscenze dantesche: il “visibile parlare”, e ciò si nota per via delle occorrenze sostantivali e verbali e di figure retoriche; «luce», «luminoso», «sguardo», «visione», «vista», «guardare», «vedere» ecc. La componente visiva è stata da sempre un Leitmotiv fondamentale negli scritti della Romano e, inevitabilmente, nelle Luneviene declinata secondo l’estro artistico primigenio dell’autrice, ovvero la pittura. Le descrizioni ridotte all’essenziale, seppur piene di dettagli imprescindibili per l’idealizzazione dell’immagine spiegata dalle parole della Romano, accompagnano il lettore in questo viaggio visivo. Spieghiamo con degli esempi: prima dell’arrivo a Hvar, durante la prima “luna”, Lalla chiede informazioni riguardanti i luoghi ad Antonio, facendo trapelare una sfumatura di dolce angoscia perfettamente comprensibile date le circostanze: «Così mi sono raffigurata l’albergo; e l’immagine, abbastanza precisa, mi diventò quasi familiare. Vedevo un palazzo altissimo, severo, con tante finestre, a picco sul mare. Le onde si rifrangevano con violenza contro la parete di roccia. Dietro l’albergo una lunga strada dritta fiancheggiata da altri alberi scuri»[7].

La contemplazione visiva suggerisce al lettore un’immagine nitida che accetta con fiducia. Ritornando al “visibile parlare”, la predisposizione della Romano, seduta lontano dal mare, sulla riva o sulla sua “panchina estrema” – il luogo prediletto nel quale osservava il caleidoscopio di luci e sfumature rinfrangersi sul mare e la gente che conduceva la propria vacanza – risulta quella di narrare la plasticità dei corpi altrui quasi fossero delle vere e proprie sculture: «[…] grande dolcezza dei nudi»[8], «signora «distintissima» (40 anni) in slip e reggiseno come perfettamente vestita – si è tolto il reggiseno ed è sempre distintissima»[9], «coppia di bellissimi che guarda il mare iracondo […] lei, la più bella mai vista, profilo greco dolce, seno abbondante su linea morbida, ma austera – sguardo severo»[10], «un bellissimo sedere di ragazza che le spalle coperte da un golf e le gambe nascoste dallo scoglio: bellezza e purezza cubiste»[11], «contro il mare, coppia nuda (belli) […] Casorati a Varigotti mi aveva detto: lei sembra una dea; può darsi che io lo sembrassi: questa lo è […] i due bellissimi giocano a carte sullo scoglio: sono proprio dèi […] gli dèi se ne vanno abbracciati»[12]. La libertà espressiva – e mai volgare – della Romano nei confronti dei corpi proietta su di noi una pellicola, un’istantanea, di normali e quotidiani momenti vissuti ai margini di una spiaggia. Non mancano descrizioni più sentimentali, dettate ora dalla vista di genitori intenti con i propri figli, di giovani coppie innamorate o dal rapporto con Antonio; le descrizioni sollecitano il lettore ben oltre i cinque sensi trovandoci d’accordo con Filippo La Porta, il fragile tessuto narrativo delle Lune datoci nel rapporto particolare tra una donna dai capelli bianchi, che non ama fare i bagni, e da un giovane, ex giornalista ed erudito, presenta sfaccettature riconducibili alla sfera onirica, a quella elegiaca – seppur «non è mai esercizio calligrafico, prezioso e virtuosistico» – e amorosa nonostante «è qualcosa che sembra implicare una certa freddezza»[13]. Più volte all’interno del testo gli appunti che riguardano i dialoghi tra i due – o meglio i pensieri personali scaturiti dai questi ultimi che la Romano aggiunge a mo’ di glosse – contengono delle “colpe” riconosciute dalla scrittrice: un carattere che potrebbe sembrare «freddo e distaccato» viene trasposto in questo bloc-notes che raffigura, intimamente, un rapporto sì complicato ma profondo facendo risultare il «[…] romanzo di esistenze, tenero e feroce»[14]. La scrittrice riconosce di non riuscire a dare ad Antonio un corrispettivo emotivo a suo dire “giusto” o “adeguato”, nonostante egli con la sua presenza, e infinita pazienza a detta della stessa Romano, dimostri un sentimento saldo e inamovibile. Non si tratta di semplice compassione per una donna ormai esausta dall’età, ma di un amore intensamente carico di silenzi, come quello tra una parola a un’altra, che risulta affascinante proprio per i lampi poetici scaturiti dal vivere poi trasposti in prosa. Un perfetto ibrido tra la poesia primigenia della Romano trasportata in una prosa particolare del vissuto; nessuna invenzione, solo momenti e sensazioni provate:

 

in camera lungo discorso sul passato

A.: – Non ho ancora capito tutto.

Io: – Non si può amare la madre.

A.: – E perché?

mi preoccupa la sua libertà

[…]

notte penosa. Lui sogni tremendi, io pensiero: sempre

la sua vocazione interrotta. […]

Parliamo; io consiglio: – Adeso sei come chiunque: la-

vori, e basta. 

lei non poteva capire l’esperienza mistica […][15]

 

Come diceva Ria, anche il lettore, forse, non capirà del tutto i loro dialoghi, il loro rapporto. Forte e fragile, tenero ma freddo fatto di teneri baci centellinati e silenziosi pianti notturni, mescolando l’idea e l’immagine della Romano a quella della madre. 

 

2. Si ha l’impressione che dipinga scrivendo

 

Come precedentemente accennato, un’altra componente imprescindibile dell’opera è la presenza di cromatismi e tratti prettamente legati alla pittura. Partendo dalla “terza luna” – in realtà anche nelle precedenti “lune” seppur in misura inferiore – ritroviamo un continuo uso di descrizioni cromatiche che spingono il testo ad un’associazione del piano del contenuto con quello dell’espressione. Il lettore si ritrova immerso in un caleidoscopio di colori: i sette colori dell’arcobaleno sono tutti presenti e, qualora non bastassero le sfumature cromatiche di due o più colori, la Romano aggiunge vari abbinamenti quali colore – aggettivo, colore – oggetto ecc.[16] La Romano, filtrando il colore nella materia, lo rende quasi etereo, squisita e delicata descrizione quasi fosse una pennellata su tela; la tavolozza cromatica si intensifica nelle ultime due “lune” abbandonando la sintassi, dunque la prosa e la “seconda anima” della Romano, la scrittura, in favore delle reminiscenze pittoriche: una lettura attenta induce a riflettere sulle pause e sui segni di interpunzione presenti in queste ultime parti ragionando e comparando come l’assenza di questi ultimi possa essere ricondotta all’impressione tangibile che la pittura veicoli la scrittura. Le semplici virgole, i semplici spazi vuoti tra un lemma e un altro non sono altro che le pause pittoriche che la scrittrice sovente usava durante la lavorazione delle sue tavole.[17] Per ovvie ragioni l’elenco che seguirà sarà assai breve ma esaustivo al solo fine di rendere noto l’operato sopracitato: «Il mare è tornato blu, le vele come spine bianche, sottili», «[…] cielo celeste e turchino (il cielo di Cheneil)/Mare grigio piombo, orizzonte linea dura – gli scogli rosa-giallo, rugosi», «Ancora tramonto rosso […]si può vivere in un Claudio Lorenese?», «[…] vedo, solo nel congedarmi, che sono blu-verdi, e i capelli rossi», «[…] viola la cenere anche le colline, rosa-viola gli scogli», «cielo celeste, mare turchino, rocce rosa», «due blu: turchino prezioso piatto (il mare), celeste tenero leggero (il cielo)», «cielo drammatico , mare nero, barche bianche o rosse smaglianti».[18] Assai variegato è il registro retorico – «la luna è un’unghia sottile»[19] – come si è potuto intuire, dal quale si evince la predisposizione della scrittrice per analogie e similitudini come a rimarcare lo stretto contatto tra poesia e pittura[20].

 

3. Tutto è lasciato al silenzio dell’immagine

 

Come si è notato le anime di questo libro possono sembrare molteplici, a noi piace considerare un’unica anima, quella scritta, ibridata, o meglio amalgamata, perfettamente con le vere anime della Romano: anime artistiche, inquiete, fragili e ricche di bellezza ma, senza dubbio, silenzi. Quel silenzio “siderale” citato più volte in quelle ore “tremende” osservando quei soli, e quelle lune, altrettanto carichi di significati e cromie. Se poniamo sotto la lente catalogatrice dei capitoli, il lettore nota la bipartizione tra scrittura, tramite il visivo, e la pittura, tramite l’estro mai domo della scrittrice; noi azzarderemo un terzo “incomodo”, più sentimentale e a noi malinconicamente caro: il silenzio. Se da un lato abbiamo dei focus testuali non troppo velati che guidano verso la particolarità artistica dell’opera in toto (l’Estaque era un chiaro preavviso; «ho visto che la casa di fronte è un Cézanne»[21]), da un altro alcuni appunti redatti dalla Romano sono costellati di aggettivi, quali «siderale» e «tremendo», che inducono a riflettere sullo stato d’animo certamente complicato ma fragile della scrittrice. Come già accennato, la prosa adamantina intenta a valorizzare segmenti frasali presenta una soffusa malinconia, la Romano predilige «una tecnica associativa a sfondo allusivo e intuitivo» rifiutando l’espressione totale lasciando al lettore quel lavoro immaginativo atto a colmare quelle mancanze, quei vuoti anche non metaforici tra una stringa e un’altra, tra una parola e un’altra, riempiendo quel bianco sul testo[22]. Si ha l’impressione che la ritmicità della Romano, squisita e sempre puntata al focus, posta nel pentagramma dell’oggetto libro, affinché riesca nel suo intento, debba avere delle mancanze, dei silenzi. Non vi è musica senza silenzio, non vi è vita e ricerca del bello nella Romano se non vi è pausa e, dunque, silenzio[23]. La straordinaria arte del togliere che, minuziosamente, è capace di descrivere anche un semplice e piccolo gesto, o avvenimento, riesce a penetrare il foglio lasciato bianco dal silenzio che, a sua volta, compenetra il lettore, perché come recita Joubert – citato dalla Romano ne Un sogno del Nord – «Mettere un intero libro in una pagina, una pagina in una frase e quella frase in una parola»[24], noi ritrovandoci nel bel mezzo della frantumazione sintattica, ne sperimentiamo un’altra, ai nostri sensi, scoprendo, ancora una volta, quanta forza possa avere la scrittura di Lalla Romano. Al termine delle quattro lune ve ne fu una quinta, quella vissuta in solitaria da Ria senza Lalla, ormai deceduta, che sembra trasporre su carta lo stato d’animo del lettore al termine di questo viaggio «come sperduto: in una dimensione di assenza, di distanza dalle cose. […] È stato come entrare in un tempio luminoso, e accorgersi che non c’è più la divinità»[25]. Dopo questo viaggio Lalla aveva dove sostare, la sua panchina «estrema» dalla quale, seppur poteva sembrare distante dal mondo, lo osservava e descriveva immergendosi profondamente nella vita; a noi non rimane che commuoverci al ritorno da “incomodi” da Hvar leggendo le ultime parole di Ria che sanno di memoriale per l’addio: «Vorrei che anche questo viaggio di ritorno non finisse mai. «Rientrare e vedere che ci sei», le dicevo ogni volta. […] Non potrò dire, come non ho potuto dire a Hvar, mai più: «Rientrare e vedere che ci sei»».[26] Quando la Romano andò via scrisse: «Quando esco io, c’è grande luce e niente altro […] di fronte il corpo siderale ma caldo, roseo, di una immensa isola»[27] a noi non rimane che scrivere di aver fatto uno splendido viaggio, intenso, viscerale e delicato seduti su di una panchina osservando le lune di Hvar.

 


[1] L. Romano, Diario di Grecia, Le lune di Hvar e altri racconti di viaggio, A. Ria (a cura di), Torino, Einaudi, 2003, p. 156; da qui in poi Le lune di Hvar.

[2] Ivi, p. 122.

[3] La Romano, durante un’intervista a Grazia Cherchi, espresse l’idea che rappresentava per lei il libro «la quintessenza della mia libertà rispetto allo stile e del mio insieme pudico e appassionato amore per la vita». Come già accennato poc’anzi, una vera e propria etichetta a questo libro è difficile da affibbiare, sia per la particolarità della sintassi e dello stile che rimanda ora a dei semplici appunti legati cronologicamente, ora a delle note di sensazioni e/o varie; lo stesso Ria, nell’introduzione, lo definirà “libro atipico”.

Per una più esaustiva lettura delle considerazioni della Cherchi cfr. ivi, pp. 228-229; mentre per il commento completo si veda G. Cherchi, Viaggio che sfida tutte le convenzioni, Wimbledon, II, 1991, n. 18, p. 38.

[4] Ria ci dice che negli ultimi anni di vita la Romano fu fortemente oppressa da una graduale e deficitaria cecità. La sofferenza per l’impossibilità di leggere, scrivere e osservare mise a dura prova una donna ormai sfinita dall’età; Ria escogitò un singolare, quanto utilissimo, metodo per farla continuare a scrivere: su degli immensi fogli bianchi la Romano scriveva piccole frasi, semplici parole – compose, a memoria, alcuni schizzi floreali. Queste interessanti testimonianze sono raccontate in un documentario della Rai, Lalla Romano, L’altro ‘900. Di seguito il link: https://www.youtube.com/watch?v=HoQI8A5zn64.

[5] Tale frase viene ripresa più volte nel testo dalla Romano, sottolineando il tenero sentimento nel sentire questa semplice frase. Nell’edizione del testo presa in esame, vi è un’appendice redatta volutamente dallo stesso Ria nella quale dichiara «[…] Su Le lune offro al lettore in appendice un mio testo intimo, testimonianza di un ritorno doloroso a Hvar da solo, dopo la morte di Lalla». L. Romano, Le lune di Hvar, p. VIII. Per quanto riguarda la citazione: ivi, p. 207. 

[6] Ivi, p. 239. «[…] Così li ho mandati alla Einaudi. In genere gli editori non leggono i libri, anche se il mio amico Giulio Bollati li leggeva. […] Comunque, quando ho mandato il dattiloscritto a Piero Gelli, allora direttore editoriale, mi ha subito telefonato. Non solo l’aveva letto con interesse, ma si era anche commosso […]». Ivi, p. VIII. 

[7] Ivi, p. 66.

[8] Ivi, p. 101.

[9] Ivi, p. 104.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p.107 

[12] Ivi, pp. 108-109. La stessa Romano cita il suo maestro d’arte, Felice Casorati (1883 – 1963) dal quale apprese, e perfezionò, l’estro pittorico. Famoso soprattutto per la “creazione” della “Scuola Casorati”, studio artistico nel quale si formò la cerchia di pittori rinominata “Sei pittori di Torino”. La Romano non fece parte in stricto sensu dei “Sei”, ma semplicemente della scuola. Questa nota, a nostro avviso, risulta essere molto personale: in una delle ultime interviste, la Romano raccontò di come fosse pentita di non avere foto, dunque ricordi visivi, della se stessa giovane; la citazione al maestro va ricondotta al fatto che quest’ultimo diede testimonianza della bellezza della giovane Lalla considerandola una vera e propria dea.

[13] Cfr. L. Romano, Le Lune di Hvar, cit., pp. 233-234.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, pp. 100-102.

[16] Cfr. E. De Roberto, «Le lune di Hvar o delle tre età?», in G. Nuvoli, A. Ria (a cura di), La verità della memoria, p. 281.

[17] Si veda L. Romano, «Tra pittura e scrittura», A. Ria (a cura di), Il silenzio tra noi leggero nel quale la Romano stessa cita la complementarietà tra la pittura e la scrittura: «[…] sovente ci sono delle annotazioni di questo genere», cit., p. 57.

[18] La cromia è presente nell’intero libro, qui ci si sofferma soltanto in alcune rappresentazioni. Cfr. L. Romano, Le Lune di Hvar, cit., pp. 85-128.

[19] Ivi, p. 83.

[20] «Trasformazione e analogia sono l’essenza dell’arte» L. Romano, Le parole tra noi leggere, in Id., Opere, cit., vol. II, p. 62; per quanto riguarda la presa di coscienza dell’ibridazione delle due tecniche cfr. L. Romano, Un sogno del Nord, in ivi, p. 1576.

[21] Cfr. L. Romano, Le Lune di Hvar, cit., pp. 70 e 77.

[22] Ivi, pp. 229-230.

[23] «Parlo dell’impossibilità per me di scrivere nella bellezza – ci vuole la noia, il chiuso/ – anche per l’amore il sostegno», ivi, p. 95. 

[24] Ivi, p. 230.

[25] Ivi, p. 206.

[26] Ibidem.

[27] Ivi, p. 113.

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