Per una prospettiva generazionale della poesia siciliana. I poeti nati dal 1940 al 1969

di Pietro Russo

Parlare di “contemporaneità” a proposito di una terra come la Sicilia potrebbe voler dire rischiare un cortocircuito temporale. Se per esempio mettiamo sotto la lente della nostra indagine la generazione dei poeti nati nell’isola tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta del Novecento ci accorgeremmo che le teorie più avanzate della fisica quantistica trovano in questo improbabile campo di studio un puntuale riscontro. Sembrerebbe infatti che l’auspicio di Salvatore Quasimodo ad essere un «uomo del mio tempo» venga preso alla lettera dagli autori nati in questi anni, i quali aderiscono al presente della realtà storica con uno sguardo strabico; rivolto cioè alle radici, alla tradizione da un lato, e ai presagi di un mondo nuovo (che forse non si pensava arrivare con tanta velocità) dall’altro. Essere contemporanei, in Sicilia, significa quindi essere atomi di cui non si può determinare, esattamente, posizione e direzione. Con ciò non si vuole però insinuare che la storia di questa poesia sia la cronaca di una chiusura geografica o culturale rispetto ad altre realtà nazionali e mondiali: i poeti di questa ‘lunga’ generazione (fratelli e non, si badi bene, progenie del già citato Salvatore Quasimodo, di Angelo Maria Ripellino, di Bartolo Cattafi, di Francesco Guglielmino, di Lucio Piccolo, di Jolanda Insana, di Santo Calì, solo per fare alcuni nomi) non sono dei periferici o dei cosiddetti “minori”. Le ragioni editoriali (socio-economiche) c’entrano poco con la poesia che si scrive a queste latitudini, e del resto basterebbe leggere gli spunti del Gramsci dei Quaderni per ricordarlo. L’isolanità di questi poeti diventa un tratto distintivo solo a patto di riconoscere preventivamente che la poesia è, per sua natura, un discorso ‘eccentrico’ rispetto a mode, riflettori, tendenze e gusti; ovvero un movimento che deraglia da un presunto Centro per giungere alla terminazione nervosa della parola.

La proposta che si intende qui avanzare ha certamente tutti i crismi della “ragion antologica” (si Kant licet), o peggio ancora – ce ne rendiamo conto – di un consuntivo redatto con la logica di un ipotetico nonché irrichiesto “Canone” poetico isolano. Che sia stata fatta a monte, da chi scrive, una scelta è un dato innegabile. Tuttavia le origini e gli esiti di questa selezione si comprendono forse meglio se ricondotte alle necessità del viaggio, ovvero all’attraversamento di un Luogo (la poesia) che non può essere riportato/riprodotto in una scala 1:1. Non è quindi solo una questione del discorso cartografico-verbale che si trova naturalmente in difetto rispetto all’oggetto dell’osservazione, quanto piuttosto la stringente evidenza che qualsiasi “discorso su” contempla già una sfasatura e, diremmo pure, un taglio parziale rispetto alla realtà nella sua interezza.

Cominciamo allora questo itinerario da Valverde, nomen omen poetico di un paesino dell’hinterland etneo, con Angelo Scandurra che qui ha risieduto fino alla fine dei suoi giorni oltre ad esserne stato anche virtuoso amministratore. La poesia di Scandurra non si presenta di facile accesso per il lettore; i suoi testi, infatti, non convogliano il senso in una sola direzione, ma lo fanno implodere dall’artificio di una sintassi labirintica, immessa cioè nel «circuito ripetibile / che sconfina nel contesto / con la parola aperta a sgomento / d’invocazioni e umili pretese». Alla maniera di Pascal, l’opera poetica di Scandurra nasce da una «scommessa» con il vuoto, con il Non-Essere, con l’incubo sempre in agguato del silenzio; da un accordo tra la «vita» e la «morte» stipulato sulle spalle del poeta, gigante e nano allo stesso tempo, istrione e maschera di disperazione. «Nel confine invalicabile» dove «si ripete il prodigio / di me uomo che ti voglio»: ecco la prima tappa del viaggio.

A questa non può che seguire un opportuno «smarrimento» linguistico-cronologico nella poesia di Maria Attanasio, poeta e romanziera di Caltagirone (Catania), o per meglio dire “bi-scrittora”, come lei stessa ama definirsi. «Tra i liquami nel lazzaretto di Palermo» o «tra le strade di Parigi sul finire / del secolo dei lumi», la poesia di Attanasio è una esplorazione al millimetro delle «frontiere occidentali» – quelle stesse agognate dai migranti che ogni anno sbarcano a migliaia nell’Isola «faro traballante dell’Europa» – e inoltre un resoconto sulle potenzialità (o sul potere?) della parola poetica quando essa si trova di fronte le idiosincrasie di una neolingua tecnico-burocratica che ricorda vagamente i cupi presagi di Orwell: «Non so dove sei persa lingua / un tempo parlavi mille dialetti / ora balbetti inciampi / sibilante fax a vuoto nella stanza / segreto crepitare che di notte / senza segni di riconoscimento spinge / tra le atone dune, l’implacabile vento». Più poematica la postura di Antonio di Mauro, il quale «accorda il canto dell’attesa col brusio / delle cime agitate dalla brezza mattutina». In particolare, la rilettura giovannea del Verbum caro factum est (Gv 1, 14) diventa occasione – proprio nel senso montaliano del termine – di una poesia che si rivolge alla storia recente del “popolo eletto” (la Shoah) per protendersi comunque verso un futuro salvifico che ha appunto il volto cristologico-filiale della «pietà»: «quando verrà? / […] / allora anche noi bestie di questo / sacro recinto andremo a fare la doccia / prima di avere purificazione nel fuoco / liberati come anime di fumo fuori / dai comignoli, fumo che il cielo non accoglie / anzi disperde…».

La lezione di Montale, sia nel suo primo splendore lirico che negli ultimi risvolti parodici, è ben presente anche a un autore come Sergio Cristaldi, calabrese di origine ma trapiantato culturalmente a Catania, dove presiede il Centro di Poesia Contemporanea della città etnea. La sua raccolta d’esordio, Turno R, vuole essere il consuntivo di una stagione lirica che, pur partendo dalle retrovie, ha ancora il coraggio e la sfrontatezza di porsi un obiettivo ambizioso, una «destinazione» impossibile sulla carta (ma non nei versi): «Il luogo della felicità una faccia». C’è una domanda al principio della scrittura di Cristaldi (Cosa chiedere) da cui il poeta non scappa perché egli sa di essere «fatto per questo momento, / da accogliere o da / pestare con scatti grevi, / lungo la curva cieca che non si evita». E se volessimo continuare su questa direttrice che unisce in una geografia poetica ideale le sponde ionico-mediterranee a quelle liguri, potremmo annoverare qui anche un poeta come Riccardo Emmolo, che rinsangua il “tu” dialogico dell’eredità montaliana (ridotto in condizioni di anemia da epigoni e contrabbandieri vari) conferendogli una corporeità, e quindi un’alterità autentica, fondata sul reciproco ascolto. Ti parlo (titolo di un libro del 2012) non è solo una banale constatazione, bensì l’atto di una coscienza etica che scorge, nella parola, una consegna «gioiosa alla vita / al dolore che brucia e atterra / all’amore che sempre c’invita / a superare il cielo e la terra». I toni non sono per niente intimistici; persino laddove si finge di elogiare sornionamente la comodità dei «divani» rimangono scolpite, infine, affermazioni che hanno una portata universale: «la nostra felicità è uno scandalo / per l’austerità della Storia».

Letizia Di Martino è forse la voce più appartata tra quelle qui presentate. Chiariamo subito però che ciò non va a discredito della sua scrittura, che, prediligendo le strade della poesia confessionale, si allinea agli esiti di una tradizione poetica sicuramente più nota al pubblico statunitense che non a quello italiano. Il lavoro sulle immagini è preponderante e suggerisce uno squarcio che mette a nudo l’intimità dell’Io: «Stiamo lontani, tu in un bosco di scarpe e corridoi io in una casa di stanze e lamenti / Abbiamo le parole, siamo voci che scritte si perdono nella sera». La dimensione psichica dentro/fuori è l’asse portante di molti componimenti, ma dove il corpo riesce a fare breccia in questa dualità i versi di Letizia Dimartino riescono a spiazzare il lettore, il quale viene messo di fronte a un disagio a cui non può che prendere umanamente parte: «Se dovessi pensare che in questo fuori, / […] / dove lo porteresti il corpo mio che spezzo». La scrittura di Franca Alaimo vibra di una potenza parimenti uterina. Il genere, in questo caso, non ha un connotato ideologico, non diviene cioè pretesto per un discorso che vuole marcare una differenza biologico-identitaria, piuttosto esso si connota come spazio dell’accoglienza che genera (o rigenera), come luogo reale e – si direbbe pure – carnale di un abbandono “di fede” all’alterità («tutti entrarono: / i padri, le madri, il figlio, lo sposo») dalla prospettiva di tutte «le ferite del mondo». La poeta sa ascoltare non solo i movimenti impercettibili del proprio corpo-soglia, in un’attesa che ha un sapore messianico di rivelazione e conforto («Tuttavia sto ancora sulla soglia di casa, / la porta spalancata. / Aspetto. / Aspetto»), ma anche il respiro infinito della realtà circostante: «Per un istante illimitato / sono lo Sguardo e la Rosa». E questa possibilità di guardare oltre il proprio io, fuori dalla propria storia personale, è anche la prerogativa dei testi inediti di Saragei Antonini: «Sì piango / è il mio modo di guardare fuori / quando apri piano la porta per vedere se ci siamo». Forte dell’esperienza del dialetto, dove l’autrice distilla le parole con la precisione del «chiodo» che penetra la parete, con la verginità di una lingua adamitica che nomina le cose per la prima volta («pane», «ramo», «sasso», ecc.), i testi in lingua di Antonini mettono sulla pagina un corpo a corpo serrato con una quotidianità intima ma non dozzinale, che implora, anche per mezzo di evidenti echi montaliani, la presenza amorevole di un interlocutore: «mi hai chiesto […] / la mia sigaretta nella tua bocca per ripetere la normalità / mi hai detto che un giorno faremo le scale lentamente / come questo fumo che sale / che il braccio preferito si impara a memoria / e dalla stretta della mano da quale lato del mondo ti ho baciato di più».

La questione della lingua della poesia diventa cruciale per quegli autori che scelgono, per varie ragioni, di deviare dalla tradizione italiana per esplorare le potenzialità espressivo-semantiche del dialetto. Non è lecito dire se il rapporto lingua-dialetto generi una situazione di bilinguismo o di diglossia, soprattutto in quei casi dove un poeta usa entrambi i codici (Condorelli e Pennisi, oltre alla stessa Antonini), così come non ci pare opportuno scomodare categorie sociologiche o, peggio ancora, il vessillo dell’indipendentismo etnico-regionale contro i “centri di potere” del Nord Italia. Ci limiteremo invece, in questo contesto, a far notare che questa fotografia suggerisce un’ulteriore angolazione da cui guardare la poesia che si scrive in Sicilia negli ultimi decenni.

In Salvo Basso, catanese di provincia, il dialetto si emancipa dagli stereotipi populisti che lo vorrebbero avviluppato al folklore e/o al lamento per il “mondo offeso” (E. Vittorini) dell’Isola. La sua poesia disconosce le rivendicazioni epico-ideologiche di chi si arroga il punto di vista (e la parola) del popolo; al contrario, è il tono elegiaco e sfumato che avvicina il lettore ai suoi versi: «A quei tempi / quando il cuore / batteva più / piano scrivevo / di più». La poesia, per Basso, corrisponde al tempo della giovinezza perduta. Genera empatia e tenerezza il modo in cui questo erede isolano di Leopardi guarda indietro, alla storia della propria vocazione per scorgere i segni di una predestinazione intellettuale («Cominciai a scrivere / sicuro di farcela / come sicuri possono / e sanno essere / i ragazzi») che però alla fine si scontra con la solitudine e la desolazione del tempo presente: «per adesso non ho / più niente da dire». In attesa di «scappare dall’altra parte / del campo – / nell’altra rete, in un’altra vita», il poeta riflette allora sull’impatto che egli può avere nella società, sul peso delle parole lasciate sulla carta («scrivo quello che so e penso»). Se c’è un autore in cui la componente metapoetica, intesa come cortocircuito della parola che si interroga sulla propria incidenza nel reale, quello è proprio Salvo Basso. Segue, a distanza, Nino De Vita, cantore di Cutusìu, piccola Macondo poetica sulla costa occidentale della Sicilia. Recuperando la lezione del Verga dei Malavoglia, l’opera di De Vita mette in scena la frattura tra la modernità e il mondo delle tradizioni arcaiche, dei riti e delle feste popolari (’A festa ri morti): un orizzonte che ha la sapienza della terra e viene tramandato da padre in figlio. La scelta del dialetto parlato in questa contrada di Marsala, anche in virtù di un lavoro archeologico che intende salvaguardare un lessico prossimo all’estinzione, diventa perciò funzionale al recupero di una memoria che potremmo definire epica. La cifra di questa poesia è infatti data dall’epos, dal racconto di eventi così come dalla trascrizione di dialoghi presi dalla vita di tutti i giorni. Il cantore e la collettività a cui esso si rivolge condividono lo stesso senso di appartenenza a una storia comune, a radici millenarie e profondissime che si riverberano in gesti umili e concreti.

Sulla stessa lunghezza d’onda, benché con una maggiore attenzione alla storia multiculturale dell’Isola, e quindi alla genesi dell’identità poetica realizzata come pluralità di voci (e di suoni), potrebbe collocarsi anche la produzione di Sebastiano Burgaretta, originario di Avola. Il vento impetuoso della creazione poetica – con evidenti rimandi all’orizzonte testuale della Bibbia ebraica – in-forma il respiro del poeta e quindi scandisce la partitura dei versi: «Solo il vento sa / come viene questa luce grande, / potente, abbrancicante. / Solo il vento sa / da dove spunta furiosa, / per venire, girando, / a investire me». La nascita dell’Io («Mi sento che ci sono veramente. / Sono io: quello che corre / e avvampa tutto il giorno»), contrariamente a quanto si può pensare, non è però un fatto individuale, solipsistico, perché il richiamo della terra, l’autocoscienza dell’humus dal quale siamo stati impastati è di gran lunga più potente: «Chi avrebbe detto a noi, / fango del mondo, / che questa terra tormentata, / calpestata e maledetta da tutti, / si sarebbe fatta ponte e paradiso». La parabola poetica di Burgaretta, ricalcando quella del capostipite siculo-arabo Ibn Hamdîs, «fratello» e «figlio», ci invita a rigettare la vanità e la stoltezza dei muri identitari per abbracciare la via dell’annullamento del Sé, la quale non è poi molto distante da un principio di kenosis evangelica: «Uno straccio voglio essere di cucina, / che si usa per asciugare casseruole / e poi si getta dove cade cade».

Con Biagio Guerrera ci troviamo davanti a una lingua che viene “accordata” come uno strumento musicale: la dimensione orale, strettamente performativa, è infatti il tratto più evidente del suo dialetto che accoglie influssi della zona catanese così come di quella messinese. Guerrera è un poeta dell’ascolto, nel senso che nei suoi testi trovano spazio e luce tutte quelle voci sotterranee (siano esse umane o naturali) che compongono i margini, solitamente invisibili, delle nostre città affollate e assordanti: «Ascolta: / sotto la città corrono acque / sotto la città c’è un’altra città / altre strade, altre case / e mille voci nascoste». Quello che più colpisce della sua poesia è la totale e spontanea aderenza tra soggetto e mondo circostante, senza censure, rimozioni o pregiudizi. In questo modo Guerrera si presenta come poeta lirico, capace cioè di cantare – e non solo di “dire” – le verità della creazione e delle relazioni tra gli esseri umani. «La verità è nel corpo / nel corpo che si prepara all’amore», scrive, perché «solo l’amore lega le parole». E, si badi, non c’è ombra di naïveté in questa conclusione: solo la potenza di un battito che si unisce al battito del mondo.

Singolari, come anticipato, sono i casi di Renato Pennisi e Giuseppe Condorelli, le cui rispettive produzioni si muovono tra dialetto e lingua con situazioni di scambio e di osmosi di grande interesse. La vena ironica del primo, forgiata da un naturale understatement e quindi da uno sguardo obliquo sulla quotidianità, sfocia a tratti in un vero e proprio istrionismo, in una teatralità che trova sfogo nella coloritura espressiva del dialetto. Il ritratto caustico e privo di indulgenza del “poeta assoluto”, il quale più che vivere di poesia è impegnato a soddisfare i propri bisogni elementari («mangia, beve e parla / dice e dice, mezzo ubriaco»), è un esempio lampante. Le modulazioni più nostalgiche, i mezzi toni vengono quindi demandati alla poesia in lingua, che Pennisi padroneggia con precisione cristallina: «Lascio la porta socchiusa / del giardino per sentirmi / meno prigioniero. // Prima che la stagione diventi buia». Più uniforme è invece la voce di Giuseppe Condorelli che, almeno in apparenza, parrebbe non risentire del code-switching. L’impresa di una mappatura heideggeriana del Tempo, tesa a individuare nero su bianco un «criterio» (come recita il titolo di una sua raccolta) per «la conta delle piccole ore / nel labirinto di ogni sussurro», è l’ossessione manifesta del poeta. Il titanismo della questione è però supportato da una dizione che scarnifica la lingua mediante un lavoro certosino “a levare”. In questa direzione, il dialetto – lingua naturaliter poetica più che “lingua madre” – agisce sulla poesia come ulteriore spinta millimetrica a sondare la materia nel suo fondamento pulviscolare, atomico: «quello che rimane / poi / è tutta polvere: / tanta pazienza solo / per rimanere vivi». Se vogliamo definirla con una formula, con un tag, si potrebbe dire che quella di Condorelli è una poesia-crepa sulla superficie del mondo.

Considerazione, quest’ultima, che potremmo sottoscrivere anche in relazione all’opera della catanese Cettina Caliò, la quale all’attività poetica affianca quella di traduttrice dal francese. Con un tocco minimal la poeta si cimenta, nelle sue composizioni, a smussare gli angoli, a cesellare il verso, a renderlo affilato come un bisturi che fa «a brandelli / il giorno» e affonda, prima di tutto, nella propria carne-psiche: «Si fa sottile l’anima / nella precisione del taglio». La sensazione, allora, è quella di muoversi in un territorio dove non solo mancano i punti di riferimento ma in cui si aprono delle voragini che spiazzano e decentrano tanto il soggetto poetante quanto il lettore: «e noi / un dettaglio / in questo panorama che basta / a se stesso». Se la poesia di Caliò mostra, al suo netto, la sismografia di «un presente con gli argini / rotti», l’operazione di Paolo Lisi, di segno inverso, si fa carico di sanare le ferite di un tempo storico vissuto non soltanto nei suoi risvolti privati: «Qui – dove l’ambizione di fermare / il futuro ha messo radici – […] / Ho bisogno / di segnare una rotta inutile / che mi riporti in vita». La poesia di Lisi fa costantemente i conti con un senso di inadeguatezza che l’autore sente e imprime nei versi come una «colpa»; una colpa generazionale, come quella di un figlio che è divenuto padre senza aver riconosciuto preliminarmente il debito di amore e odio verso il proprio genitore. È vero che alla fine, come egli scrive, «rimane l’amore, / nell’immediato. Sopra ogni cosa», ma lo è solo se questo amore, il quale necessita di un apprendistato lungo e faticoso che lo espone continuamente al fallimento, è l’esito finale di una recherche solo «dalle fondamenta».

L’amore, inteso francescanamente come fondamento creaturale, ovvero come l’«aspirazione più alta / del sottosuolo», è la forza che anima la poesia di Grazia Calanna. La sua scrittura nasce infatti come risposta commossa («commuove la vita») allo stupore dell’esistenza nelle sue molteplici manifestazioni naturali. I versi di Calanna possiedono la levità «ascensionale della foglia» e, al contempo, la consistenza geologica della pietra: il «bosco» di parole in cui la poeta ci invita a entrare è uno spazio della relazione in cui siamo chiamati – per non dire sfidati – a riscoprire la nostra origine: «potessi credere come il fiore scarmigliato / che sfida l’asfalto, potessi crescere come il / sogno che sfama l’aria, potessi ma non sai». La distanza tra un “qui e adesso” e un luogo remoto a cui forse si è appartenuti, una volta, è il denominatore delle poesie di Francesco Balsamo. La nostalgia di una caduta che potremmo definire edenica, aggravata dall’insostenibilità del lascito di questa esperienza traumatica («voliamo, ma a fatica / […] / nella caduta l’importante è lasciare che brilli / la parte più leggera di noi») si riversa in maniera ambivalente nella scrittura del poeta: «scrivere è come segare uno specchio a metà». Rispetto al flusso vitale – per dirla con Bergson – il poeta, vale a dire colui che registra questo scarto minimo ma irriducibile rispetto alla vita, viene a trovarsi in una posizione liminare, scomoda. Egli non ha patria e non ha requie, nemmeno davanti a un foglio bianco; «stare di qua, ma sentirsi di là dal muro» è una condizione che la scrittura riscatta solo in parte: «scrivere è raccogliere quello che manca e passare di corsa ad altro».

Una prospettiva diversa su ciò che significa distillare la lingua della comunicazione per organizzarla secondo una logica che ricerca un senso diverso da quello universalmente riconosciuto ci viene data da una poeta dell’area palermitana: Patrizia Sardisco. In un testo che è un manifesto di poetica ella confessa di «usurare / la lingua» per «torcerla al verso», ma questa costrizione ci porta in un territorio straniero dove non è scontato che il verbum corrisponda a una res: «dico / qui riconosco un guado, ve lo mostro / ma non si guarda, non si sente un ponte / lo si passa». Il lettore può soltanto affidarsi e attraversare questo spazio, vale a dire correre il rischio dell’incomprensione, forse cadere nelle voragini di un significato che si frantuma e si moltiplica in tante schegge di vetro. A questo lettore, non ingenuo e anzi partecipe, spetta il compito di forzare, se è il caso, questa lingua e di entrare quindi nella poesia armato di «un apriscatole / un affilato arnese / di parole / per arrivare al cuore».

Da una riflessione di carattere neurolinguistico muove invece la poesia di Margherita Rimi. La poeta, che esercita la professione di neuropsichiatra infantile, propone nei suoi testi l’uso di una lingua poetica dell’infanzia, in forza del fatto che questa età viene considerata come il luogo verbale in cui aggallano traumi e storie relative a un’identità psicofisica violata. «Il Dio dei bambini / che non cancella le loro parole» diventa, nella poesia di Rimi, il garante linguistico e – aggiungiamo noi – poetico di una comunicazione che parte dall’origine del male «che hanno fatti i grandi» per risanare le ferite che si celano dietro «le voci dei bambini». Il compito civile di quest’opera è innegabile: dare ascolto e poi parola a chi è rimasto intrappolato nella propria “selva oscura” e da lì non riesce a uscirne; mostrare, infine, «come risulta il mondo alle domande / quando alla fine non diventano parole». Un’esperienza, questa che potremmo definire del margine, cioè del sentirsi esclusi dagli altri e ancor prima da sé stessi, che ritroviamo, potentemente declinata, anche in Fernando Lena. «Questa volta il mondo me lo lascio dietro», scrive l’autore comisano, come se la sua fosse una poesia di postumi, di lesioni, di un allontanamento irreversibile da un centro ombelicale, materno, che probabilmente coincide con la sua idea dell’Isola. Cos’è infatti la sua Black Sicily se non un arché, un principio dove il «vento strano / che a volte ti picchia nella solitudine / […] / può raggiungere l’infinito» e quindi convivere con «il marcio della storia»? Ma, conviene dirlo subito, non c’è indulgenza e non ci sono né “coppole” né “lupare” alla The Godfather in questa rappresentazione dark. Così come il buio e il lutto non sono pose poetiche. La poesia di Lena, tutto all’opposto, trasuda invece un vissuto doloroso, la lacerante domanda di senso di chi «chiederà il conto / a una Madonna che di poveri cristi / ne ha messi al mondo, anche uno / con il mio fottutissimo nome».

E ce ne ricorderemo, quindi, di questo nome e di quello di tutti i poeti la cui opera abbiamo provato qui ad attraversare brevemente, nella speranza di aver invogliato il lettore ad accompagnarci o – perché no? – anche a deviare dal percorso tracciato. Eventualità più che lecita. Noi abbiamo solo provato ad indicare alcune strade, ad abbozzare direzioni, forse anche ad asfaltare alcune carreggiate in certi momenti; ma il primo passo, in ogni caso, spetta sempre a lui.

Il testo è la versione in lingua italiana dell’Introduzione di Pietro Russo a Un’antologia multilingue della poesia siciliana, curata insieme ad Ana Ilievska, di prossima pubblicazione negli Usa per i tipi di Italica Press. Le citazioni dagli autori qui presentati sono quindi tratte da opere già edite o (in molti casi) inedite incluse nel volume.

Foto di Pietro Russo

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