Elementi pedagogici della Scuola di Francoforte

di Alberto Giovanni Biuso

1. Filosofia e critica

Tesi sempre feconde, quelle della Scuola di Francoforte. La loro capacità di svelare alcuni dei meccanismi più intimi e nascosti delle società stimola ad andare oltre l’ovvio, l’acquisito, la perfetta normalità, per cogliere invece in ogni dove la realtà del potere. Per chi ama la filosofia, poi, è un vero piacere seguire la difesa appassionata e accorta che Adorno, Benjamin, Horkheimer, Marcuse conducono di essa contro ogni atteggiamento riduzionistico, positivistico, antintellettuale. Nel caso dell’Uomo a una dimensione si aggiunge, inoltre, l’interesse per l’enorme successo e l’influenza profonda che questo libro sembrò esercitare nelle scuole e nelle università lungo gli anni Sessanta, fino a essere considerato una sorta di testo ispiratore e guida ideologica del Sessantotto. A più di mezzo secolo di distanza è opportuna, tuttavia, una domanda: fino a che punto fu legittimo l’uso di Marcuse da parte del Movimento studentesco?

2. Marcuse

Adorno e Marcuse difendono una filosofia forte, dicono di parlare in nome della Ragione contro un sistema sociale irrazionale; si spingono persino ad apprezzare gli strumenti che la civiltà produce «per liberare la Natura dalla sua brutalità, dalla sua insufficienza, dalla sua cecità, in virtù del potere conoscitivo e trasformatore della Ragione»[1]. La dimensione dialettica che pervade la riflessione dei Francofortesi rivela sùbito la dinamica hegeliana della contraddizione che oltrepassa l’esistente. Infatti, la stessa Ragione che può liberare dal bisogno e dal male può anche asservire a nuovi bisogni, a nuovi mali: «L’Illuminismo, nel senso più intimo di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura»[2]. L’ambiguità della tecnica, come di ogni altra manifestazione umana, viene ridotta nell’era della società industriale avanzata alla sola dimensione del progresso, fatto coincidere a sua volta con la produzione di una quantità enorme di beni. Insomma, «questa società cambia tutto ciò che tocca in una fonte potenziale di progresso e di sfruttamento, di fatica miserabile e di soddisfazione, di libertà e di oppressione»[3]. Già questo rifiuto di demonizzare le manifestazioni più negative del sociale si pone certamente contro la superficialità acritica di ogni pensiero positivo ma si pone con altrettanta forza contro ogni fanatica condanna del reale soltanto perché reale.

È chiaro, infatti, che l’ispirazione hegeliana della Scuola di Francoforte non può accettare una condanna del presente in quanto tale, come non può che respingere ogni sua semplice apologia. Per Marcuse il filosofo non è un medico, non ha il compito di guarire gli individui ma soltanto quello di comprendere il mondo in cui essi vivono, capire la realtà che hanno costruito. E tuttavia la filosofia non sorge sul far del crepuscolo, non si limita a prendere atto del reale. Il fatto stesso di comprendere ciò che accade è l’inizio del suo superamento. Questa dimensione propulsiva del sapere è assente da posizioni come quelle neopositiviste e analitiche, nello scientismo riduzionistico e in una filosofia del linguaggio che si limiterebbe a consacrare il dominio dei luoghi comuni. Contro Austin e Wittgenstein, per i quali il pensiero «lascia tutto come si trova», contro ogni tentativo di ridurre il campo e il compito della filosofia, Marcuse difende l’astrattezza del concetto dalla banalizzazione del linguaggio quotidiano: «La filosofia condivide tale astrattezza con ogni pensiero autentico poiché chi non astrae da ciò che è dato, chi non collega i fatti ai fattori che li hanno prodotti, chi non disfà i fatti nella sua mente, in realtà non pensa. L’astrattezza è la vita stessa del pensiero, il segno della sua autenticità»[4].

Il linguaggio delle masse e dei media, infatti, questo presunto parlare della gente, è perlopiù «il linguaggio dei suoi padroni, dei benefattori, degli agenti pubblicitari» e quindi coloro che pretendono che l’informazione non sia «al di sopra della comprensione del popolo» ignorano la necessità di un linguaggio critico «difficile» con il quale smascherare l’ideologica ovvietà del parlar facile[5]. Allo stesso modo, Marcuse respinge la riduzione del tempo alla unidimensionalità del presente e rivendica il valore critico della memoria, la necessità di opporre la complessità della storia al semplicismo dell’odierno.

Il segno comune alla teoria critica, nella Dialettica dell’Illuminismo come nell’Uomo a una dimensione, è quindi l’analisi della progressiva massificazione che domina le società contemporanee. La devastazione dei totalitarismi e il consumismo occidentale – oggi potremmo parlare di forme ideologiche quali il globalismo e il politicamente corretto – sono modi diversi di dissoluzione del pensiero individuale, assorbito dalla comunicazione e dall’indottrinamento di massa. L’opposizione al capitalismo diventa opposizione alla impossibilità di rimanere soli: «la maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni»; «La solitudine, la condizione stessa che sosteneva l’individuo contro ed oltre la sua società, è divenuta tecnicamente impossibile»[6].

È sempre in questo quadro che si inserisce l’illuminante analisi dei media e della decisiva funzione che essi svolgono nella società di massa. Essi totalizzano. Presentano, cioè l’attuale come la sola possibile forma di esistenza. Di più: creano questa forma tramite una sottile, costante, infinita manipolazione delle menti e suscitano i falsi bisogni senza i quali l’imponente apparato produttivo girerebbe a vuoto, inceppandosi. La pubblicità è quindi la forma contemporanea del dominio. Milioni di individui, oggi, non potrebbero vivere se li si privasse del giocattolo televisivo:

«Si prenda un esempio (sfortunatamente fantastico): la semplice assenza di ogni pubblicità e di ogni mezzo indottrinante di informazione e di trattenimento precipiterebbe l’individuo in un vuoto traumatico in cui egli avrebbe la possibilità di farsi delle domande e di pensare, di conoscere se stesso (o piuttosto la negazione di se stesso) e la sua società. […] È certo che una situazione simile sarebbe un incubo insopportabile. […] L’arresto della televisione e degli altri media che l’affiancano potrebbe quindi contribuire a provocare ciò che le contraddizioni inerenti del capitalismo non provocarono – la disintegrazione del sistema».[7]

Il linguaggio televisivo abitua a un approccio iconico alla realtà. Il fluire inarrestabile delle immagini ostacola sempre più lo sviluppo e l’espressione dei concetti e cioè impedisce di pensare. Il concetto infatti, contrariamente all’immagine, separa la cosa e la funzione. L’universo iconico è il trionfo della finzione, l’immagine manipola i bisogni per conto di interessi costituiti. Come altri critici della società di massa – Tocqueville, Nietzsche, Le Bon, Ortega y Gasset –, i Francofortesi individuano nel numero, nell’orrore del pieno, la manifestazione del rischio supremo che sovrasta le società: la distruzione della persona nella melma della massa. Marcuse cita persino Stefan George e il suo Schon eure Zahl ist Frevel! – ‘Il vostro numero è già un crimine!’ – e descrive con ribrezzo l’espansione delle forme di lavoro, della vita di comunità, del divertimento affollato che ha eroso «lo spazio interiore della sfera privata ed ha praticamente eliminato la possibilità di quell’isolamento in cui l’individuo, lasciato solo a se stesso, può pensare e domandare e trovare»[8]. Anche per Marcuse la possibilità di una autodeterminazione reale ha come presupposto il dissolvimento delle masse «in individui liberi da ogni propaganda, indottrinamento e manipolazione, capaci di conoscere e di comprendere i fatti e di valutare le alternative»[9].

3. Dialettica e pedagogia

La convinzione della storicità di ogni forma sociale convive quindi con la percezione di un male radicale che va espresso per impedire che esso «coperto dal silenzio, possa continuare indisturbato»[10]; la componente escatologica – fortissima – sgorga da un disincanto intimo e pessimistico sulla condizione degli uomini nell’era tardo capitalistica. La critica dell’individualismo, che vorrebbe separare l’emancipazione dell’io da quella della società, si coniuga a un pathos della distanza continuamente mostrato e vissuto. Questi pensatori rifiutano la tendenza dello spirito ugualitario ad abolire le convenzioni, le forme, l’educazione nei rapporti fra gli individui, tendenza intimamente brutale poiché consacra la pura esteriorità della relazione reciproca; arrivano a dire che «per l’intellettuale, la solitudine più scrupolosa è la sola forma in cui può conservare un’ombra di solidarietà»; identificano l’ultima chance del pensiero nella ricerca di ciò che in una società di individui tutti conformi non è stato ancora assorbito, affidato alla banalità, consunto. Ai rischi e alla violenza di un’«astratta eguaglianza degli uomini» oppongono «la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze», che riconosca la diversità come valore[11].

La Scuola di Francoforte giudica un banale ma grave fraintendimento la speranza in un edonismo tecnologico e liberatore e riafferma con Marx che «la fatica non può diventare gioco»[12]. Ciononostante Marcuse confida che l’ampliarsi del tempo libero – liberato tramite l’automazione delle attività produttive dalla sottomissione alla necessità – apra la storia a una nuova civiltà e trasformi gli uomini in ciò che sono: enti generici, individui universali. Marcuse cade quindi nella fatale ingenuità di ritenere che liberati dal lavoro coatto e dalla sovrastruttura massmediologica che lo sostiene, gli umani si daranno alla lettura, alle arti, a una festosa e genuina socializzazione. Ma basterebbe uno sguardo disincantato alle masse di ieri, di oggi e di sempre per comprendere che private troppo a lungo di una attività vincolante esse morirebbero di noia, disperazione e teppismo.

Marcuse certamente sembrò dare nuovo slancio all’idea rivoluzionaria indicando al di là del proletariato, divenuto ormai conservatore, il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili quale soggetto storico nuovo e capace di dare vita al ‘Grande Rifiuto’. E tuttavia in questo auspicio opera più l’ottimismo della volontà che il pessimismo di una ragione senza illusioni e affascinata assai più da ciò che definisce «‘dittatura educativa’, da Platone a Rousseau», nella lucida consapevolezza che «il terribile rischio che essa comporta non è detto sia più terribile del rischio che le grandi società liberali, al pari di quelle autoritarie, vanno ora correndo, né è detto che i costi siano molto più elevati»[13].

Non è da queste analisi che discendono quindi i più diffusi, consunti ed errati luoghi comuni di una pedagogia sedicente progressista e delle corrispondenti pratiche didattiche ‘antiautoritarie’ ma dalle opposte tesi del funzionalismo e del behaviorismo statunitense. Molti insegnanti ‘democratici’ sono quindi vittima di una ironica (come sempre) eterogenesi dei fini.


[1] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, (One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, 1964), trad. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 1991, p. 247.

[2] M. Horkheimer – T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo (Dialektik der Aufklärung, 1944), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1982, p. 11.

[3] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 96; i corsivi sono di Marcuse.

[4] Ivi, pp. 149-150.

[5] Ivi, p. 205.

[6] Ivi, pp. 25 e 90.

[7] Ivi, pp. 254-255.

[8] Ivi, p. 253.

[9] Ivi, p. 261.

[10] T.W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa (Minima moralia. Reflexionem aus dem beschädigten Leben, 1951), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1994, af. 149, p. 285.

[11] Ivi, af. 5, p. 17 e af. 66, p. 114.

[12] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 249.

[13] Ivi, pp. 59-60.

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