Dissipatio e resistenza. Nella luce di un virus

di Marcosebastiano Patanè

1. Teoresi, corpo, Vita

Disvelamento. Nella luce di un virus è un esempio di teoresi filosofica orientata alla resistenza, resistenza al terrore/potere che ormai governa solo in virtù di un’emergenza dalle mille forme, economica, sanitaria, umanitaria, politica, climatica, e che così facendo non manca di ricordare ogni giorno attraverso i suoi organi di comunicazione, il più potente dei quali rimane la televisione, chi è il vero padrone, a chi è necessario che si sacrifichi ogni cosa. «L’autorità è il terrore», per i regimi moderni un terrore «a bassa intensità»[1] ma pur sempre terrore. Per questo motivo, Disvelamento è un testo che si configura anche come un rischiaramento di una quotidianità sempre più disperata, sempre più caratterizzata dal panico e dalla paura.

Disperazione, panico, paura, elementi che stanno all’opposto della comprensione, che inibiscono ogni teoresi. «θεωρία è anche ricondurre ogni percezione, ogni giudizio, ogni concetto alla loro scaturigine dall’esperienza immediata che il corpo ha di esserci e mostrare da dove la θεωρία stessa si generi […] la θεωρία è dunque sempre genetica»[2]. La teoresi viene secreta da un «corpomente» che si sa e che si comprende come ente spaziotemporale facente parte di un Intero. Questa dimensione fenomenologica dell’essere al mondo, être au monde, e dell’essere nel mondo, in-der-Welt-sein, è la dimensione dell’apertura archetipica di un corpomente.

Se poi la teoresi secreta da un tale être au monde si incarna, come nel caso di Disvelamento, in una teoresi filosofica, essa sarà radicalmente altro rispetto agli altri saperi, sarà qualcosa di primo e di ultimo, primo perché radicata nella «finitudine costitutiva dell’ente che pensa», ultimo «perché è il luogo delle risposte più radicali ed estreme, le ultime che sia possibile tentare»[3].

A caratterizzare certamente la Weltanschauung dell’uomo contemporaneo – tra gli altri – è il concetto di “nuda vita”. La nuda vita, è bios, solo bios, bio-chimica, è il reale ridotto alle lenti del microscopio. Accanto a essa è possibile collocare un secondo concetto, un concetto che forse descrive in maniera ancora più profonda i confini della conoscenza di sé dell’uomo contemporaneo, del suo pensarsi, e cioè l’operazionismo[4], un vero e proprio paradigma fondativo del pensiero contemporaneo che riconosce in ciò che si può fare ciò che si deve fare, l’alfa e l’omega di ciò che può essere pensato e di ciò che può essere compiuto, manifestazione di quella metafisica del progresso[5] al cui altare può essere sacrificata ogni cosa, ogni pensiero, ogni differenza.

Il concetto di nuda vita si configura allora come un corollario naturale e pervasivo di tale dinamica profonda. Se il reale non è altro che un manipulandum, infatti, allora anche il Leib non può che essere Körper. Ma cos’è la Vita contrapposta alla nuda vita? La Vita è Zωή, cioè

«la vita in quanto tale, la vita tutta intera, il crescere degli alberi, lo schiudersi delle uova, il brusio degli insetti, il silenzio dei rettili, il volo; lo sperma e l’ovulo dal quale emergono i nuovi viventi. Βίος è ciascuno di questi enti […] gli animali sociali sono βίοι dentro la Zωή. Al di fuori di essa non esistono, non possono esistere. Sta qui la radice di ogni sapienza teoretica e di ogni saggezza prassica. In qualunque modo poi esse si esprimano. Che si tratti del λόγος ellenico, delle forme induiste, del sorriso del Buddha o dell’animismo africano e amazzonico, sempre in queste culture e civiltà l’Intero è stato oggetto di rispetto e spesso di venerazione»[6].

Se molte culture e civiltà presenti e passate questo lo sanno ancora, «la frattura è invece tutta dell’Europa moderna, di un eccesso logico che invece di rimanere lo strumento del sacro – come nel platonismo, ad esempio – ha preteso di sostituirsi a esso […] uno dei tanti abitanti dell’οΐκος, della casa che ospita tutti i viventi, si è illuso di poter distruggere l’abitazione che gli dà senso, vita e riparo e poter però ancora vivere»[7].

L’umanità è nel mondo come όλος, un insieme, dentro l’οΐκος, la casa comune dei viventi. L’uomo abita la propria casa prima di tutto con il proprio corpo, o, sarebbe meglio dire, con il proprio corpomente, una declinazione della corporeità animale. Secernere cultura, come un ragno tesse la propria tela, è la caratteristica dell’uomo. La cultura tuttavia non colma una carenza, essa è un ripiegamento del magma della Zωή il cui contenuto sono le relazioni che l’antroposfera intesse con la zoosfera, la tecnosfera e la teosfera. Non un mero oggetto, non uno strumento antiquato, un hardware imperfetto da sostituire, non un device da manipolare.

2. Potentia e Potestas

La corporeità è prima di tutto un poter fare, un «Io posso» secondo le analisi fenomenologiche di Merleau-Ponty, una totalità olistica di possibilità motorie e intenzionali inserita in un ambiente formato da altrettanti campi in sinergia tra di loro. La corporeità è la radice imprescindibile della progettualità, dell’esserci, della possibilità del senso e dunque anche della libertà politica, «una libertà che fonda la politica e senza la quale i regimi sono e diventano tirannici, qualunque nome diano a se stessi, compreso quello di democrazia. Quest’ultima è in Spinoza profondamente legata al fatto che l’umano costituisca una struttura corporea limitata nel tempo, consapevole della propria finitudine ma non per questo abitatrice del panico. Il dispositivo fondamentale dell’autorità tirannica, di ogni regime dispotico, è invece ed esattamente la paura della morte che diventa pensiero ossessivo del decesso. Si tratta, per l’appunto, del dispositivo politico indotto dal Covid19»[8].

In altri termini, «il corpomente è potentia opposta alla potestas»[9]. Βίος, informazione e potestas e cioè, rispettivamente, la dimensione del Körper, la dimensione dello spettacoloe la dimensione del potere, potere che dispone all’uso della manipolazione tecnica i suoi sudditi, il suo ambiente, il pianeta intero. I regimi politici contemporanei sono caratterizzati da una massa di abitanti senza precedenti e da tecnologie incomparabili rispetto al passato. La combinazione di questi due fattori, come certamente di molti altri, uniti all’essenza profonda della natura del potere che si esprime nella volontà smisurata di perpetuare i propri organi di dominio, hanno scatenato una pulsione di controllo che ha trovato nella dimensione sanitaria uno sfogo imponente.

Il potere è sempre, seppur con intensità variabili, paranoico; la massa, la massa viva, elettrica, che con il potere si rapporta, è sempre cangiante; l’individuo è smarrito, solo, o fuso con i corpi dei suoi simili. Centrale a tal proposito è l’analisi delle tesi di Elias Canetti:

«Di fronte alla massa, suo prodotto? Suo nemico? Canetti non sembra chiarirlo del tutto, sta il potere, la cui natura è in primo luogo biologica e consiste nell’afferrare ciò che sta davanti e a disposizione, mangiarlo, incorporarlo e annientare così ogni diversità rispetto a colui che divora. In ogni luogo e ovunque appaia, che cosa è il potere? “L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza”. Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico supersiste di fronte alla distruzione dei suoi simili […] “Il più antico ordine – impartito già in epoca estremamente remota, se si tratta di uomini – è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire. Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine fra gli uomini”, sarà bene pensarci quando si ritiene che gli ordini dei potenti vengano emanati a salvaguardia delle vite individuali e collettive».[10]

E infatti, è ormai ampiamente riconosciuto, anche se molto spesso solo tacitamente e non senza difficoltà da parte di chi ha creduto e si è fidato, da parte di chi ha avuto fede, di chi ha sacrificato e obbedito, che gli ordini in materia di gestione del SarsCov2 abbiano condotto a esisti mortali per i cittadini, «a cominciare dal divieto di alcune tipologie di cure del tutto efficaci in alcune parti del mondo e che invece in altre, Italia compresa, sono state proibite […] Non a caso lo strumento e la tonalità del potere è per Canetti la dissimulazione, il silenzio sulle proprie reali intenzioni, il segreto indicibile, il moltiplicarsi delle maschere, la finzione […] Ogni ordine è parte di questa morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare soltanto trasmettendo a un altro lo stesso identico comando»[11]. Come il proprietario di un teatro che avendo ricevuto la spina del comando può esorcizzarla solo conficcandola nelle carni di un’anziana che, pur avendo obbedito anch’essa, di fatto, agli ordini, non può far mostra dell’esatta tipologia di prova che viene richiesta dall’autorità, quella che innesca il led verde dello smartphone dei controllori. E così si diffonde «la natura patologica dell’autorità»[12].

3. Crisi e trionfo

L’uomo in piena «crisi antropologica», caratterizzato da una vera e propria Stimmung della rinuncia, della dimenticanza e della paura, ripone una «cieca fede nell’onnipotenza degli stati anche nei confronti delle malattie, della finitudine, del morire»[13], la cieca, disperata, fede di chi non ha altro orizzonte se non quello di continuare ancora un poco, ancora un altro istante, la cecità di chi «“quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire”»[14]. Milioni di don Abbondio e milioni di anime nere, una moltitudine di «spente esistenze» che «hanno visto in tutto questo l’occasione per imporre il proprio vuoto alla pienezza di altre vite, il proprio buio ai viventi nella luce, la propria sottomissione ai liberi. La servitù non è stata soltanto volontaria ma anche felice, convinta, complice. Pubblicamente rivendicata. Vale a dire totale. La comunicazione ossessiva è diventata il silenzio della ragione, che ancora una volta ha generato mostri»[15].

Mentre “ciò che si doveva fare” era già molto chiaro prima di Sars2, poiché «l’emergenza – per un virus molto contagioso ma poco letale – sta nell’assenza di posti letto, di macchinari, di personale medico»[16]. Cosa, invece, è stato fatto? Il contrario di ciò che è sano antropologicamente: bandita la consolazione dei morenti, l’ultimo contatto, l’ultimo sguardo, l’ultima parola.

Quando se non nel XXI secolo, il secolo del progresso, il secolo dei diritti, il secolo che più di tutti si fregia della parola “umanità”, evidentemente il secolo più bugiardo, quando, se non oggi, avrebbero potuto fiorire rigogliosi tipi umani la cui natura oscilla tra la ϋβρις di un Creonte e l’infamia di un Klin, tra l’ignavia di Ismene e l’ignoranza mortifera, la stupidità senza appello, degli studenti di medicina del XIX secolo che infilavano le mani nelle puerpere subito dopo aver avuto a che fare con dei cadaveri.

«“Cadaveri e maternità […] Nella più povera capanna polinesiana, nella più miserabile tenda beduina, un simile vomitamento di materie cadaveriche nelle vulve fertili sarebbe stato punito con la morte. Quale ostetrico egizio, siberiano, tolteco o pellerossa avrebbe mai osato toccare una puerpera con mani fresche di un contatto con un parente, uno sciacallo, un cane, un rospo, un topo morto? Solo l’Ostetricia europea del secolo più illuminato e più raffinato (assassini! Gridava Semmelweis agli ostetrici europei) è stata capace di elevarsi a tanto (119-120)” […] Davvero “troppo poco si sa dei morti (121)” ma quel che si sa è sufficiente a capire che i morti sono un dominio altro, sono la grande alterità che va onorata nella memoria e rimossa nella materia, che va bruciata, assai meglio che interrata, che va lentamente obliata affinché il suo essere stato si stagli nella luce della fecondità e non nell’impossibile nostalgia dell’essere ancora […] Ogni contatto con la morte ha bisogno di attente mediazioni simboliche e materiche […] Una scienza che ignori tali evidenze è soltanto una raffinata forma di ignoranza, l’ennesima espressione del dualismo che separa σωμα e ψυχή, ritenendo che il soma possa essere soltanto soma e non anche forma ed espressione dell’intero».[17]

Trionfo della disperazione di chi rimane, trionfo di un orrore sordo, trionfo di un tessuto sociale che si sfalda, si sclerotizza, si imbruttisce, trionfo del dolore e dell’angoscia. Trionfo della nuda vita, la vita desacralizzata, e dell’operazionismo, il pensiero svuotato, la logica che non riconosce più le proprie radici, trionfo della perdita di quella «consapevolezza fondativa del mondo che abitiamo»[18], il nascondimento di quel Boden che questa consapevolezza dà al mondo perché lo riconosce nel cosmo.

Trionfo del corpo come res extensa, come materia umida, la wetware di cui parlano i movimenti transumanisti ed estropiani, una materia di cui avere orrore, orrore per la sua debolezza, per la sua caducità, per le sue carenze cognitive, fisiche, per la sua costitutiva mortalità, cioè per la sua durata limitata.

Trionfo del disconoscimento della condizione di mortali e cioè l’esatto contrario della saggezza, disconoscimento del Limite che intride la materia, il Limite di cui la materia è costituita in quanto tale. Nel celebre frammento di Anassimandro si può leggere infatti: «Principio degli enti è l’infinito (l’energia/campo il suo divenire…) Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la dissoluzione in modo necessario: le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine, al sorgere dell’una l’altra deve infatti tramontare. E questo accade per la struttura stessa del Tempo»[19].

Trionfo della parola. La parola, il linguaggio, evento che non opera su uno sfondo di nulla e non emerge dal nulla ma opera su uno sfondo a sua volta di parola, nelle pieghe di un tessuto in cui l’individuo umano nasce e dal quale egli viene posseduto. Come l’acqua non è prodotta dai pesci come loro strumento per la vita, così la parola non è prodotta dall’uomo come strumento di comunicazione, di pensiero, di socializzazione. Come i pesci nascono, crescono, vivono e muoiono nell’elemento acqueo che era lì prima di loro, sia in senso cronologico che ontologico, e il loro essere così come sono è naturalmente determinato dall’acqua, così l’uomo nasce nella parola e dalla parola è “parlato” quando la parola significa qualcosa e non è chiacchiera, parola quotidiana, parola che ha perso il contatto con il suo potere significante.

«Per una specie come la nostra le parole sono tutto»[20], semplicemente tutto, ed è chiaro che «al centro dell’accadere non c’è soltanto un virus più o meno pericoloso […] al centro c’è il linguaggio, ci sono le parole. Neologismi, risemantizzazioni, parole d’ordine ossessivamente ripetute sono dei pericolosi virus che hanno infettato il corpo collettivo: confinamento, coprifuoco, mascherine, fragili, webinar, dad, distanziamento sociale, lockdown è molto altro […] è necessario opporre alle parole della paura, della sottomissione, dell’inganno, dell’autorità, altre parole, più antiche, più dense, più corrispondenti alla storia contemporanea, a quanto sta accadendo»[21].

4. Dissipatio e resistenza

Le parole della pandemia ci confinano dentro un vero e proprio continente dal quale è necessario uscire, un luogo caratterizzato anche da un estremo sentimentalismo al servizio della sfera del potere, una sfera incarnatasi in una «festa paternalistica»[22], la festa dello Stato che si declina come Stato etico che a sua volta «prende la forma di uno Stato psicologico/psichiatrico […] uno Stato psicagogico, uno Stato dispotico»[23]. Ma d’altronde «mò ce stà ‘o virùss»[24].

E tutto questo con quali risultati? Per esempio «“è diventato così ‘legale’ impedire a un malato di cancro alla fine della vita di vedere per l’ultima volta i suoi amici, di isolare da qualsiasi contatto umano i pazienti che soffrono di depressione o gli anziani nelle case di riposo, di rifiutare a un moribondo la possibilità di abbracciare i suoi cari prima del trapasso, di costringere una donna in travaglio a passare i dolori del parto soffocando nella mascherina, di rimandare i bambini maltrattati presso i loro genitori violenti. Per gran parte del personale sanitario, questa è stata un’altra opportunità di obbedire e adattarsi, dando prova di ‘resilienza’ e ‘agilità’”»[25].

La civiltà europea è una civiltà allo sbando. «Nessun civiltà era arrivata a tanto»[26] cioè a separare i malati e i morenti dai propri cari, a isolare e rinchiudere i sofferenti, a strattonare i propri giovani da una parte e dall’altra, prima lusingati, poi additati come untori, i killer dei nonni. «Nel trattamento rivolto ai vecchi e ai giovani serpeggia dunque una concezione sacrificale dell’esistenza, un memento mori non certo declinato come consapevolezza della nostra finitudine ma come sentimento di terrore e di colpa»[27].

La filosofia conosce benissimo la continuità tra la Vita e la Morte e sa altrettanto bene che la volontà di cancellare la Morte dal continuum diveniente dell’Intero materico costituisce un atto di ϋβρις imperdonabile, il desiderio degli umani di annullare la differenza e installarsi nell’eternità dell’identico. «Nell’oscillazione della stirpe umana fra il nulla, l’inquietudine e la morte, si delinea la tragicità di una condizione che però conosce se stessa e solo in questo suo sapersi può trovare un senso che non c’è ma che è dovere inventare» [28].

Trionfo della morte «è la negazione ossessiva è insensata del morire»[29]. Il rifiuto della mortalità è il rifiuto del Limite, è il rifiuto della corporeità, è il rifiuto del decreto del Tempo, della sua necessità, secondo cui sorge e tramonta ogni ente, è la dimenticanza dell’Intero, è rifiuto della differenza, è, in altri termini, la desacralizzazione del mondo, e cioè «lo sgomento per la sua misura mortale e finita»[30].

Per liberare il corpomente dalla paura è necessario abbracciare un pensiero che faccia della misura la sua cifra essenziale, come ha saputo dire Nietzsche; infatti, «uno dei più importanti contributi di Nietzsche alla comprensione dell’esistenza umana consiste […] in una apologia della misura nei pensieri e nelle azioni. Tramite essa diventa possibile sottomettere l’eccesso, che pur è presente nella natura umana, non attraverso la dismisura del sacrificio», sacrificio del sapere della scuola della socialità dei rapporti della libertà di movimento della libertà di espressione dell’equilibrio psicofisico del tocco del respiro, «ma mediante una razionalizzazione che conduca al disincanto sugli eventi umani e al godimento del presente», l’emancipazione «dall’angoscia che l’infodemia da SARS-CoV-2 instilla nelle persone e diffonde nel corpo sociale»[31].

A governare il mondo non sono gli scienziati, non sono gli apparati statali, non sono gli strumenti dell’uomo, né ora, né in futuro, qualsiasi grado di manipolazione raggiungeranno gli umani nei confronti del loro ambiente. A governare il cosmo sono delle forze-strutture «al di sopra degli antichi Titani, al di là dello stesso Zeus e dei suoi fratelli che dominano il mare e la terra, i veri signori del mondo […] hanno nome Ερινύες, Μηνις, Ατη, Μοιραι, Ανάγκη. Essi sono le forze che involvono distruzione a distruzione; che trasformano le vite, gli imperi, le passioni umane; che gorgogliano dalla materia e non lasciano scampo al suo stare, al permanere, alla fissità dell’istante, del potere, della gioia e del dolore. Il vero signore del cosmo è Χρόνος, il divenire infinito, che assume le sembianze narrative e mitologiche di Κρόνος, figlio del Cielo e della Terra, padre di Zeus»[32].

Certamente, la vita è intrisa di dolore e sofferenza e sarebbe meglio per gli uomini non essere mai nati o, una volta nati, ritornare il più velocemente possibile da dove si è venuti. «»Il mondo fa male ci devono essere dei motivi. Se si conoscono questi motivi, si può far tornare tutto al suo posto”»[33]. «Una pura fenomenologia dell’esserci»[34], una constatazione comune a numerose prospettive gnostiche, induiste, buddhiste.

Comunque, sarebbe bene perlomeno provarci, provare a perseguire la conoscenza, a essere liberi, provare a restare nella luce, anche nella luce di un virus, in ciò che esso può svelare e ha svelato,per non vivere nel terrore, perché «in questo consiste essere uno schiavo»[35].


[1] A.G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, Algra Editore, Catania 2022, p. 38.

[2] Id., Aión. Teoria generale del tempo, Villaggio Maori Edizioni, Catania 2016, p. 13.

[3] Ivi, p. 15.

[4] Sul concetto di operazionismo cfr. E. Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, Quodlibet, Macerata 2017; M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (L’Œil et l’Esprit, 1960), trad. di A. Sordini, SE, Milano 1989.

[5] Cfr. le opere di Jean-Claude Michéa.

[6] A.G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, cit., p. 27.

[7] Ivi, pp. 27-28.

[8] Ivi, p. 40.

[9] Ivi, p. 39.

[10] Ivi, p. 68.

[11] Ivi, pp. 68-69.

[12] Ivi, p. 69.

[13] Ivi, p. 13.

[14] Ivi, p. 10.

[15] Ivi, p. 93.

[16] Ivi, p. 13.

[17] Ivi, pp. 82-83. Biuso riporta qui una parte del prezioso saggio di G. Ceronetti che accompagna il celebre testo di Céline Il dottor Semmelweis.

[18] E. Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, cit., p. 10.

[19] Anassimandro, in Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13 DK, B.

[20] A.G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, cit., p. 97.

[21] Ivi, pp. 124-125.

[22] Ivi, p. 95.

[23] Ivi, p. 100.

[24] Ibidem.

[25] Ivi, pp. 125-126. Biuso riporta qui le parole di B. Stiegler.

[26] Ivi, p. 107.

[27] Ivi, pp. 107-108.

[28] Ivi, p. 106.

[29] Ivi, p. 113.

[30] Ivi, p. 141.

[31] Ivi, p. 117.

[32] A.G. Biuso, Eschilo, il fondamento, in «Mondi, Movimenti simbolici e sociali dell’uomo», V, 1, aprile 2022, p. 11.

[33] Id., Disvelamento. Nella luce di un virus, cit., p. 129. Biuso riporta le parole di P. Sloterdijk.

[34] Ibidem.

[35] Le parole qui citate vengono pronunciate da Roy Batty in Blade Runner e sono riportate da Biuso nell’epigrafe di Disvelamento. Nella luce di un virus, cit.

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