L’ultimo avvistamento. Una meditazione sgalambriana

di Davide Miccione

Nel 1980 Massimo Fagioli, personaggio singolare, psicoanalista selvaggio (per alcuni sconfinante nel guru) fautore di una attività terapeutica variamente vicina all’happening e a forme di autocoscienza collettiva tipiche degli anni Settanta, stilava una prefazione a un suo libro, molto letteraria e allegorica, in cui paragonava la psicoanalisi (ovviamente la “sua” psicoanalisi, antisistema e poco desiderosa di essere riconosciuta dalle istituzioni, accademiche e non, quella che nel testo chiama “la contadina”) alla filosofia, che chiama “la Signora” accusandola di essersi imborghesita, se non venduta, e di essere lontana dalla vita e dalla realtà:

 

la contadina scopa con tutti, non trova mai il rifiuto interno, non sente repulsione di fronte alla materia. Le cose e i fatti sono la sua realtà, il movimento e la vita l’attrae, e si lascia istintivamente andare ingenua e suicida com’è. Ma non domina nessuno, non gestisce un potere, non accumula nozioni. (..) La contadina sta fuori dal castello, senza protezioni (…). La Signora, invece, rispetta tutti gli autori, è gentile anche se affettata, esercita la critica a modino (…) Tutto si può dire anche qui, ma cambia il modo. Non si può fare nulla. Non si può dissacrare. (…) Nel regno della ragione non sono ammessi gli istinti, non è ammessa la sessualità. Sono cose animalesche. (…) Ricca di concetti e di cultura, conta le monete e le proprietà (…) Ella ha una storia da tramandare. Deve mantenere l’ordine, conservare la morale.[1]

 

E, ancora, la signora pensa   

 

che la natura umana è carne maledetta, che nel corpo e nel sesso c’è il diavolo, che chi si lascia andare al piacere finisce all’ospedale e all’ospizio. Tu non vuoi credere a Socrate e a Hegel? È perché sei ignorante! (…). È nella sapienza dei concetti comandati dalla ragione, nelle pulsioni che stanno sotto le parole cortesi, sotto la critica della critica che mantiene da sempre l’immobilità di un mondo reso disumano dall’odio per il sesso, dall’angoscia di morire di fame e di freddo. L’immobilità di un mondo umano comandato da una ragione che si è chiusa in se stessa, invecchiando da sempre, da quando ha ottenuto il potere sui sentimenti degli uomini.[2]

 

Come è tipico dei pensatori radicali, Fagioli fa deflagrare una verità ma al contempo la “aggiusta” per farla funzionare meglio. La “contadina” tace che buona parte del resto della sua famiglia psicoanalitica è entrata in società, fa carriera e, come capita ai parvenu, è ancora più attenta alle convenienze e all’etichetta, e che invece la famiglia della “signora”, avendo qualche migliaio di anni di illustre prosapia, ha già prodotto innumerevoli figli degeneri che ormai, anche se non se ne parla in giro come capita per le famiglie altolocate, fanno stirpe a sé e fanno arrossire, per le loro maniere, persino le contadine. Inoltre costoro, i figli degeneri, hanno già detto della “signora” quanto di più duro si potesse immaginare, con la crudeltà e la conoscenza tipica di chi regola i conti in famiglia.

Così il figlio degenere Arthur Schopenhauer critica «il signor professore (che) guarda dall’alto in basso tutti questi filosofi, quando non li canzona addirittura, lo svergognato!»[3], additando come congrega di ciarlatani la filosofia dominante della propria epoca e classificando, in conversazione, le notizie sulla morte di alcuni professori di filosofia come “moria di bestiame accademico”. E un suo nipote (credo non si offenderebbe Sgalambro per l’attribuzione di parentela), quanto alla “critica a modino”, ne segna la dimensione di pura etichetta e di attività ancillare e necrofila: «Libri pieni di citazioni sono come sarcofaghi; pile di cadaveri ne sorreggono l’effimera vita. Chi scrive trionfa su tutti. Messi in fila fanno piroette, inchini, paso doble»[4]. E altrove: «come non c’è eroe per il proprio cameriere cosi non c’è filosofia per lo storico»[5].

I due personaggi, quello evocato nell’incipit, Massimo Fagioli, e quello eletto a centro di questa riflessione, Manlio Sgalambro, sono per molti versi opposti. Tanto desideroso il primo di congiungersi alla folla e di ammaestrarla (ed essa, in effetti, accorreva ai suoi incontri), di mettere le mani nelle “viscere” delle questioni, nella corporeità, nella sessualità, quanto il secondo era schivo, solitario, sprezzante, cresciuto saldamente avviticchiato a se stesso come un ulivo di quella sua terra, Lentini, da cui mai troppo si era allontanato. Eppure, come spesso accade quando ci poniamo di fronte al mistero delle personalità umane, erano per altri versi simili, entrambi spregiatori della propria corporazione e di ogni accademia, curiosi della cultura contemporanea tanto da stabilire durevoli sodalizi, non semplici incursioni, con protagonisti del cinema e della musica (Fagioli con Marco Bellocchio e Sgalambro con Franco Battiato), difficili entrambi infine nel loro non potersi fare in alcun modo istituzionali.

Quanto alla corporeità Sgalambro, membro di una categoria popolata da spregiatori del corpo (come ben ricordava Hans Jonas in un passo di Scienza come esperienza personale. Autobiografia intellettuale quasi facendo pubblica ammenda), era comunque il creatore di una opera il cui linguaggio colpisce proprio per la propria dura per quanto funerea carnalità (si pensi agli aspetti più imbarazzanti e perfino ripugnanti della nostra vita organica presenti nelle sue raccolte poetiche su Nietzsche e Kant)[6]. Ad entrambi, in ogni caso, si sarebbe potuto mettere in bocca senza mentire le parole del Socrate del Teeteto: “sono totalmente sconcertante (atopos) e genero soltanto aporia (perplessità)”.

Ma se abbiamo momentaneamente indugiato in movenze da “vite parallele” è in realtà perché il passo di Fagioli porta con forza alla filosofia una accusa di lontananza dalla vita, di accademismo che, vivaddio, non proviene questa volta dalla corporazione stessa e che è sommamente utile per pensare anche Sgalambro. È tipico infatti dei pensatori come lui, fioriti fuori dalle accademie, riuscire a vedere la filosofia “da fuori” e provare a costruire su di essa un discorso. Sgalambro è rimasto nella società senza poter accedere a nessuna enclosure filosofica[7], senza che qualcuno producesse per lui le regole d’ingaggio o gli fornisse le coordinate deontologiche del suo essere filosofo, senza che gli venisse fornita una identità sociale. Anzi, l’esistenza dell’accademia gliene suggeriva la negazione: se il docente di filosofia diventa il filosofo dove può collocarsi il pensatore extra muros?. Il pensatore non accademico deve dunque inventarsi in quanto filosofo, socialmente ma anche antropotecnicamente, decidere cos’è la vita filosofica e non può che guardare con curiosità e perplessità, con disprezzo e invidia, al produttore professionale di filosofia.

Quanto all’accademia, essa fa fatica a tener presente che il suo tesoretto, su cui tanto si affatica, è costituito, in buona parte, da gente che in un’aula in qualità di docente non c’è mai stata, oppure solo un po’, prima di venire espulsa e senza neppure troppa gloria. La serie di costoro è talmente lunga e conosciuta che non crediamo sia necessaria elencarla. Senza i loro amati non accademici (Marx, Nietzsche, Kierkegaard, Schopenhauer, Benjamin ecc.) di cosa scriverebbero gli accademici? Espunti come compagni di filosofia dagli accademici loro contemporanei i filosofi sine titulo rientrano come oggetti di studio per i successori.

La posizione stessa del filosofo extra accademico lo istiga a riflettere sull’organizzazione della filosofia nella propria epoca (quella organizzazione che riesce a vedere perché non ne fa parte) e le conseguenze che essa ha sulle opere e sui filosofi stessi. Chi è dentro non riesce più, non è più in grado; è necessaria una minima distanza di sguardo, forse di più, una liminalità quando non una marginalità. Maria Zambrano addirittura la teorizza nella sua riflessione sull’esilio come condizione ideale per filosofare.

Eugenio d’Ors[8], pensatore di una certa fama nella prima metà del Novecento, mantenutosi come giornalista culturale per buona parte della sua vita, apre uno dei libri a cui teneva di più, L’uomo che lavora e che gioca, riflettendo proprio sul lavoro del filosofo e stigmatizzandone (con l’ironica alterigia che gli è propria) la deriva produttivistica:

 

Tengo en Wurzburgo un buen amigo (ahora està en Italia) que es, sin duda, uno de los primeros espíritus de la Alemania actual. ¿Sabeis cómo lee los libros nuevos este amigo? Cógelos y primero los hojea rapídisimamente, de portada a colofón, en seguida repite la misma operación, de colofon a portada. Y ya està … Mi amigo tiene veinte y nueve años y ha compuesto ya, con análogos procedimientos, diez volúmenes de materia erudita. / Un día le decia yo – ¿Y no os concedéis nunca el placer de volver a leer, una, dos veces, un libro leído antes, mucho antes, un Moliére por ejemplo? El me rispondia: – ¡Ay de mi! ¡No tiengo tiempo! No puedo leer nunca, a menos de obligación, de especial esytudio o de cita. ¿Y vos? – Yo prefiero generalmente un libro viejo a un libro nuevo. Y he aquí que el exclamaba: – ¡Bienaventurados latinos![9] 

 

Il dualismo con il professore tedesco viene giocato da d’Ors, con acuta perfidia, sul criterio del piacere, dunque sulla gratuità del gesto filosofico rispetto a chi ne ha fatto una professione. Il criterio edonistico come reagente viene annacquato dalla differenza, anch’essa ben marcata e ripresa più volte nel prosieguo del paragrafo qui non riportato, geografica e culturale: insomma il “¡bienaventurados Latinos!” che si ripete nel pezzo più volte e la segnalazione, in vari punti, dell’appartenenza dell’amico al mondo tedesco[10]. In questo senso anche d’Ors si potrebbe apparentare a quella linea di critica alla filosofia accademica di stampo vitalista, dunque perfettamente sintonica con la citazione d’apertura di questo saggio. Mentre le critiche dei “vitalisti” all’accademia potrebbero far propria (sostituendo la propria filosofia alla psicoanalisi) l’immaginifica descrizione di Massimo Fagioli su “Signore e contadine”, Sgalambro però non vi si troverebbe affatto a suo agio.

Se la critica antiaccademica vitalista segnala sempre la lontananza della filosofia dalla vita individuale, dal piacere, dalla quotidianità, Sgalambro invece rientra in quella lunga teoria di filosofi che riducono la propria vita, a fronte della filosofia, a un mero accidens. Egli rappresenta un caso del tutto diverso. Sgalambro come lo Heidegger nelle lezioni del 1924 su Aristotele avrebbe potuto ridurre a “nacque, lavorò e morì” la sua attenzione all’elemento biografico; avrebbe potuto lasciar detto agli amici, come Croce, che la sua vita empirica non fosse oggetto di studio: c’erano le sue opere e tanto bastava. Anzi, Sgalambro va oltre, facendo balenare la vita biografica come minaccia al pensiero: «poiché il filosofo deve incarnarsi ho creduto che con me avesse subìto il danno minore. Ho sempre filosofato contro i miei interessi. Là dove qualcosa mi appagava ho fiutato l’insidia e l’ho respinta con tutte le mie forze. Ho finito col fare la filosofia di un altro. Era tutto ciò che potevo raggiungere contro la mia natura».[11]

Il “moderato antropomorfismo” di Manlio Sgalambro gli ha reso impossibile criticare la lontananza dell’accademia dall’uomo o dalla vita (anzi, un certo ricorrente fastidio per Socrate e Kant si riferisce a una eccessiva apertura di costoro al “popolo”) ma non gli ha certo impedito di trovare intollerabile che, ai limiti individuali e biografici da lui a caro prezzo rigettati, si sostituissero i limiti e gli scopi, eteronomi rispetto alla filosofia, della organizzazione accademica dei pensatori. Siamo, e non può sorprenderci, nei dintorni delle sarcastiche annotazioni antiaccademiche di Schopenhauer e del suo libello su La filosofia delle università contenuta nei Parerga, in qualche modo prolungate nel discepolo (per quanto degenere, come glosserebbe Sgalambro) Nietzsche che vede l’accademico come “creatura accomodante e tranquilla”[12].

Bisogna riconoscere, con Gerd Achenbach, che «l’organizzazione dei pensatori determina l’organizzazione dei pensieri».[13] Solo un pensiero magico che la corporazione dei filosofi contemporanei ha deciso di sottoscrivere contro ogni verosimiglianza può far ritenere che scrivere per se stessi o per un giornale o per fare lezione o per esporre a un convegno o per superare un concorso possa alla lunga, attraverso una misteriosa procedura alchemica, non condizionare in alcun modo la propria opera. I filosofi sarebbero dunque delle strane macchine in grado di distillare un proprio liquore sempre con lo stesso gusto e gradazione alcolica a partire da qualsiasi materia prima. Probabilmente ciò sarebbe ritenuto possibile anche da Sgalambro stesso che infatti immaginava L’etica spinoziana come a se stante e priva di rilevanti segni di una autorialità, se non fosse che per lui la questione si eradica alla base giacché i filosofi sono un numero risibile nella storia e certamente insufficiente per organizzare corporazioni, riviste, sindacati e congressi, forse troppo pochi persino per poter conversare in numero superiore a due. L’organizzazione dei pensatori non può determinare l’organizzazione dei pensieri perché non c’è un numero sufficiente di pensatori per immaginarne una organizzazione. Il pensatore è sempre l’eccezione, persino all’interno della categoria sedicente dei pensatori.

Si fa strada il dubbio che con Sgalambro sia stato avvistato per l’ultima volta il filosofo come rentier, la massima approssimazione della vita moderna all’esistenza del greco antico, l’uomo che ha messo in scacco le cure della vita per poter aprire a ben altre teoreticamente più significative preoccupazioni, l’uomo massimamente differente dai non filosofi, quegli “esseri indaffarati” che poco pietosamente descrive ne La morte del sole.[14]  Un funerale ad una figura cara alla filosofia che però precede di poco quello del cattedratico come ruolo, secondo un motto adorniano ormai bisognoso di aggiornamento, in grado di mettersi al sicuro dalla pressione economica del mercato [15].  Il mercato invece si fa ben sentire, non tanto impedendo all’ordinario di pagare le rate del mutuo ma piuttosto sottoponendolo a regole e prassi tipiche del mercato stesso (valutazioni e autovalutazioni, monetizzazione e quantificazione della ricerca eccetera)[16]. Siamo ben oltre lo scandalo sgalambriano dell’università come luogo dove “co-giacciono” le filosofie senza più porsi il problema di arrivare a uno scontro che certifichi la loro “intenzione di verità”; siamo piuttosto alle filosofie come prodotto indistinguibile da qualsiasi altro.

Sgalambro propone la grandezza dell’opera filosofica come unica forma che la filosofia può assumere, come unico luogo dove essa esiste (quasi allocando nel pre-filosofico tutto il resto) oppure potremmo pensare alla filosofia come dialogo libero e costante, come pratica che si rinnova e che riguarda la nostra interezza di uomini, da essa parte e ad essa torna (il mondo della pratica filosofica nelle sue espressioni più consapevoli dovrebbe potersi riconoscere in questa definizione). Queste potrebbero essere le due antitetiche posizioni che sole valga la pena di perseguire.

Nel mezzo tra le due, l’ennesima forma della pax technica, di quella desertificazione della vita e delle sue cure che finalmente l’occidentale ha a portata di mano. Il “nirvana occidentale” che Sgalambro preconizza in alcune intense pagine[17]. Nel mezzo una fitta scolastica che pretende di definirci come pensatori, pronta a farsi numero; nel mezzo filosofi che si identificano con una posizione in un ranking di citazioni, quasi fossero tennisti o, peggio, filosofi dispiaciuti di non esserlo; nel mezzo una terra da attraversare più velocemente possibile a occhi bassi e senza voltarsi indietro come un Orfeo minore.

[In foto: Manlio Sgalambro]


[1] M. Fagioli, Bambino donna e trasformazione dell’uomo, Nuove Edizioni Romane, Roma 1980, pp. 6-11.

[2] Ivi, pp. 12-13.

[3] A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena [1851], Adelphi, Milano 1998, p. 274.

[4] M. Sgalambro, La morte del sole, Adelphi, Milano 1982, p. 13.

[5] Ivi., p. 39.

[6] Ci riferiamo ai testi di Manlio Sgalambro Nietzsche. Frammenti di una biografia per versi e voce, Bompiani, Milano 1998 e Marcisce anche il pensiero, Bompiani, Milano 2011.

[7] Per una teoria delle enclosures filosofiche come momenti costituenti del pensiero nel suo procedere storico mi permetto di rimandare al mio Ascetica da Tavolo. La svolta pratica della filosofia e il bene comune, Diogene Multimedia, Bologna 2019, segnatamente le pagine 91-174.

[8] Sgalambro era affascinato dalla figura di Eugenio d’Ors (che aveva ovviamente letto) e sapendomi al lavoro su di lui per la mia tesi di dottorato, era solito chiedermene notizie.

[9] E. d’Ors, «Dos glosas sobre la voluptuosidad de pensar», in La filosofia del hombre que trabaja y que juega [1914], Libertaria/Prodhufi, Barcelona 1995, p. 51.

[10] Chi conosce Eugenio d’Ors sa come egli indulga, come altri suoi contemporanei spagnoli, nella apertura allo spirito filosofico spagnolo e più generalmente latino, in linea con gli altri pensatori spagnoli del tempo, e come nel suo caso ciò sia giocato anche come presa di distanza da alcuni temi della modernità visti come propri dell’Europa nordica e protestante.

[11] M. Sgalambro, Dialogo teologico, Adelphi, Milano 1993, p. 30.

[12] F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore [1874], Adelphi, Milano 1985, p. 18 e pp. 33-35.

[13] G. Achenbach, La consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2004, p. 134.

[14] M. Sgalambro, La morte del sole, cit., p. 25.

[15] Cfr. T.W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1954, p. 60.

[16] Sul tema è assolutamente necessario leggere e meditare V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli 2014.

[17] M. Sgalambro, La conoscenza del peggio, Adelphi, Milano 2007, pp. 101-104.