L’alterità come destino dell’umano. Riflessioni filosofiche post-pandemiche sulla poesia di Emily Dickinson

di Enrico Palma

Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!
Mt 6, 23

[…] Überzähliges Dasein
entspringt mir im Herzen. [1]

All’inizio della pandemia, ovvero all’irrompere di una novità assoluta nella vita individuale e collettiva di gran parte delle società contemporanee, mi sono affidato a uno dei principi fondamentali della teoria ermeneutica, comprendere cioè quanto accade a partire dal già dato e saputo. Lo scenario epidemico e poi pandemico induceva dunque gli studiosi e non a guardare ai beni indeperibili della nostra cultura, come quando dinanzi a una grave crisi economica ci si rifugia in beni sempre affidabili come i metalli preziosi. Mai come allora ho dunque percepito così forte la verità di un’affermazione che, mutatis mutandis, da salace constatazione di un paradosso ha invece acquisito una cogenza irrinunciabile, direi anche folgorante, e si tratta di un noto passo delle Pensées in cui Pascal afferma: «Tout le malheur des hommes vient d’une seule chose, qui est de ne savoir pas demeurer en repos, dans une chambre» [2]. Mi sembra che la formula pascaliana descriva perfettamente la regola prudenziale ed esistenziale da dover tenere ferma e operativa durante i vari lockdown.
L’umano, profondamente irrequieto e dinamico per natura, è infelice perché non sa stare da solo con se stesso, quando il gravame del passato e la sensazione di spreco del futuro chiuso tra le quattro mura del luogo a lui più familiare assalgono fino a soffocare. Felice è dunque chi sa restare da solo nel proprio spazio. Come si fa però a essere soddisfatti, sereni e appagati quando il nostro In-der-Welt-sein diviene stanziale come quello di un albero, i cui unici rami sono le appendici informatiche di cui la nostra epoca ci ha dotati, il cui ossigeno è una Erlebnis inviata e ricevuta tramite questi strumenti e perciò resa totalmente metallica e non carnale, e la cui luce è quella di una lampada che soltanto impallidisce e sbianca la pelle?
Se tuttavia la traccia di Pascal poteva descrivere un ideale di tempra morale o semplicemente di buonsenso legato al diffondersi del contagio, accettare cioè come necessario il confinamento per salvaguardare l’integrità del corpo sociale o della sua parte più fragile, non è in questo solco che a mio parere è da leggere un’ontologia dell’umano derivante da simili premesse. Si è felici allora quando stare in una stanza non comporta nessuna seria modificazione esistenziale, poiché ciò significherebbe aver acquisito una solidità interiore vagamente stoica che nemmeno il più potente dei terremoti può sconfiggere? Ma davvero la stanza, benché immaginata come situazione limite, può essere concepita come il luogo di una vita gioiosa e intesa come il nostro più proprio orizzonte esistenziale? E può essere la solitudine che ne deriva l’anticipazione di una ειρήνη attesa? Direi che il senso dell’affermazione pascaliana va invece inteso alla rovescia e letto nel modo che propongo: «Tutta la felicità dell’uomo sta nel sapersene restare con gli altri nel mondo». Sono quindi in gioco il protendere verso la differenza, la riscoperta dell’imprescindibile presenza dell’alterità in quanto orizzonte di salvezza e destino del nostro esserci, il vivere cioè «con gli altri e per gli altri» [3].
Se tale è stato il sentimento venuto allo scoperto, c’è bisogno dunque di un quid più alto che le dia forma e sostanza, di una voce che raccolga il sussurro e lo tramuti in tromba, di una parola che intercetti questa verità e la istituisca in un mondo e per il mondo. Voglio tentare di rispondere insistendo ancora sul paradosso mostrato con Pascal, e lo si intende fare restando sì in una stanza, ma non la nostra, poiché essa è povera del mondo di cui siamo alla cerca e di quella vocazione vitale al proprio sé che so-lo la poesia può realizzare, e quindi in una stanza ben precisa le cui mura però sono state sfondate espandendosi come un continente, una camera in cui il senso dell’abitare è stato veramente poetico e perciò degno. Per provare a concettualizzare la schiusura e l’affido a tale orizzonte dell’alterità, scelgo dunque la stanza di Emily Dickinson, aprendo le porte al possibile, a un sole invitto, a un’alba gloriosa.

  1. Porte aperte

Emily Dickinson trascorse gran parte della vita chiusa nella sua stanza, esaudendo con ciò alla perfezione il lacerto pascaliano. A quanto si apprende, negli ultimi vent’anni non uscì mai se non una sola volta. Dalle testimonianze più vicine a lei si conosce un carattere molto riservato, schivo fino alla paranoia, ma come avviene per i grandi avvenimenti intellettuali è nelle contraddizioni che risiede la monumentalità di un pensato-re, e la Dickinson corrisponde a questa descrizione. Data anche l’enfasi che ho attribuito alla stanza in quanto dimora dell’umano, non solamente per via del vissuto emergenziale ma come condizione ontologica e irredenta dell’esserci, la vita e l’opera della poetessa statunitense divengono un’autoevidenza.
È quindi con questa indicazione che intendo attraversare il corpus delle sue poesie, mettendo in luce per lo più le consonanze tematiche ed esistenziali con l’essere domestico del nostro vivere recente. Molti componimenti sono infatti profondamente intrisi di speranza e di convinta fiducia nell’eventuarsi di un accadimento salvifico, nell’incontro con l’essenza fondamentale di cui l’esserci rimane sempre in attesa ma quasi mai in modo consapevole, brancolando dunque nelle tenebre del non conosciuto. Così come sono numerosi i versi, i lemmi e gli stilemi che anche a uno sguardo non educato a rilevare simili dati del testo letterario richiamano a un contesto semantico notevolmente orientato.
Ho selezionato quindi alcune delle poesie in cui non soltanto rinvengo la presenza fondativa dell’avvento di cui si diceva, ma anche di elementi strutturanti e metaforici a proposito dell’argomento principe della nostra indagine. Nelle poesie che tenterò di affrontare figura infatti un lessico poetico caro alla biografia della Dickinson in maniera molto riconoscibile: house, room, window, day, dark, sun, dawn, birth, door. Sono questi gli elementi da cui partire per la nostra analisi e le poesie a mio avviso significative in tal senso, e che verranno brevemente discusse e commentate, sono, seguendo la notazione invalsa dall’edizione critica dell’opera dickinsoniana, le seguenti: 181, 470, 479, 657, 1233, 1619 e 1760 [4]. E ciò verrà fatto tenendo conto di «un percorso che Emily non abbandonerà fino alla fine: parlare all’altro e dell’altro attraverso quel misterioso e criptico linguaggio di cui è fatta la sua poesia» [5].

181

I lost a World – the other day!
Has Anybody found?
You’ll know it by the Row Stars
Around it’s forehead bound

A Rich man – might not notice it –
Yet – to my frugal Eye,
Of more Esteem than Ducats –
Oh find it – Sir – for me![6]

Iniziamo dalla constatazione di una perdita. È stato perso un mondo, di cui la Dickinson non ci dice nulla oltre ad andarne alla cerca domandando se qualcuno lo abbia visto. Offre un indizio, una frangia di stelle che come una corona e un marchio cinge la sua fronte. Il momento della perdita è un’informazione anche questa negata al lettore. Eppure l’io lirico è sicuro che questo mondo verrà riconosciuto una volta visto, poiché le stelle sono in lui, sopra i suoi occhi, in uno sguardo protetto dall’influsso dei Celesti. Il diadema di stelle richiama alla mente in modo prepotente l’iconografia mariana della pittura occidentale, la Mater Dei e Ianua Coeli che portando con sé le stelle come segno del cielo è lei stessa la visione di questo cielo, di questo paradiso a cui prima era possibile giungere ma che adesso è indisponibile. A un uomo ricco sfugge chi o cosa sia questo mondo, il possesso o la vicinanza al quale ne costituiscono la ricchezza, poiché come specificato dalla poesia è solamente nell’indigenza di un occhio prosaico e modesto che ciò che è perduto può essere riconosciuto nella sua importanza. Una ricchezza tuttavia che può anche essere scambiata per la superbia di chi presume la saturazione del sé a partire dalla propria individualità, una falsa opulenza spirituale ed esistenziale nella quale è impossibile riconoscere le stelle frontali infinitamente più preziose di tutti i ducati di cui il ricco può disporre. Si tratta dunque di un richiamo allo smarrimento costitutivo all’umano, al suo costante essere-in-perdita, alla negatività che lo intride e che lo sollecita alla trascendenza. È un mondo di cui ci si credeva erroneamente in possesso, l’Intero che completa, risolve la ferita della nostra finitudine e ci rimanda a un Altro, a invocare una calda manus affinché esso venga trovato per noi. L’esito finale sarà l’agnitio del mondo perduto nella figura dell’altro, per il riconoscimento del quale la poetessa avan-za quindi la sua richiesta.

470

[…]

I am alive – because
I am not in a Room –
The Parlor – Commonly, it is –
So Visitors may come –

And lean – and view it sidewise –
And add “How cold – it grew” –
And “Was it conscious – when it stepped
In Immortality?”

I am alive – because
I do not own a House –
Entitled to myself – precise –
And fitting no one else –

And marked my Girlhood’s name –
So Visitors may know
Which Door is mine – and not mistake –
And try to another Key –

How good – to be alive!
How infinite – to be
Alive – tow-fold – The Birth I had –
And this – besides, in – Thee![7]

Il lungo estratto che cito da una delle poesie più ampie della Dickinson è un vero e proprio inno alla vita, alla positività dell’esistere, alla pienezza del sé rinascendo in se stessi e nell’altro. Ed è uno dei punti fondamentali della nostra argomentazione. Compaiono la stanza, la casa, la porta e la chiave giusta per aprirla. Tali riferimenti non dovrebbero sorprenderci poiché fanno parte del lessico quotidiano della poetessa, e tuttavia la pregnanza concettuale e teoretica di questi versi è lampante. La condizione di verità dell’essere-in-vita qui tematizzato è il non trovarsi in una stanza, e dunque in un luogo espanso, traslato verso l’altro e l’altrove ora divenuti scoperti e abitabili. È probabile che il senso particolare e la motivazione della scrittura di questa poesia vadano rintracciati in un determinato tratto biografico della poetessa, ma nondimeno è nella loro valenza ontologica e universale che questi versi vanno illuminati. L’io lirico è vivo perché non è relegato nel perimetro invalicabile e inaccessibile di una stanza-fortezza, bensì rischiarato dallo sguardo di un altro che lo cerca e gli fa visita.
La sua è un’apertura costitutiva, poiché la poetessa costruisce uno spazio permanente all’alterità in cui ogni visitatore può vederla, trattandosi dunque di una disposizione totale verso la possibilità d’essere vista, raggiunta e conosciuta. E chiunque la conosca e la veda, ovvero cambiata nella volontà e nello spirito, può apprezzare la differenza occorsa tra la condizione passata e la presente, può chiedersi se ora è conscia di quanto fredda fosse la sua vita prima di questa risoluzione, quanto adesso la morte conti poco e come la stanza, il salotto e la casa siano divenuti invero una soglia d’eternità.
Si è vivi per il duplice motivo che non si è rinchiusi in una stanza e ci si trova nella possibilità sempre aperta all’arrivo, alla fiducia nell’attesa di una rivelazione, sicché, lasciata la camera, non si può possedere una casa propria, perché casa è dove la dimora ha il nome dell’altro quando essa non è costruita soltanto sull’esigenza esclusiva del nostro sé. In questa casa ritrovata non sta scritto il Girlhood’s name, il nome da nubile, il nome dunque precedente a un possibile incontro nuziale che rinfranca e che dona nuova vita, che fa anzi esclamare con un vigore insospettato di essere di altri, di essere insieme ad altri, e tramite ciò la gioia mai così piena di essere vivi. Perché solo grazie a questo l’avventore che visita una casa in cui egli è certo di poter essere accolto, in cui vede la possibilità stessa dell’apertura, non sbaglia la porta, poiché è ogni porta a essere quella esatta.
Nella strepitosa strofa finale, la dualità del vivere come vita in sé e per sé ma fondata soltanto sulla soluzione della dialettica nel momento della trascendenza, si trascina in trionfo, in puro gaudio. Si nasce alla vita quando l’altro, il visitatore, può dimorare in noi, in una casa non circoscritta dalle limitazioni individuali, ma soprattutto e in misura determinante quando, in modo commovente, la Dickinson afferma d’essere venuta alla vita soltanto perché nata besides, in, oltre e dentro l’Altro, in un Tu da amare e glorificare.

479

[…]

To Ache in human – not polite –
The Film upon the eye
Mortality’s old Custom –
Just locking up – to Die. [8]

Ciononostante, rispetto alle considerazioni precedenti, e nello stesso torno di tempo (le ultime due poesie in oggetto rimontano entrambe al 1862), la Dickinson declina in modo lucido un contrappeso al tripudio del componimento testé commentato. Sono tali dolore e strazio che la poetessa ci consegna, quelli della perdita e del peso della finitudine che grava sulla nostra esistenza irredenta poiché non consapevole di ciò che la completa o può completarla, e alla quale è necessario fornire un rimedio. Nel primo verso citato della poesia 479, della quale riporto solo la terza strofa, viene affermata ed espressa in modo esatto una verità incontrovertibile: il dolore, am Ende, coincide con la vita umana. Infliggere dolore è nella vicenda delle cose, aggiungerei che è inscritto nella loro biologia, patire è il fondo più essenziale dell’esistenza. Non c’è niente prima del soffrire: esso può essere alleviato, sospeso, dimenticato persino, si può mostrare pazienza o ci si può infuriare per il fatto d’essere stati fatti in un certo modo, ma non può essere estirpato.
Soffrire ed essere umani sono quasi la stessa cosa, un’identità inscindibile, un’equazione priva di incognite se non sulle ragioni del perché essa è cosiffatta. Non è per gentilezza nei confronti del mondo che si soffre, il dolore e la vita sono un tutt’uno. Avere un velo sugli occhi, su quegli stessi occhi magari adusi a riconoscere il mondo che abbiamo perduto, di cui siamo manchevoli e con cui cerchiamo disperatamente di ricongiungerci, è la cifra della mortalità che tentiamo di nascondere. L’appello della Dickinson è qui fortissimo, ben più radicale di ogni cortesia o gentilezza, notevole per schiettezza, destinale per essenza. L’invito è di farsi carico coraggiosamente della nostra mortalità e dell’esaurimento che siamo, i quali nei noti termini heideggeriani sono una declinazione del Sein-zum-Tode, un’abitudine antica quanto il nostro esserci, atavica e ancestrale come la vita stessa ma che è d’obbligo squarciare per approdare all’autentico. Serrare le porte significa inverare la morte, poiché quando si chiude e si rifiuta tale evidenza si nega il fondo reale del nostro essere. In questa chiusura lontana dalle necessarie accettazione e apertura bisogna assumersi l’onere della ferita, il coraggio di spalancare e lasciare aperto, perché una volta chiusi la morte diviene davvero irrevocabile.

657

I dwell in Possibility –
A fairer House than Prose –
More numerous of Windows –
Superior – for Doors –

Of Chambers as the Cedars –
Impregnable of Eye –
And for an Everlasting Roof
The Gambrels of the Sky –

Of Visiters – the fairest –
For Occupations – This –
The spreading wide my narrow Hands
To gather Paradise – [9]

La pregnanza del primo verso è pressoché assoluta. Tornano alla mente alcune notevoli affermazioni della filosofia del primo Novecento, dallo Heidegger della Einleitung di Sein und Zeit a un preciso Bergson [11], per i quali la possibilità in quanto tale starebbe e sarebbe rispettivamente più in alto e più ricca della realtà, uno scoperto richiamo alla Poetica aristotelica che la Dickinson porta qui a compimento, essendo la poesia più filosofica della storia parlando di universali sempre applicabili all’esperienza concreta [12]. La possibilità poetica è una casa più bella della prosa, del racconto del vivere inteso al singolare, e ha maggiori capacità di comunicazione e di trasmissione (More numerous of Windows) e accessi più grandi e agevoli (Superior – for Doors). La finestra è per definizione un oggetto liminare, uno spazio intermedio in cui si guarda il mondo da un interno e nel quale il mondo stesso può farvi il suo ingresso in una pura transitività di sguardi e di conoscenza. Tale casa è dotata di più stanze, come cedri di cui non si scorge mai il retro e per conoscere le quali bisogna impegnarsi a girarvi intorno, a visitarle per intero, poiché imprendibili per l’occhio con un solo sguardo. Questa casa è visitata dai migliori ospiti, anche assai graditi, affabili, riconoscenti. Ma l’occupazione di chi vi dimora è aprire bene le mani per raccogliere il Paradiso, il luogo del massimo compimento.
Questi versi possono giustamente essere letti come una meravigliosa lode alla potenza della poesia, sia come Dichtung che come Poesie, ovvero in quanto schiudersi originario del mondo e messa in parole di tale germinio [13]. Quella della Dickinson è una professione di fede alla sua dimora come totalmente consacrata a quella parola poetica che unica e sola può accogliere il Paradiso, e sostenerlo con mani che scrivono e che compongono in versi il mondo. La poesia, con Rilke, è anche nelle intenzioni della Dickinson il celebre Weltinnenraum, quello spazio cosmico interiore che sfonda le barriere del vissuto ed espande le pareti a tutto l’universo, poiché la possibilità della parola è infinitamente maggiore degli enti a cui essa, quando manca d’essere poetica, si riferisce. E questa possibilità è aperta alle innumerevoli e ulteriori opportunità di ampliamento e scoperta che i migliori visitatori, i lettori definiti the fairest, apportano al testo, suggerendo anche il compito profondo di ogni ermeneutica.
Una simile interpretazione, benché rapida, è certamente legittima e premiante sul senso della poesia, ma questi versi possono comunque essere inseriti benissimo nel per-corso che stiamo seguendo, e non solo perché ricorrono ancora una volta i lemmi dwell, house e door. La poetessa esprime qui la dolce necessità di una poesia d’ogni giorno, quotidiana: un anelito cioè rivolto alla possibilità in quanto pura apertura a una dimora predisposta all’accoglienza, e che diventa più bella quando avviene la visita e accade l’incontro lungamente atteso con l’altro. I versi dell’ultima strofa alludono infatti a una preparazione allo stesso tempo fattuale e fattizia, accogliere e spalancare i cancelli di un Eden riconquistato la cui chiave d’accesso consiste in una stretta di mano [14], in una receptio cordis.

1233

Had I not seen the Sun
I could have borne in the shade
But Light a newer Wilderness
My Wilderness has made – [15]

I toni dichiaratamente ottimistici delle poesie e delle analisi fin qui condotte incontrano in questa poesia un notevole inciampo. La luce con la quale abbiamo concluso il commento alla poesia precedente è adesso un lume che disvela il deserto e la selva del mondo. La nostra ipotesi dirimente circa il cammino nell’opera dickinsoniana, lo ricordo, era l’affermazione dell’altro come evento imprescindibile dell’esistenza umana. Qual è il sole che provoca rammarico circa l’ombra del mondo, nell’ignoranza del quale un’oscurità controllata sarebbe stata sopportabile? Questa luce rende la vita nel mondo ancora più difficile, mesta e avvilente. La luce provocata e cercata con ogni sforzo dalla Dickinson è quella generativa nel Dasein, il quale è chiarore proiettato nel mondo e in vista dell’illuminazione tramite il sé dell’Altro. Il Geworfen-Werden, l’essere-gettati, può tuttavia anche essere una fortissima negazione della luce, tanto da farla ripiegare su di sé o, proattivamente, illuminare la vastità della desolazione esistenziale indagata a fondo da molta letteratura del Novecento (penso a Beckett e soprattutto a Pirandello). La luce originaria dell’esserci, predisposta alla transitività e all’accoglimento nella propria apertura verso l’altro, conosce però un arresto, uno scacco e il rischio altissimo di fallimento. Perché l’alterità è anche conflitto, delusione, sconfitta, oblio, abbuiamento della propria luce, è tremendo sconforto e angoscia, finanche totale annichilamento. Molte volte si desidera, per il dolore che si prova alla presa d’atto della frustrazione della luce, di non averla mai posseduta ed essere, insistendo sulla nostra metafora, stanze prive di porte, o se provviste di ingressi, tali da poterli chiudere per sempre.
«Le parole, lo sguardo, il gesto di un mio simile possono illuminarmi o oscurarmi il mondo. Il mio simile non è un’altra entità isolata, che mi sta a fianco e versa parole nelle mie orecchie: estranea, come me, agli oggetti che riempiono il mondo. È invece, e innanzitutto, una persona che è o non è “insieme” con me, e l’intensità di questo suo “essere insieme con me” non è un’astrazione metafisica, bensì una realtà, visibile nelle cose che lui e io osserviamo» [16]. La luce di cui siamo fatti, flebile o rigogliosa, sensibile o maestra, se soffocata dalla tenebra si dibatte per tramutarsi in un corpo solido produttore di ombra, divenire anzi essa stessa ombra, sicché un bagliore che brilla in modo troppo forte rischiara il buio che lo circonda ma gli fa conoscere che nei suoi dintorni non c’è nessuno.

1619

Not knowing when the Dawn will come,
I open every Door,
Or has it Feathers, like a Bird,
Or Billows, like a Shore – [17]

Se la luce trafigge la solitudine nascosta dal buio, esaudendo con ciò la sua funzione di lume di conoscenza, la comprensione del mondo e del tutto non si conclude in questa tensione, bensì nella migliore intensificazione che la Poesia tout court possa mai istituire. È pur vero che ogni esserci è una rivelazione del mondo per il semplice fatto d’esistere, ma la conoscenza non si esaurisce nella sua luce, poiché ne esiste un’altra più vera e più grande che potremmo far corrispondere all’heideggeriana φύσις, allo schiudersi originario come mai tramontante [18], al punto che questi stupendi versi della Dickinson suggeriscono il sorgere dell’alba come luce certa nel suo giungere ma imprevedibile nel quando del suo mostrarsi. L’avvento luminoso dell’incontro con ciò che dona senso e chiarità all’esistere accade sempre perché è nella natura della φύσις e della luce essere in questo modo. Se il suo accadere è indiscutibile, la poesia stabilisce che alla nostra conoscenza manca di sapere il momento precipuo del suo avvenire, ed è in virtù di questa considerazione che può subentrare nel gioco interpretativo il futuro come apertura temporale in cui l’evento della pienezza può presentarsi. È proprio il fatto di non conoscere il quando della comparsa della luce sul filo teso dell’orizzonte a garantire ontologicamente la sostenibilità di un ottimismo esistenziale, ad affermare il nostro destino come Attesa dell’incontro dell’Altro, come Arrivo del singolo presso l’Alterità incarnata. Non è dato sa-pere quando l’alba sorgerà e il sole spunterà dal mare: il destino dell’umano è restare all’erta nel chiarore che il sole promana nella sua risalita preannunciata nella volta celeste, quando ancora, non visto, inizia a illuminare il mondo. È in questo mattino che la poesia della Dickinson induce ad abitare, una dimora necessaria e inscritta nel nostro essere.
Viviamo perciò nella continua avvisaglia della presenza luminosa dell’altro, visibile nelle doglie del mattino incombente e su cui è doveroso fissare lo sguardo. E difatti la Dickinson, in un verso mirabile, dilata una fessura che ha tutto il sapore di una profezia realizzata, e cioè, nella certezza di tale accadere, di tenere aperta ogni porta (I open every Door) e di irrorare di luce la propria stanza. E questo arrivo luminoso, e anche numinoso, vola come un uccello nel nostro nido, viene risospinto come un’onda sulla nostra spiaggia. Bisogna dunque confidare nell’Altro e nella Differenza [19], tutte parole raccolte sotto un’unica egida metafisica, la Luce, ovvero il Tempo. Il nuovo giorno è dunque degno di essere atteso, il bacio dell’alba merita la nostra fiducia, poiché, con l’Apostolo, «nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8, 24).

1760

Elysium is as far as to
The very nearest Room
If in that Room a Friend await
Felicity or Doom –

What fortitude the Soul contains,
That it can so endure
The accent of a coming Foot –
The opening of a Door – [20]

Dopo questo breve itinerario all’interno dell’opera poetica di Emily Dickinson, come si legge da quest’ultima poesia, la distanza dagli dèi non è più incolmabile, essi sono appena al di là della nostra porta, nella stanza accanto a cui bussare con fiducia o dalla quale attendere l’arrivo di qualcuno coronato di stelle a rifondare la nostra indigenza. Un evento che è salvezza (Felicity) o dannazione (Doom), poiché, raggiungendo il culmine della presente analisi, «Doom is the house without the Door» [21]. Sta a noi riconoscere tale necessità ontologica e di darle spazio e tempo, la possibilità di imprimersi e di trasformarci. Beato dunque chi reca in sé la forza e la comprensione per percepire il passo flebile e impercettibile compiuto verso di noi, per sentire il cigolare di una porta come preparazione di un avvento, per sorreggere un incontro messianico e accogliere un Paradiso che scende dal cielo come la Gerusalemme dell’Apocalisse giovannea (Ap 21) a cui la Dickinson era molto legata. «Who has not found the Heaven – below – / Will fail of it above – / For Angels rent the House next our’s, / Wherever we remove» (1544) [22].

  1. Cum tangere

Per concludere, il passo che voglio fare è adesso da una stanza a una galleria, a quel meraviglioso luogo che è la Bildergalerie di Potsdam, su una parete della quale giacciono alcuni dei più grandi capolavori dell’arte di ogni tempo. Ma è su uno di essi che voglio concentrarmi: la strepitosa Incredulità di San Tommaso [23] caravaggesca. Perché questo quadro? Attraverso una rapida lettura del testo pittorico possiamo riannodare le fila del discorso, soprattutto in riferimento a quanto discusso in sede di introduzione [24].
La mia impressione è che la presenza dopo la pandemia debba essere immaginata come il Tommaso (magari da raffigurare sempre con la Dickinson con una fronte corrugata di stelle) che stenta a credere al corpo del suo Signore risorto dalla morte. Il corpo, nella sua importanza fisica e anche sacrale, è un’evidenza della ragione dinanzi alla quale però la contemporaneità sta andando pericolosamente alla deriva. L’alterità di cui ci siamo occupati lungamente ma in modo insufficiente, tentando di attraversare l’opera della Dickinson, sta conoscendo un’imponente opera di smaterializzazione forse rallentata dall’emergenza pandemica. In un’epoca infatti di massima liquidità e di indifferenza al dato empirico delle relazioni, quando le cose più significative della vita vengono comunicate in chat sulle varie applicazioni di messaggistica che usano e consumano il durare autentico dell’esistenza, quando l’incontro in presenza con il corpo dell’altro viene negato da un’infondata irrequietezza mondana e visto come un lusso o un’ovvietà da superare e persino ignorare, quando non si hanno più il tempo e la voglia di trascorrersi nella condivisione di uno stesso spazio, l’avvento del Cristo rappresentato dal Merisi come affermazione della sacralità intangibile (termine come non mai calzante dato il soggetto del dipinto) dell’altro nella sua interezza corporea e spirituale assume la massima rilevanza, e non solo metaforica.
Nei troppi mesi trascorsi a ottemperare alla presenza virtuale dell’altro, l’incontro reale e non mediato diviene persino un evento straniante e inatteso. I lunghi periodi di confinamento ai quali siamo stati costretti hanno forse costituito un’enorme spinta in senso contrario a quanto le tecnologie con cui oggigiorno l’umano è sempre più ibridato stavano conducendo in modo forse irreversibile, e cioè l’espressione colta da Caravaggio e rappresentata sul volto di Tommaso dinanzi al Corpo risorto e nuovamente divenuto un fondamentum inconcussum. L’auspicio è che in occasione dell’incontro, a cui bisogna lasciare sempre la propria porta aperta, poiché come visto è nel nostro destino e ne va della nostra salvezza, l’incredulità venga sostituita da uno stupore rovesciato, una constatazione seria e consapevole dell’irrinunciabilità della presenza altrui come luce dell’esistere. Parlo dunque di un contagio da riscoprire e riformulare come cum tangere, come contatto con l’altro in senso assoluto.
Il percorso compiuto insieme alla Dickinson non termina nella notte, ma nel salutare l’oscurità una volta arrivato il giorno e stabilirsi sull’orlo dell’alba. Si prova un profondo senso di liberazione nel conoscere, con Céline, quanto schifosi siano gli umani, ma se ne prova uno più gioioso quando l’abbandono nell’altro può essere totale, quando la luce del sé si dissolve nel chiarore epifanico dell’alterità. Si tratta allora di ritrovare quel mondo smarrito della prima poesia riportata, gesto possibile soltanto per «persone che ricevono il mondo e lo regalano» [25]. Perché chi conosce questa libertà è scevro da ogni peso, quando vedendo il volto dell’altro che gli sorride e lo riconosce accade la trasfigurazione che eleva e salva. E vale la pena attendere l’alba di questo destino aprendo ogni porta, credere in questa luce originaria che siamo.

 

[Foto di Alice Magnano]

 

[1] R.M. Rilke, Die neunte Elegie (Nona Elegia), trad. di A.L. Giavotto Künkler, in Poesie. 1907-1926, a cura di A. Lavagetto, Einaudi, Torino, 2014, vv. 79-80, p. 324. «Esorbitante esistenza / mi scaturisce dal cuore», ivi, p. 325.

[2] B. Pascal, Pensieri (Pensées), a cura di A. Bausola, Bompiani, Milano, 2020, fr. 205, p. 120. «Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene in pace, in una camera», trad. ivi, p. 121.

[3] C. Pavese, La casa in collina, Einaudi, Torino 1990, p. 3.

[4] Le poesie citate con le relative traduzioni si trovano rispettivamente in E. Dickinson, Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, «I Meridiani», Mondadori, Milano 1997, alle pp. 196-197 (181), 518-519 (470), 530-531 (479), 748-751 (657), 1244-1245 (1233), 1612-1615 (1739), e in Id., Silenzi, a cura di B. Lanati, Feltrinelli, Milano, 2020, alle pp. 14-15 (181), 68-69 (470), 72-73 (479), 96-97 (657), 156-157 (1233), 178-179 (1619) e 190-191 (1760). D’ora in avanti riporterò semplicemente in nota le traduzioni di ogni poesia citata di volta in volta specificando tra parentesi tonde il traduttore. Le uniche eccezioni sono il primo verso della poesia 475 e la 1544, che si trovano rispettivamente alle pp. 524-5 e 1474-5 dell’edizione Bulgheroni.

[5] B. Lanati, Vita di Emily Dickinson. L’alfabeto dell’estasi, Feltrinelli, Milano 2000, p. 41.

[6] «L’altro giorno – ho perso / un mondo – qualcuno l’ha trovato? / Lo si riconosce dal diadema di stelle / che gli incornicia la fronte. // Potrebbe passare inosservato – agli occhi di un ricco / ma – ai miei occhi parsimoniosi / vale assai più dei ducati. / Signore! Trovatelo per me!» (Lanati).

[7] «Sono viva – perché / non sono in una stanza – / il salotto – generalmente – / così che mi si possa venire a vedere – // E chinarsi – e guardare di sguincio / e dire poi “Quanto è fredda” – e “Si è resa conto – di entrare / nell’immortalità?” // Io sono viva – perché / non possiedo una casa – / A me unicamente destinata – precisa – / di misura soltanto mia – // Con sopra segnato il mio nome di ragazza – / così che chi viene a trovarmi riconosca / senza sbagliare – provando una chiave diversa – / qual è esattamente la mia porta – // È stupendo – essere vivi! / È infinito – esserlo / due volte – perché sono nata alla vita – E ora – anche – perché sono nata dentro di te!» (Lanati).

[8] «Provare dolore è questione naturale – / non di buona educazione – il velo sugli occhi – / antica mortale abitudine – / semplicemente si chiudon le porte – per morire» (Lanati).

[9] «Io abito la Possibilità / Una casa più bella della prosa – / più ricca di finestre – / superbe – le sue porte – // È fatta di stanze simili a cedri – / che lo sguardo non possiede – / Come tetto infinito / ha la volta del cielo – // La visitano ospiti squisiti – / La mia sola occupazione – / spalancare le mani sottili / per accogliervi il Paradiso» (Lanati).

[10] «Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit», in M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), Max Niemeyer Verlag, Tübingen 2006, p. 12. «Più in alto della realtà effettuale sta la possibilità», trad. di A. Marini, Mondadori, Milano 2012, p. 64.

[11] Tolgo l’affermazione bergsoniana per cui la possibilità è più ricca della realtà da I. Prigogine, La fine delle certezze. Il tempo, il caos, le leggi della natura (Le fin des certitudes. Temps, chaos et les lois de la nature, 1996), trad. di L. Sosio, Bollati Boringhieri, Torino 2014, p. 69.

[12] Riguardo alla celebre affermazione aristotelica e a un’analisi della Poetica cfr. P. Ricœur, Tempo e racconto. Volume 1 (Temps et récit. Tome 1, 1983), trad. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 2016, pp. 57-89.

[13] Per l’articolazione di questi concetti cfr. E. Mazzarella, Perché i poeti. La parola necessaria, Neri Pozza, Vicenza 2020, pp. 7-10.

[14] Il riferimento è alla celebre affermazione di Celan: «Solo mani veraci scrivono poesie veraci. Io non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e un poema», in Id., La verità della poesia. «Il meridiano» e altre prose, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 2008, p. 58.

[15] «Se non avessi visto il sole / avrei potuto accettar l’ombra. / Ma la luce rendeva più deserto / il mio deserto» (Bulgheroni).

[16] Cfr. J.H. Van den Berg, Fenomenologia e psichiatria. Introduzione all’analisi esistenziale (The Fenomenological Approach to Psychiatry. An Introduction to Recent Phenomenological Psychopathology, 1955), Bompiani, Milano 1961; cit. in E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Einaudi, Torino 2019, pp. 511-512.

[17] «Poiché non so quando l’alba giungerà, / apro tutte le porte, / o forse possiede penne, come un uccello, / o frangenti, come una spiaggia?» (Lanati). Riporto anche la traduzione di Bulgheroni: «Non conoscendo quando verrà l’alba / io spalanco ogni porta. / O forse piume avrà come un uccello, / onde come una riva?».

[18] Secondo la traduzione di Heidegger del frammento 16 DK del poema eracliteo, esso infatti recita: «Di fronte al non tramontare (a ciò che non tramonta) affatto per sempre, come potrebbe qualcuno (ad esso) nascondersi?», in M. Heidegger, Eraclito (Heraklit, 1979), a cura di M. Frings, trad. di F. Camera, Ugo Mursia Editore, Milano 2020, p. 34.

[19] Per la definizione di questo punto mi sono avvalso delle riflessioni di Derrida sull’alterità in fenomenologia tra Husserl e Lévinas, con particolare riferimento alle Meditazioni cartesiane e a Totalité et Infini. Cfr. dunque J. Derrida, La scrittura e la differenza (L’écriture et la différence, 1967), trad. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, soprattutto p. 158.

[20] «La più vicina stanza / dove un amico aspetti / felicità o condanna: / l’Elisio è alla stessa distanza. // Che forza assiste l’anima, se tranquilla sopporta / il palpito di un passo – / l’aprirsi di una porta –» (Bulgheroni).

[21] «La condanna è la casa senza porta» (Bulgheroni).

[22] «Chi non trova quaggiù il Paradiso / non lo troverà in cielo. / Gli angeli stanno nella casa accanto / alla nostra, dovunque ci rechiamo» (Bulgheroni).

[23] M. Merisi (da Caravaggio), Incredulità di San Tommaso, 1600-1, olio su tela, 107×146 cm, Bildergalerie, Potsdam. Così anche la Dickinson su Tommaso: «La fede di Tommaso nella Anatomia era più forte della sua fede nella fede», in E. Dickinson, Lettere. 1845-1886, a cura di B. Lanati, Einaudi, Torino 2006, p. 63.

[24] La trama dell’episodio è molto nota (Gv 20, 19-31).

[25] U. Fiori, Il Conoscente, Marcos y Marcos, Milano 2019, p. 184.

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