Le “viscere della misericordia” di Mattia Pascal e l’eclissi della Bibbia

di Antonio Sichera

A un certo punto del Fu Mattia Pascal, quando Mattia, ormai trasformatosi in Adriano Meis, torna a casa Paleari per smentire il furto subito da Terenzio Papiano – furto di cui è stato effettivamente vittima ma che vuole occultare per non rivelare la propria identità, cioè per poter restare Adriano Meis –, il lettore si trova di fronte a una scena di grande intensità emotiva. Adriana Paleari ha infatti rivelato a tutti gli altri inquilini della casa, a partire dal padre Anselmo, che il signor Meis è stato derubato, accusando altresì il cognato Papiano del misfatto. In preda a una profonda agitazione, Terenzio ha cercato di cavarsela addossando la colpa al fratello epilettico – di nome Scipione –, come se, durante la seduta spiritica della sera prima, Scipione avesse potuto, in maniera del tutto idiota, approfittare del buio per entrare nella camera di Adriano e forzare lo stipetto dove erano nascosti i soldi del misterioso pensionante. Al fine di avvalorare la propria supposizione, in piena crisi nervosa per lo smascheramento incipiente, Terenzio si è precipitato sul fratello, lo ha trascinato in salotto e ha iniziato a spogliarlo davanti a tutti per cercargli addosso il corpo del reato.  La smentita di Adriano lo spiazza:

«S’interruppe, come se si sentisse mancare il fiato; volle volgersi a me, ma non gli bastò l’animo di guardarmi in faccia: – Io… io non ho potuto, creda, neanche dire di no… quando mi hanno… qua, preso in mezzo…precipitato su mio fratello che… nella sua incoscienza… malato com’è… irresponsabile, cioè, credo… chi sa! si poteva immaginare, che… L’ho trascinato qua… Una scena selvaggia! Mi son veduto costretto a spogliarlo… a frugargli addosso… da per tutto… negli abiti, fin nelle scarpe… E lui… ah!
Il pianto, a questo punto, gli fece impeto alla gola; gli occhi gli si gonfiarono di lagrime; e, come
strozzato dall’angoscia, aggiunse: – Così hanno veduto che… Ma già, se lei… Dopo questo, io me ne vado! – Ma no! Nient’affatto! – diss’io allora. – Per causa mia? Lei deve rimanere qua! Me n’andrò io piuttosto! – Che dice mai, signor Meis? – esclamò, dolente, il Paleari. Anche Papiano, impedito dal pianto ch’egli voleva soffocare, negò con la mano; poi disse:

– Dovevo… dovevo andarmene; anzi, tutto questo è accaduto perché io… così, innocentemente…
annunziai che volevo andarmene, per via di mio fratello che non si può più tenere in casa… Il marchese,
anzi, mi ha dato… – l’ho qua – una lettera per il direttore di una casa di salute, a Napoli, dove devo recarmi
anche per altri documenti che gli bisognano… E mia cognata allora, che ha per lei… meritamente, tanto…
tanto riguardo… è saltata su a dire che nessuno doveva muoversi di casa… che tutti dovevamo rimanere
qua… perché lei… non so… aveva scoperto… A me, questo! al proprio cognato!… l’ha detto proprio a me…
forse perché io, miserabile ma onorato, debbo ancora restituire qua, a mio suocero… – Ma che vai pensando, adesso! – esclamò, interrompendolo, il Paleari. – No! – raffermò fieramente Papiano. – Io ci penso! ci penso bene, non dubitate! E se me ne vado… Povero, povero, povero Scipione! Non riuscendo più a frenarsi, scoppiò in dirotto pianto. – Ebbene! – fece il Paleari, intontito e commosso. – E che c’entra più adesso? – Povero fratello mio! – seguitò Papiano, con tale schianto di sincerità, che anch’io mi sentii quasi agitare le viscere della misericordia».[1]

Si tratta di un passaggio molto fine. Mattia, sin dal principio del Pascal, si è dimostrato in verità un “uomo di cuore” (per dirla con Serafino Gubbio): pronto a vendicare a modo suo i torti subiti da Oliva e Romilda; disposto a farsi carico, sposandola, della stessa Romilda e della madre, la terribile vedova Pescatore, con un senso di grande abnegazione; sensibile e delicato nel rapporto intenso con la figlioletta, poi morta nello stesso giorno della nonna, la madre di Mattia. C’è insomma nel Pascal un’area semantica del sentimento ‘cordiale’ che vede in Mattia il punto di riferimento indiscusso. Solo in quest’ottica è possibile comprendere la ‘scandalosa’ citazione neotestamentaria che Pirandello cela in questo passo del suo testo. Adriano/Mattia – come abbiamo visto – ascolta Papiano che commisera il fratello, con una pena, una partecipazione che lo scuotono profondamente. Dopo aver oltraggiato Scipione, dopo averlo buttato a terra, costringendolo quasi ai contorcimenti propri dell’epilettico, dopo averlo umiliato davanti a tutti, ora, dinanzi all’insperata salvezza offertagli da Adriano, Terenzio si rende conto di quel che ha fatto e mostra una vera resipiscenza, ben al di là della possibile messa in scena. Lo chiama tre volte “povero”, facendo seguire all’appellativo prima il nome e poi un “fratello mio”, a cui fa seguito un pianto dirotto. Mattia/Adriano, a questo punto, si identifica totalmente con il sentimento di colui che è stato il suo nemico, sente fino in fondo il senso autentico di fraternità celato dietro l’abiezione e la crudeltà di Papiano e si commuove. Gli si agitano “le viscere della misericordia”. Non è un’espressione come le altre.

Nella tradizione biblica, infatti, la misericordia è propriamente un sentimento viscerale, che rimanda ai rahamîm, all’utero materno vibrante per il figlio, per la figlia, per colui o colei che ha generato. Nel Nuovo Testamento, questo atteggiamento, che implica una partecipazione totale, radicale, all’esistenza e alla sofferenza dell’altro, viene espresso con il verbo greco splanchnizomai, un denominale di splanchna, la parola greca che indica appunto le viscere. Ma non solo. A provare questo tipo di reazione emotiva incontrollabile è innanzitutto Gesù, che è scosso nel profondo dal dolore degli umani, dal loro smarrimento, dalla loro soggezione alla morte. È lo splanchnizomai quel che Gesù avverte dinanzi alle folle smarrite come “pecore senza pastore” (Mc 6, 34), davanti alla sofferenza degli ammalati o al corteo funebre della vedova di Nain (Lc 7, 11-17), che accompagna al sepolcro il figlio unico di quella povera donna. Questa commozione irrefrenabile è un segno messianico: il figlio di Dio geme insieme con tutta la creazione immersa nelle doglie del parto, tesa alla liberazione dal dolore e dalla morte a cui è stata sottomessa. Questo sentimento deve dunque essere proprio dei seguaci del Messia, del Christos. I messianici, cioè i cristiani, devono avere le stesse viscere misericordiose del loro Signore.

Ora, nelle traduzioni della Bibbia disponibili ai primi del Novecento, quando Pirandello scrive il Pascal,l’espressione “viscere di misericordia” appare nel testo di Colossesi 3, 12. Essa si trova sia nella traduzione di Antonio Martini che in quella di Giovanni Diodati. Leggiamo da Martini: “Rivestitevi adunque, come eletti di Dio, santi, ed amati, di viscere di misericordia, di benignità, di umiltà, di modestia, di pazienza”. L’arcivescovo di Firenze, Antonio Martini, fu il primo traduttore italiano della Bibbia dopo che nel 1757 Benedetto XIV, il famoso Cardinale Lambertini, aveva messo fine al divieto di tradurre le Scritture in italiano, cosa fino a quel momento vietata per non inficiare la centralità della Vulgata e per evitare soprattutto che la Bibbia potesse essere letta e usata dal popolo, come accadeva in ambito protestante, dal Sola Scriptura di Lutero in poi. Il Papa superava così, con quest’atto innovativo, un elemento caratteristico dell’assetto tridentino. Fu il prefetto della Congregazione del Concilio, su sollecitazione di Benedetto, ad affidare la traduzione a Mons. Martini, confidando nella sua cultura e nella sua conoscenza della lingua italiana. Martini portò a termine l’opera tra il 1769 e il 1781. La sua traduzione è rimasta in uso, in Italia, all’incirca fino alla metà del Novecento.

È molto probabilmente dal testo di Martini – più che da quello di Diodati, concepito agli inizi del Seicento in ambito protestante (nonché vero capolavoro della lingua italiana del XVII secolo) – che Pirandello trae dunque l’espressione usata nel Mattia Pascal per attribuire un sentimento di partecipazione viscerale di Adriano al dolore di Terenzio e del fratello Scipione. Epilettico, non lo si dimentichi, come tanti epilettici dei Vangeli, così come nemico giurato di Adriano è quel Terenzio con cui egli per un attimo si identifica in maniera potente e incontenibile (“Amate i vostri nemici”, Mt 5, 43). Nel pieno di una finzione duplice e straniante – quella di Mattia che smentisce il furto, che aveva effettivamente subito, per poter mantenere la falsa identità di Adriano; quella di Terenzio, che mette in scena l’ira funesta nei confronti del fratello, umiliandolo crudelmente, pur di non lasciar trapelare la verità rispetto ai soldi rubati al Meis – si staglia improvvisamente un sentimento così potente e umano da rompere le barriere della convenienza e delle relazioni fictae,facendo balzare in primo piano la verità del dolore e delle viscere mosse, al di là di ogni volontà esplicita, dalla realtà dell’altro sofferente. Citando il Nuovo Testamento Pirandello impone una nuova, insospettata marca cristologica sul personaggio di Mattia Pascal.

Non è però una novità. Come ormai è chiaro da anni, Pirandello usa la Bibbia, la letteratura patristica, quella scolastica, e lo fa con grande dimestichezza, con un gioco continuo di allusioni, di riprese, di riscritture, che non rappresentano un unicum nel quadro della grande esperienza letteraria otto/novecentesca. È fondamentale infatti rendersi conto di come la poesia e la narrativa abbiano tenuto viva la memoria della Scrittura nell’Europa moderna e contemporanea (diverso è il discorso sia per gli Stati Uniti e le Americhe, sia per la letteratura dell’Europa orientale, russa in particolare, dove la memoria biblica ha mantenuto una diversa esplicitezza), proprio a fronte della frattura tra tradizione greco-romana e tradizione giudaico-cristiana consumatasi a partire dal Romanticismo, secondo l’acuta teorizzazione dei giovani intellettuali dell’“Athenaeum”. Come se i racconti biblici, soggetti a un’eclisse progressiva sul piano pubblico a fronte di una secolarizzazione sempre crescente, avessero mantenuto una presa speciale in quelle profonde interpretazioni dell’umano rappresentate dai grandi libri della letteratura dell’Otto/Novecento. Intendo dire che queste opere non si possono intendere a fondo senza tener conto non solo del rapporto generico con le fonti bibliche (in questa direzione alcune imprese recenti hanno tentato di colmare il vuoto critico),[2] bensì della loro relazione intima, nascosta, con i testi della Scrittura: citati, manipolati, allusi. L’esempio di Pirandello, per restare solo al milieu italiano, potrebbe ripetersi per Verga, per Sciascia, per Pavese, per Fenoglio e così via.

Quel che mi preme far notare, in questo contesto, è la difficoltà della prassi critica a tener conto di questi fattori scritturali nella lettura dei testi. Non per resistenza ideologica ma per pura ignoranza delle fonti. Il secolare isolamento degli studi biblici all’interno dei seminari diocesani e delle facoltà pontificie, frutto della reazione controriformistica (e non scalfito nemmeno da Napoleone), ha prodotto nel tempo un vuoto di conoscenza della Bibbia, non più letta e studiata negli spazi formativi pubblici, statali. La Bibbia è scomparsa dalle scuole e dalle università, privando generazioni di studenti (e poi di professori) di una competenza di base rispetto ad uno dei testi archetipici della nostra tradizione. Né le varie forme di insegnamento religioso dislocate nelle realtà ecclesiali o nelle istituzioni scolastiche hanno potuto minimamente compensare una tale mancanza profonda, strutturale.

Il livello di comprensione, di percezione, di discussione delle questioni bibliche e teologiche nel dibattito pubblico italiano, ad esempio, mostra un’assenza inquietante dei pur minimi presupposti di conoscenza delle grandi opere della bibliografia teologica e biblica del Novecento. Spesso si parla di Bibbia e di teologia usando categorie e schemi mentali ben che vada ottocenteschi, in ogni caso abbondantemente preconciliari. Si tratta di una perdita progressiva della memoria a cui è necessario porre riparo, intanto in un senso squisitamente culturale oltre che umano. La perdita di contatto con una zona così rilevante della tradizione occidentale provoca infatti, nell’Europa culla dell’Occidente, una miopia che si riverbera su parole, vite e costumi. Ma il primo passo è il contrasto all’inconsapevolezza.

Le viscere della misericordia del Mattia Pascal ne sono una prova lampante. I commenti dedicati al grande romanzo pirandelliano di norma non spiegano il sintagma o addirittura, in qualche caso, giungono ad ipotizzare un refuso pirandelliano non corretto: non “mi sentii agitare le viscere della misericordia”, ma “mi sentii agitare le viscere dalla misericordia”. La mancata correzione di “della” con “dalla” avrebbe dunque prodotto un testo incomprensibile. Ovviamente non cito la fonte e non voglio gettare la croce su nessuno. La responsabilità della Chiesa cattolica in questa drammatica assenza culturale della Bibbia è altissima e per molti versi esclusiva. Prendo le mosse da questo inserto pirandelliano solo per far risaltare un problema ben noto, mettendone in luce un riflesso specifico e non indifferente in ordine alla formazione dei lettori, anche professionali, della grande letteratura contemporanea. Come a dire: facciamo tutto quel che è possibile perché questa ricchezza della tradizione occidentale non vada dispersa.

L’iniziativa presa dalla Chiesa di Palermo, e segnatamente dall’arcivescovo Lorefice, per l’istituzione di una laurea magistrale in Scienze religiose, (LM-64), in partnership tra la Facoltà teologica, l’Ateneo di Palermo e la Fondazione per le Scienze Religiose di Bologna, va in questa direzione, così come l’accordo tra lo Stato italiano e la Santa Sede del 13 febbraio del 2019, che per la prima volta rende possibile questo tipo di partenariati. Si tratta di un cammino da incoraggiare e da promuovere. Il sensus texti dei nostri giovani e degli studiosi nel tempo ne guadagnerà moltissimo. E non sarebbe un acquisto da poco. Mattia Pascal certo ne sarebbe rallegrato. E noi con lui. 

[Foto di Enrico Palma: dettaglio della Cappella degli Scrovegni]


[1] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Tutti i romanzi, vol. I, Milano, Mondadori, pp. 527-528.

[2] Penso a P. Gibellini (a cura di), La Bibbia nella letteratura italiana, Brescia, Morcelliana, 2009; ovvero a M. Ballarini (dir.), Dizionario biblico della letteratura italiana, Milano, IPL, 2018.

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