Riflessioni sull’intersezione tra scienza e diritto

di Nino Cortese

 

Il sistema generale delle scienze e delle arti è una specie di labirinto, una strada tortuosa, sulla quale lo spirito si avvia senza ben sapere in qual direzione volgersi.

D’Alembert, Discorso preliminare

 

Perché, non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di sé medesima.

Platone, Lettera VII

 

1. Metodo e diritto. La dialettica del fondamento

Nell’antichità, i vati, avvolti da un’aura di scostante sacralità, erano i detentori della Verità, erano in grado di significare segni attraverso l’arte oscura della divinazione. Le questioni di diritto, o meglio di giustizia (giacché comunque l’antichità credeva che il mondo fosse permeato dalla giustizia), erano appannaggio esclusivo di sacerdoti e sciamani che giudicavano sulla scorta di un sapere celato, esoterico, che esaltava la percezione della propria origine divina. Crizia, uno dei più vituperati sofisti dell’età della polis, con grande sagacia aveva creduto di rintracciare nella sacralità del diritto, quindi nelle sue implicazioni escatologiche e morali, la chiave più penetrante ed efficace che potesse essere pensata per controllare le coscienze. In realtà, se anche la modernità ha sostanzialmente distinto l’etica dalla morale, e il diritto ha perso la sua commistione con il sacro, ed in generale pensieri e presupposti sono stati formalmente esentati dall’indagine giuridica, sostanzialmente i giuristi, quasi evocando antichi poteri di casta, hanno conservato il potere di qualificare i fatti.

Tutte le speculazioni politico-filosofiche rinascimentali hanno garantito ai giuristi il potere indiscusso di validare le statuizioni di volontà del sovrano. Nella concezione della costruzione dello stato moderno, da Bodin in poi, la sovranità, quale potere indivisibile, inalienabile, incondizionato e assoluto, costituisce il principio giuridico che giustifica la centralizzazione del potere del sovrano e separa la politica dalla religione. La scientia iuris assolve ad un ruolo fondamentale nello strutturarsi dello stato assoluto: la funzione legislativa diviene infatti il mezzo attraverso cui si articola il potere del sovrano, che è legibus solutus proprio perché da lui promana la legge[1]. Il giurista diviene così il depositario del sapere in grado di universalizzare il potere dispositivo del sovrano attraverso la formalizzazione della sua voluntas, ed è quindi nella ambiguità della forma e della procedura che nasce il diritto moderno. La volontà del sovrano cessa di essere arbitrio nel momento in cui si tramuta in diritto positivo, che diviene fondamento e garanzia della libertà dei sudditi, nella nuova qualità di cittadini e di membri di un corpo comune[2]. Il raggiungimento di un ordine non è, però, cosa semplice. La guerra di tutti contro tutti, cessa, per Hobbes, con l’istituzione convenzionale della società civile: è il contratto, il pactum societatis con il suo potere vincolante che garantisce ai cives il superamento dello stato di natura assicurando la vita secondo ragione[3].

Non si tratta, tuttavia, come intuisce Kant, di un contratto reale, ma di un patto ideale, di un’idea regolativa che fonda il potere e lo legittima. Lo stato moderno nasce quindi da un’astrazione metodologica che, alla pur avvertita particolarità della potenza del sovrano, oppone l’universale del momento fondante. Così nella contingenza storica dello stato, la sophia dei giuristi offre il bandolo della matassa attraverso la creazione del diritto positivo, che è forma e procedura in grado di assicurare controllabilità ed uniformità di soluzioni.

Il metodo delle scienze giuridiche diviene, dunque, la formalizzazione e l’astratta proceduralizzazione di ogni fondazione, come di ogni tecnica decisionale. Il potere che i giuristi traggono dalla costruzione procedurale del diritto risiede nella essenza stessa del loro sapere che, perdendo i modelli cognitivi forti delle prime ingenue indagini euristiche intorno alla Giustizia, acquista, dalla debolezza e flessibilità del nuovo carattere avalutativo, una smisurata capacità legittimante. La stessa dialettica tra la giurisprudenza dei concetti e quella degli interessi, che ha raggiunto i livelli più alti del pensiero filosofico giuridico, lascia trasparire sullo sfondo il medesimo schermo giustificazionista estrinseco, caratterizzato dal fondamento metalegislativo, ora negli universali del pensiero, ora nella oggettivazione degli interessi[4]. Da ultimo, poi, l’affermazione dell’ermeneutica giuridica e il dilagare delle teorie sull’interpretazione, falsano sostanzialmente il rapporto poietico dei modelli normativi, sostituendo alla dialettica tra politica e Stato quella tra giudice e legge. Cosicché è di tutta evidenza la necessità di recuperare il corretto rapporto tra società e norme, in modo da superare la fatiscente precarietà delle astratte costruzioni formali che la ragione procedurale moderna ha consegnato alla gelida solitudine dei soli pensieri, scissi dalla dimensione fenomenica e pratica della vita, attraverso la contestualizzazione storica e particolare di ogni dinamica umana.

 

2. Dal nomos al diritto

Il problema principale della finitezza dell’uomo è proprio il suo anelare a forme pure ed immutabili a fronte del rischio del divenire: è come se egli fosse vittima di un circolo vizioso che lo sferza tra l’esigenza della previsione del divenire, e la continua e per questo seducente novità del mutamento.

Il dispositivo della modernità ha acuito il dramma della limitatezza dell’uomo inoculando il delirio della potenza autoreferenziale della razionalità, allontanando il mito dalla scena e lasciandolo alla generalizzata indifferenza per i reliquati di civiltà lontane.

Umberto Eco, con la consueta e folgorante lucidità, immagina che un personaggio del suo romanzo L’isola del giorno prima abbia inventato una sorta di cassettiera che contenga una serie finita di enunciati, la cui articolazione, attraverso il gioco sapiente di tre rulli, avrebbe consentito di ottenere da quegli atomi di concetti la definizione di tutti gli oggetti. La modernità ha stigmatizzato il sogno e la fantasia sostituendoli con leffettività.

Il mito, invece, nella realtà greca, si proiettava in uno spazio simbolico rappresentando e non risolvendo le problematiche del quotidiano. La struttura aperta del mito creava uno spazio simbolico in cui ciascuno poteva autorappresentarsi in un processo catartico che riduceva la complessità della società, creando attraverso l’immaginazione un ponte tra le res humanae e le res divinae. I miti, a differenza dei sillogismi, sono luoghi del pensiero complessi, pieni di sfaccettature. Ad un certo punto, quando la realtà diventava oscura, incomprensibile, nasceva un mito che consentiva una sorta di osmosi tra il contingente ed il trascendente. La modernità, di contro, ha svincolato l’uomo dal confronto con l’altro da sé, lo ha sottratto al rischio dell’incontro con l’ignoto, lo ha salvato dal baratro incommensurabile del càos istituendo l’ordine positivo, ma lo ha privato delle differenze, le identità, le appartenenze, le passioni. La razionalità moderna ha universalizzato l’uomo, l’epoca della tecnica ha funzionalizzato l’esistenza, ha ridotto l’agire a valore di scambio.

Come argutamente intuisce Agamben il delirio raziocinante della modernità ha trasformato il pathema degli antichi, quel sentimento insondabile di sofferenza ed insieme di anelito all’infinito, in mathema, in tensione verso la potenza proceduralizzante della ragione. La vera rivoluzione copernicana della modernità, è stata trasformare l’uomo politico in uomo razionale: differenze culturali, linguistiche, religiose, e quant’altro sono state sintetizzate dalla ragione che è divenuta l’elemento comune dell’essere uomo. Nella modernità qualsivoglia indagine euristica per essere fondata, per poter assurgere ad universale, deve superare l’esame della critica della ragione, il vaglio cioè del tribunale kantiano che la ragione istituisce dinanzi a sé per giudicare della legittimità delle sue pretese conoscitive. La Verità moderna è razionale, e la sconvolgente modernità di Kant probabilmente consiste proprio nell’aver reso razionale l’uso della ragione, nell’aver limitato la ragione con la ragione. In effetti, tutto l’illuminismo tedesco, da Wolff in poi, era stato percorso dalla suggestione di fondare la scienza su un metodo analitico-razionale (non a caso la denominazione di “metodo della fondazione” e di “metodo della deduzione”), Kant poi fonda la scienza dei limiti della ragione, ma non sfugge alla tentazione di indicare il Metodo per utilizzarla correttamente.

In realtà, se anche il trascendentalismo kantiano è riuscito a trovare una soluzione di medietà tra il puro razionalismo e l’empirismo scettico di Hume, tanto felice da divenire per secoli abito e maniera[5] di tanta filosofia accademica, è ricaduto ugualmente nell’ottica tutta moderna della metafisica della soggettività. La conoscenza kantiana è infatti pur sempre fondata sul soggetto conoscente con la sua combinatoria di forme e categorie a-prioristiche, non meno universali delle forme e delle categorie del paventato razionalismo, perché il problema moderno rimane comunque l’esigenza di verificare e legittimare il pensato e il voluto. Tanto la filosofia della scienza, quanto la teoria generale del diritto, nell’età moderna, sono motivate dall’esigenza di rispondere al perché delle cose o di quel sovrano, e possono farlo poiché pensano che la soggettività e la Verità possano essere disciplinate da un metodo razionalmente fondante.

Il metodo sperimentale quanto quello contrattualistico, sono, quindi, il prodotto di un’epoca che ha cercato fondamenti oggettivi e universalmente validi, e che ha creduto in paradigmi epistemologici forti: Galilei, così, aveva creduto di poter analizzare ogni oggetto secondo categorie che avrebbero consentito di leggere il libro dell’universo nella sua lingua. Da tale momento si è succeduto un proliferare di costruzioni logico-matematiche che si risolvono nel contenutivismo, come per Frege e Russell, ovvero nel formalismo, come per Hilbert; tuttavia, occultando tutte allo stesso modo, come osserva Gargani, «sotto la superficie di oggetti, cose, sostanze, le decisioni, i comportamenti, i costumi di un’intera forma di vita umana»[6].

I Greci d’altra parte non avvertivano l’esigenza della tematizzazione dell’inizio, per loro l’essere venuti al mondo era essenzialmente un evento[7]. Nel mondo antico non esiste la categoria del soggetto perché l’uomo è posto, e la realtà gli si presenta come qualcosa di dato; l’uomo deve semmai scoprire nel mosaico dell’universo quale tassello gli spetta, ed il suo percorso, il suo metodo azzarderei, è la via del ri-conoscimento. L’enigmatico responso dell’oracolo di Delfi, l’imperativo conosci te stesso, non suggerisce alcuna introspezione dell’io (che anzi è impensabile per il Greco che al contrario è un lui), e sottende invece la convinzione dell’esistenza di un ordine immanente alla realtà di cui anche l’uomo è partecipe. La stessa parola cosmo, con cui i greci indicavano il mondo, rivela, già nella radice etimologica, l’idea di bello in quanto ordinato.

Non a caso, tutta l’arte greca classica è volta alla ricerca delle proporzioni delle parti: le straordinarie opere di Fidia ne sono l’emblema; Pitagora possedeva la sophia perché aveva udito l’armonia delle sfere. Raggiungere la saggezza era quindi qualcosa di estremamente difficile, che misurava in tutta la sua sconfortante verità la distanza tra le cose che non è più casuale, ma è la risultante di un ordine.

La modernità, il cogito ergo sum, ha ribaltato il punto di vista: la categoria dell’uomo è diventata l’ente e non più l’essere. Nel mondo Greco l’essere zoòn politikòn vuol dire appartenere ad una polis, ed essere politico è costitutivo dell’essere uomo. Le scelte tragiche di Antigone, e la morte consapevole che si autoimpose Socrate, sono il vessillo di un’epoca in cui se il cosmo era ordinato, doveva anche essere pervaso da una legge che ne reggesse il cesello, e con cui l’uomo doveva costantemente confrontarsi. L’uomo Greco non pensa, ragiona: vuole scoprire i rapporti tra lui e ciò che sta intorno a lui.

Al contrario l’uomo moderno possiede la verità perché pensando la realtà la fonda. Non si tratta più di interrogarsi sul ti estì, ma sul perché delle cose. La modernità ha creato il soggetto, e lo ha reso signore della scienza. È stato ribaltato il rapporto tra l’uomo e la realtà, con la nascita della modernità, da Cartesio l’essere è l’uomo e le cose sono una conseguenza della sua ragione. Il soggetto nella modernità è il titolare della facoltà investigativa, da Bacone[8], al più raffinato Galilei, si afferma il modello del metodo sperimentale, come strumento legittimante la corrispondenza tra congettura e sostanza, tra ipotesi e legge.

Il metodo sperimentale costruisce la realtà: sceglie un oggetto, ed attraverso una serie di passaggi, lo fonda perché rende verificabile un enunciato linguistico. La Verità non è più svelamento, non è più a-lètheia, non si tratta più di rimuovere il velo di Maya. La Verità viene universalizzata dalla ragione. Come aveva già intuito Schopenhauer il principio di ragione rende «tutto ciò che esiste per la conoscenza, dunque il mondo intero, oggetto intorno al soggetto»[9]. Pensare un’epoca vuol dire proprio fermare, trattenere dall’incessante scorrere del tempo qualcosa. Un qualcosa la cui essenza è comprensibile soltanto muovendosi sui suoi scarti, ponendosi al momento del suo inizio e della sua fine.

I moderni hanno fondato il finito sull’infinito, hanno costruito una razionalità positiva e legale tutt’altro che naturale, e ne hanno tratto il massimo della libertà rompendo la fissità e la ciclica armonia della natura che aveva scandito il tempo degli antichi. Hanno imparato a fare le leggi, hanno superato la tragicità delle scelte del mondo Greco svincolandosi dal nomos, spalancando il portone e affrontando il bagliore ineffabile della luce che abbagliava Joseph ne Der Prozeß di Kafka[10].

L’analisi del diritto di una società consente sostanzialmente di comprenderne i caratteri e le peculiarità, poiché è l’espressione epocale che più di ogni altra rende conto della percezione dell’ordine e del disordine che gli uomini di quel momento storico avvertono. Fondamentalmente, il diritto quale luogo di istituzionalizzazione di modelli normativi è, o dovrebbe essere, la risultante della dialettica di pratiche e politica.

L’atomizzazione della vita collettiva, ridottasi alla dimensione social, virtuale, si è risolta nella perdita dei tradizionali spazi simbolici comuni che sono la fucina della cultura e segnatamente, quindi, del diritto. In termini sociologici quello che è giunto a noi uomini della libertà moderna è stata la trasformazione della comunità politica greca in sistema, in un luogo dove le scelte funzionali, assolute ed atomizzate, di ciascuno strutturano uno spazio, piuttosto che simbolico, piano, normativamente chiuso, che, anche se liberamente istituito, ha un ordine positivo che impone livellamento ed incrementa le complessità.

Paradossalmente però la libertà del momento fondante cede poi nel suo uso concreto ad una logica necessitata in cui unici soggetti sono le funzioni. Luhmann, il padre del funzionalismo giuridico, non a caso ha mutuato le sue teorie dalla neurofisiologia ed in particolare dalla scoperta della struttura funzionale delle cellule neuronali. Tuttavia gli sfuggiva che l’uomo, a differenza degli animali che nascono specializzati, nasce disfunzionale con un piacere di rappresentazione che lo rende totipotente: riesce ad elaborare simboli ed a recepire, dagli scambi in spazi simbolici, modelli e caratteri istituzionali che lo differenziano continuamente. L’uomo moderno vive così come profonda scissione la percezione delle intime istanze esistenziali a causa della logica funzionale che gli viene costantemente richiesta per affrontare le dinamiche fagocitanti del sistema che lo circonda e contiene; tuttavia, se riesce ad opporre resistenza alla funzionalizzazione del suo ruolo, spezzando dunque l’aura d’identità perimetrale del sistema, egli si ritrova come una piccola monade totipotente capace di creare razionalmente nuove forme incomunicabili, e come tale soggetto all’entropia allo stesso modo del sistema stesso.

 

3. Il diritto e l’ermeneutica

Il linguaggio e la tecnica di comunicazione più in generale sono diventati i signori indiscussi di un’epoca in cui non si riesce più a fare filosofia, tanto che, se Enrico Berti vuole recuperare la vitalità della metafisica di marca aristotelica nel pensiero filosofico contemporaneo, deve reinterpretare qualcuno, quasi riproporre l’ipse dixit in termini di pensiero debole, anziché ammettere e discutere problematicamente le passioni dell’uomo. Anche i giuristi sono diventati signori dell’ermeneutica. Monateri[11] ha dimostrato la vacuità della posizione di chi, alla stregua degli oracoli che interpretavano il volo degli uccelli, vorrebbe interpretare il nulla secondo il paradigma del come se. In realtà l’interpretazione del diritto è servita a garantire un certo equilibrio nel risolvere i momenti di impasse politici all’interno del sistema giuridico, scaricando la tensione e riducendo la complessità. Monateri prende ad esempio i celebri coronation cases e mostra come in effetti l’interpretazione del contratto secondo la volontà delle parti sia per lo più un modo paradossale di risolvere un conflitto come se le parti si fossero prefigurate ciò che in realtà non avevano minimamente preso in considerazione. Più in generale mostra come il particolare legame del diritto alla letteralità del testo normativo, piuttosto che una mossa grammaticale fondante, è una strategia, ed è quella che Monateri ad onta di ogni posizione candida chiama affabulazione, nel senso di potere di utilizzo del testo solo in relazione al fine. A fortiori la tanto declamata concezione del diritto quale criterio di qualificazione dei fatti, non è che la mistificazione di scelte non fondabili poiché le esigenze del diritto sono decisioni, attribuzioni di responsabilità, che traggono di volta in volta giustificazione nella ambiguità ed elasticità semantica della littera legis a seconda della diversa finalità contingente. Le inveterate ed immemorabili tradizioni che ingrossano e validano i responsi degli eterei barristers inglesi, quanto le argute, roboanti ed astratte elucubrazioni mentali della più raffinata giurisprudenza di civil law, nascondono allo stesso modo, dietro i petali delle parole, il pietrificante volto della Gorgone che cristallizza nella fattispecie del casus legis (o nel precedente) fatti e accadimenti di vita umana magmatici e complessi. Lo stesso Nietzsche con le sue accecanti intuizioni e l’emozionante passionalità di cui era capace, attaccando la nascita della società, non ha risparmiato l’istituzione della lingua, assimilandola sostanzialmente ad una sorta di gabbia angusta dove per paura si sono voluti ridurre e costringere allo squallore dell’oggettiva rappresentabilità cose ed oggetti, per non dire di pensieri e sentimenti, sempre particolari, pulsionali e irriproducibili. Anche Wittgenstein aveva ammesso che la vita non è del tutto traducibile, e che il linguaggio ordinario non ha i mezzi per descrivere le sfumature, le tonalità particolari delle esperienze, come dei colori; ed ancora, quarant’anni fa Lyotard, sosteneva con grande lungimiranza, che l’epoca post-moderna che viviamo ha reso l’uomo discorso in quanto le sue conoscenze, le sue verità delle narrazioni sono comunicabili solo se traducibili in linguaggio-macchina[12].

L’identità narrativa dell’uomo, affermata dalla filosofia postmoderna, è qualcosa di diverso dalle favole notturne della nonna con il loro valore didattico e sociale, è la comoda maglia dell’indifferenza le cui catene imprigionano davvero l’ultimo uomo, volendo ancora usare termini di Nietzsche. Non esistono metodi capaci di assicurare risultati uniformi, il metodo non può costruire alcunché, può soltanto semplificare, sfoltire le complessità consentendo decisioni, consentendo di intervenire sul processo eziologico di un determinato fenomeno, individuando ceteris paribus nel ginepraio degli antecedenti, tutti egualmente necessari alla sua genesi, quelli su cui è più utile od agevole operare per il fine propostosi. La conoscenza ad ogni modo rimane qualcosa di noetico, non raccontabile, perché la conoscenza è l’intuizione delle relazioni pragmatiche in un panorama sostanzialmente problematico, attraverso il crinale dell’incommensurabile, dell’insondabile capacità di sentire dell’uomo. D’altra parte lo stesso Kant, di fronte al sentimento del sublime, non aveva potuto concettualizzare alcuna categoria o schematismo intellettuale incasellante. Utilizzando le parole di Feyerabend: «La conoscenza senza cuore è una cosa vuota»[13]. Come afferma Sini, bisogna imparare ad «abitare la soglia della pratica che si sta esercitando, assumere l’abito e la consapevolezza della sterminata complessità e irresolubilità “teoretica” delle pratiche»[14].

 

4. Verso la co-produzione di scienza e diritto

La fede nell’onnipotenza della razionalità dell’uomo, ha affermato il mito del metodo scientifico come strumento universale di dominio dell’ignoto, neutrale e avalutativo, capace di legittimare la corrispondenza tra congettura e sostanza, tra ipotesi e legge. La scienza è stata tradizionalmente avvertita come un’istituzione sociale indipendente, fondata su paradigmi epistemologici forti che ne garantivano la neutralità da qualsivoglia condizionamento esterno[15]. La razionalità universalizzante del metodo scientifico ha rappresentato la chiave di volta della concezione epistemologica moderna, diventando strumento inattaccabile di legittimazione del pensato e del voluto[16].

Il diritto ha storicamente subito il fascino della razionalità del metodo scientifico[17] come il modello cui ispirarsi, il filo d’Arianna da seguire per costruire e legittimare decisioni e scelte normative. Il diritto positivo moderno ha costruito l’ordine sociale mediante forme e procedure in grado di assicurare controllabilità ed uniformità di soluzioni, traendo legittimazione dalla logicità razionale dei passaggi che informano il procedimento di formazione della legge, o della sua interpretazione[18]. In seno alle scienze giuridiche la formalizzazione e l’astratta proceduralizzazione sono l’a-priori di ogni prodotto giuridico. Ciò nonostante, come osserva in maniera estremamente suggestiva Stefano Sonnati, «ci fu un tempo in cui si poteva pensare che la scienza, pur avendo mediante l’applicazione pratica delle sue scoperte una indubitabile risonanza sociale e una notevole rilevanza nel mutamento del mondo, vivesse e progredisse in una zona a sé, separata dal contingente e tumultuante contesto storico; e che, in una specie di asettico involucro di vetro, si evolvesse secondo ritmi e modalità tutte sue, esclusivamente dedita alla propria limpida obiettività e del tutto insensibile a motivazioni che non fossero più che scientifiche»[19]. Di conseguenza sia gli scienziati che i giuristi hanno attribuito ai rari incroci dei propri saperi una valenza esclusivamente tecnica, considerando ogni interazione tra il diritto e la scienza, o forma di regolazione della scienza, come un’operazione di meccanica recezione, attraverso norme tecniche, di conoscenze certe già accertate altrove.

In effetti, secondo un risalente consolidato approccio, la scienza in primo luogo, con il suo bagaglio di certezze metodiche e oggettive, e il diritto di rimando, con il suo speculare e mirabile sistema di norme e criteri ermeneutici, hanno mantenuto un atteggiamento, come dire, di ossequioso rispetto a distanza[20]. Sia scienziati che giuristi hanno ritenuto i loro rispettivi campi d’indagine nettamente separati, refrattari ad ogni possibile commistione[21]. Questo assetto di rapporti, in maniera forse non troppo consapevole, aveva, tuttavia, garantito un ordine che era allo stesso tempo epistemologico e sociale. 

La scienza e il diritto, infatti, sono le due istituzioni che hanno maggiormente contribuito a fondare la fiducia dei consociati nell’ordinamento sociale, perché in qualche modo, entrambe, pur esercitando un potere di fatto altissimo sull’assetto delle relazioni di una società, possono a ragione essere considerate relativamente slegate dalla dialettica politica del potere di governo della stessa. I prodotti dei relativi saperi, il frutto delle indagini conoscitive sia della scienza che del diritto, sono stati avvertiti, o meglio costruiti dalla fiducia moderna nei fondamenti epistemologici forti di entrambi, come risultati sicuri, certi ed indipendenti. La scienza e il diritto hanno tecnicamente, e sommessamente, guidato la vita civile delle nostre società, orientandone lo sviluppo, poiché entrambi ritenuti capaci di perseguire la verità e la giustizia.

Il prezzo della smisurata potenzialità conoscitiva dell’uomo moderno è stato però proprio il dover fare i conti con un sapere sempre meno certo. Il tanto rassicurante modello causale lineare, secondo il quale a determinate condizioni da A consegue sempre e solo B, si è scontrato con concezioni della materia caratterizzate dalla relatività, da reazioni sub-fenomeniche caotiche e indeterminate.

Insieme alla tradizionale deferenza per la razionale oggettività delle conoscenze scientifiche[22], il crollo del modello epistemologico moderno ha travolto la possibilità di articolare i rapporti tra la scienza e il diritto come gli incontri occasionali di due istituzioni autonome ed indipendenti.

La necessità di risolvere le questioni di statuto, di fondamento epistemologico della conoscenza, per garantire adeguati strumenti di tutela impone, però, alla scienza e al diritto la piena consapevolezza della portata e del potere sprigionato dalle loro intersezioni.

Se il diritto fonda le proprie scelte normative e giurisdizionali su infide basi scientifiche perde inevitabilmente legittimazione e certezza.

L’istanza di sopravvivenza del diritto diviene, dunque, un processo di osmosi per il quale nel momento in cui il diritto fonda una propria norma o decisione su una delle alternative scientifiche, da un lato valida la teoria scientifica, dall’altro legittima sé stesso.

 


[1] Cfr. J. Bodin, La Republique, in I sei libri dello stato, Utet, Torino 1964.

[2] D’altra parte per Aristotele essere politico significava appartenere ad una comunità organizzata, sicché oltre l’uomo sarebbero da considerare animali politici anche le formiche o le api. Cfr. Aristotele, Politica, 1253a.

[3] Cfr. T. Hobbes, Elementi filosofici sul cittadino, in Opere politiche, a cura di N. Bobbio, Utet, Torino 1959.

[4] In tal senso, M. Barcellona in «Interpretazione e legittimazione del diritto», in Europa e diritto privato, Giuffrè, Milano 1999, fasc. 4.

[5] Cfr. A. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino 1977.

[6] A. Gargani, Il sapere senza fondamenti, cit., p 43.

[7] Cfr. C. Diano, Forma ed evento, Marsilio, Venezia 1994.

[8] Bacone è il pensatore che apre la prima fase della discussione sul metodo nell’epoca moderna, esprimendo bene la necessità di un nuovo approccio euristico fondato sull’induzione e su un nuovo criterio di verifica delle teorie, che liberi la mente umana dagli idola, dai fantasmi ingannatori, che la obnubilano, e che consenta all’uomo di dominare la natura; tuttavia in questo filosofo non è ancora approfondita la riflessione matematica che caratterizzerà la mossa fondante delle speculazioni successive.

[9] Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari 1968.

[10] Di Kafka ha parlato anche Aldo Gargani, ne Lo stupore e il caso, ritenendo di individuare la morale della parabola di Joseph e il guardiano di fronte al portone della legge nella necessità di varcare la soglia senza fare tante domande, le quali sono i veri ostacoli, i veri guardiani che si frappongono tra noi e la verità, tra noi e la giustizia.

[11] Cfr. P.G. Monateri, Diritto, giustizia e interpretazione, Laterza, Bari 1998.

[12] F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1971.

[13] P. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Laterza, Bari 1989, p. 103.

[14] C. Sini, Filosofia e scrittura, Laterza, Bari 1994, pp. 113-114.

[15] In tal senso sono paradigmatici i contributi di Weber attorno all’idea della avalutatività della scienza. Cfr. M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958; cfr. anche V. Villa, Teorie della scienza giuridica e teorie delle scienze naturali, Giuffrè. Milano 1984, Cap. I.

[16]Anche se, in realtà, come rileva N. Bobbio in Scienza giuridica, in Contributi ad un dizionario giuridico, Giappichelli, Torino 1994, p. 337, la creazione moderna di un sapere giuridico superiore, ideale, modellato sugli schemi metodologici delle scienze vere, ha portato alla costruzione di una scienza del diritto diversa dalla giurisprudenza, operando quella che l’A. definisce come «la caratteristica duplicazione del sapere nella sfera dell’esperienza giuridica».

[17] La stessa istituzione dello stato moderno nasce da un’astrazione metodologica che, alla pur avvertita particolarità della potenza del sovrano, oppone l’universale del momento fondante.

[18] Il lungo cammino che nella modernità porta all’affermazione dell’obbligo della motivazione della sentenza, e più in generale degli atti pubblici, trae fondamento dalla avvertita necessità della ripercorribilità dei passaggi logici che fondano il sillogismo giudiziario, o la fase della formazione dell’atto, come momento fondante e legittimante delle modificazioni della realtà che ne conseguono. 

[19] S. Sonnati, Scienza e scienziati nella società borghese, Bulgarini, Firenze 1973, p. 10.

[20] Così M. Tallacchini, Scienza e diritto. Verso una nuova disciplina, prefazione a Sheila Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, Giuffrè, Milano 2001.

[21] In tal senso è emblematica la riflessione di Kelsen e il suo tentativo di costruire una teoria “pura” del diritto, che scevra da ogni condizionamento politico, sociologico o scientifico avesse il suo unico oggetto nel diritto positivo. Cfr. H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1952; cfr. anche B. Celano, La teoria del diritto di Hans Kelsen, il Mulino, Bologna 1999.

[22] Basti pensare alle riflessioni di Kuhn o di Feyerabend, che, a partire dai primi anni Settanta, stravolsero la fiducia pressoché assoluta nel “dato di osservazione” e nella illimitata capacità conoscitiva della Scienza, mettendo in luce come anche i paradigmi di questa cambiano e, di conseguenza, i metodi conoscitivi possono essere solo contingenti, provvisori, relativi. Cfr. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1969; cfr. P. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Laterza, Bari 1989. Così anche R. Coombe, che non a caso cercherà nuovi modelli per comprendere la politica interpretativa del diritto nel movimento giusletterario americano, osserva che «i modelli scientifici stessi erano interpretazioni parziali, basate sulle prospettive e le convenzioni disciplinari degli osservatori scientifici». In G. Minda, Teorie postmoderne del diritto, Il Mulino, Bologna 2001, p. 136. Cfr. anche A. Gargani, Il sapere senza fondamenti, cit.

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