Affinità tra platonismo ascetico e gnosi

di Amedeo Barbagallo

A partire dal II secolo la Chiesa cattolica si confrontò con l’eresia dello gnosticismo. Tale termine, abbastanza moderno, affonda le radici nel greco antico gnòsis, utilizzato per indicare la conoscenza. Profondamente legata alla filosofia greca, e con tratti molto simili alle credenze orfico-pitagoriche e al platonismo, i seguaci di questa dottrina avevano la «pretesa di rappresentare una rivelazione divina (gnosi) riservata a pochi eletti, moralmente e intellettualmente preparati, in contrapposizione alla fede comune della gran massa dei cristiani»[1]. Sarebbe stato Gesù, in modo esoterico e riservato, a consegnare questa occulta rivelazione, nel periodo tra la resurrezione e l’ascensione.

Per la Chiesa lo gnosticismo rappresentò un grave pericolo, dato che gli individui più colti iniziarono ad avvertire l’ambizione di approfondire la propria fede, col serio rischio di una messa in discussione degli affermati dogmi cristiani. La grande reazione dell’ambiente ecclesiastico mandò in declino la corrente, che in realtà non si era strutturata, “sopravvivendo” all’interno di sette circoscritte, caratterizzate da diverse riflessioni dottrinali. Ad ogni modo, lo gnosticismo è riuscito a raggiungere i nostri giorni, continuando a vivere intrecciato alla filosofia. Pensatori del calibro di Heidegger, Cioran e Weil sono un esempio di questo rapporto.

Il seguace della dottrina si sente alienato dal mondo materiale ed estraneo a esso. La rivelazione divina a cui fa riferimento la dottrina riguarda la sua natura più interiore, «consistente in un germe, una particella di sostanza divina, degradata e caduta nel mondo, prigioniera del corpo materiale da cui anela a liberarsi per tornare al mondo divino da cui ha tratto origine»[2]. Tocca a un Redentore, sia con la presenza spirituale che con l’incarnazione, “liberare” il depositario del germe divino dal mondo materiale.

Tale figura fa tornare in mente il mito del cosiddetto Redentore redento, la cui origine dovrebbe risiedere nell’antica religione iranica, dove «il sommo Dio invia in soccorso il Redentore celeste, che scende nel mondo e risveglia negli spirituali la coscienza della loro origine divina»[3]. Risulta evidente come la dottrina gnostica sia figlia di un forte sincretismo con epicentro la Grecia e l’Oriente.

Il mondo materiale, opposto al mondo d’origine del Dio, «aveva tratto origine dall’errore o dal peccato di un essere divino, per lo più di genere femminile (Sophia), ed era stato plasmato da un Dio inferiore, il Demiurgo, identificato col Dio creatore del Vecchio Testamento»[4]. In tal modo si viene a creare una sorta di opposizione fra il Dio supremo, Padre del Redentore, e il Dio del popolo ebraico.

Lo gnostico fedele a tale concezione, naturalmente, non può che paragonare a una prigione il mondo materiale, prigione dalla quale potrà liberarsi solamente grazie alla gnosi. La redenzione, però, libera solo lo spirito, la parte divina dell’uomo; in alcuni sistemi gnostici è contemplata anche la liberazione dell’anima, considerata un elemento di secondo ordine. Il corpo materiale è perciò destinato alla dissoluzione.

Le peculiarità dello gnosticismo non possono che far tornare alla mente i caratteri della credenza orfico-pitagorica. In Pindaro comparve per la prima volta una concezione che individuava nell’uomo una parte divina e non mortale, la psyché, considerata come il “vero uomo”. «Felice e beatissimo, sarai dio invece che mortale»[5], scrivevano gli orfici alludendo alla morte. La morte, la fine del corpo materiale, libera la psyché dal soma; anche gli orfici utilizzano la metafora della prigione, dato che la materia ha distanziato lo spirito dell’individuo dal divino. La fine del corporeo proietta la psyché verso la sua realizzazione, accanto a dio. Lei stessa diventa un dio, dato che la parte divina prende il sopravvento sulla totalità dell’individuo.

Mettendo in corrispondenza due credenze tanto diverse quanto simili come orfismo e gnosticismo, è il Leitmotiv del Fedone che torna in mente, come se nel pensiero del filosofo di Atene fossero profeticamente sintetizzati i due messaggi religiosi. È la filosofia, mezzo utilizzato per poter contemplare la conoscenza assoluta, che purifica la psyché dalle incrostazioni del sensibile aiutandola a separarsi dal soma in attesa della fine. L’amore per la conoscenza, la forma più autentica di gnosi, rende la psyché libera, dato che con la fine l’essenza del filosofo «se ne andrà verso ciò che le assomiglia, verso ciò che è invisibile, divino, immortale, intelligente»[6].

A differenza dell’orfismo, dove la psyché è divina nella totalità dei seguaci, solamente una cerchia ristretta di individui, data la natura esoterica della dottrina gnostica, possiede il seme divino. Si tratta dei cosiddetti pneumatici, categoria che prende nome dallo pneuma, il soffio vitale degli antichi greci. Sono in pochi a detenere uno spirito consapevole del proprio vero essere, della propria origine divina, destinato al ritorno nel mondo d’origine. La salvezza gnostica è riservata a pochi eletti.

In altri uomini, detti psichici, è la psyché a governare l’individuo. Loro sono mossi dalla mente e dalle passioni. Consapevoli dell’esistenza di un principio posto oltre la materia, vivono in attrito con gli istinti che li distolgono dalla percezione dello spirito più profondo. Nel corso della vita cercheranno di domare tali istinti, in modo da poter essere in grado di collegare la propria vibrazione interna con quella della fonte divina allo stesso modo degli pneumatici.

Infine, la dottrina gnostica elenca gli ilici (dal greco antico hyle, materia), la stragrande maggioranza degli uomini, individui composti solo dal corpo materiale, destinati a dissolversi nel nulla. Essi sono legati unicamente ai bisogni del corpo, al desiderio di comandare e di possedere. Sono parecchio distanti dal richiamo del divino. La gnosi per loro non è contemplata; torneranno a essere una nullità come erano prima di venire al mondo.

Tale tripartizione, che altro non è che “l’antropologia gnostica”, richiama nuovamente in causa Platone e il suo Fedro, famoso per il mito del carro e dell’auriga, che rappresenta la tripartizione della psyché e, dunque, del destino degli individui. Il filosofo paragona l’ente spirituale a un carro di due cavalli guidati da un auriga nel cielo, tra l’Iperuranio e la Terra. «Dei due cavalli, uno è bello e buono e derivante da belli e buoni; l’altro, invece, deriva da opposti ed è opposto»[7].

Il cavallo a cui Platone attribuisce il “male” disturba la conduzione dell’auriga tirando verso il basso, verso la sfera materiale. Verso ciò che avrà una fine. Ciò ricorda il destino degli ilici. L’altro cavallo, invece, nel tentativo di ricongiungersi con il dio tira il carro verso su, verso l’Iperuranio, dimora dell’Eidos della Verità. Tale comportamento ricorda quello degli pneumatici, gli individui detentori della salvezza.

Ad ogni modo, questa sorta di lotta “tra bene e male”, nel disegno platonico, sarà risolta dall’auriga, il quale avrà il compito di determinare la sorte escatologica di quella psyché ancora inconsapevole, scegliendo quale cavallo seguire. Potrà farlo cadendo nel mondo materiale, dove sarà schiava dei bisogni corporei, oppure raggiungendo la Pianura della Verità, dove avrà ottenuto la propria realizzazione allo stesso modo degli psichici, unici responsabili del proprio destino.

L’onda del platonismo sulla dottrina gnostica fu molto potente. Il romano Ippolito, parlando dell’eretico Valentino – e dei discepoli –, lo ha definito pitagorico e platonico piuttosto che cristiano. «Infatti per loro il principio di tutte le cose è la monade ingenerata incorruttibile incomprensibile inconcepibile generatrice e causa della generazione di tutte le creature: questa monade essi chiamano Padre»[8]. Il Padre, per i valentiniani, generò Intelletto e Verità, diade responsabile di tutti gli Eoni considerati parte del Pleroma.

Anche la letteratura gnostica ha analizzato la questione della psyché nella sua importanza ontologica, così come avviene nella tradizione platonica. Come si legge in un testo del teologo romano, all’uomo al fine di assoggettarlo «è stata data anche un’anima, affinché per mezzo dell’anima soffrisse e fosse punito in servitù l’essere plasmato dal grande bellissimo perfetto uomo: in tal modo lo chiamano»[9]. La psyché, elemento divino che secondo il passo citato dà vita e movimento, non è altro che il Figlio dell’Uomo primordiale che è stato imprigionato nel corpo di Adamo. Lo spirito cercherà di liberarsi da questo luogo di oblio nel quale è stato rinchiuso, in modo da risalire in alto, dove risiede la sua origine. Adamo, infatti, secondo le Sacre Scritture sarebbe nato dalla terra; lì giaceva, subito dopo la creazione, inerme. Dio gli assegnò una psyché, secondo l’interpretazione gnostica, al fine di tenerlo legato alla dimensione divina anche nel mondo materiale.

Per gli antichi studiosi gnostici della psyché ofiti e sethiani il lavoro fu molto difficile, dato che per la concezione del tempo l’ente spirituale «è assolutamente difficile da trovare e da comprendere: infatti non conserva mai la stessa figura, la stessa forma, una sola condizione, perché uno la possa o esprimere per immagine o comprendere nell’essenza»[10]. Per gli antichi pagani citati dai testi gnostici principio della psyché era l’Essere preesistente o l’Autogenerato.

Per gli Assiri, ad esempio, riportati nell’opera di Ippolito, l’uomo non era altro che un’unione di tre elementi: spirito, anima e carne. «L’anima è causa di tutte le cose che nascono, perché tutto ciò che si nutre e cresce ha bisogno di anima. Nulla ha possibilità di nutrirsi e crescere se non c’è anima»[11].

Ippolito fa risalire agli antichi egizi il “desiderio” greco di volersi ricongiungere, volando verso l’alto, con la sfera divina. Si tratta di una rivelazione espressa nei misteri di Iside, «santi augusti non conoscibili da parte dei non iniziati»[12]. Il membro virile del dio Osiride, che rappresenta il simbolo della forza divina immanente nella natura, vivifica e causa le diverse trasformazioni. La natura cosmica, nei misteri egizi simboleggiata da Iside, aspira a conseguire tale forza, sempre soggetta a trasformazione per opera di quel principio divino che nel testo viene definito immobile, ma che muove tutto, creatore ma non identificabile con la sua creazione. Il resoconto del teologo romano è pieno di espressioni tipiche della teologia negativa, che servono a caratterizzare l’assoluta trascendenza del divino rispetto al mondo.

Ippolito trovò riscontri con quanto professato dagli egizi anche nelle Scritture, sottolineando un forte sincretismo tra le antiche credenze. «Perciò è l’immobile che muove tutto: infatti resta ciò che è quando crea e non diventa nessuna delle cose che sono create»[13], scrisse il teologo per rappresentare il divino. L’autore fa notare come gli uomini onorano, con tutte le differenze del caso, la forza divina immanente nel mondo, nonostante non conoscano la sua vera natura.

I greci, a differenza degli altri popoli, introdussero l’importante concetto del Logos per occuparsi del divino. Si tratta di un concetto bivalente: da una parte simboleggia l’anima dell’uomo e del mondo, dunque il principio, la forza divina prigioniera della materia; dall’altra è il Dio immutabile e trascendente, che trarrà in salvo quella parte di sé – detto in modo improprio – prigioniera della materia.

«Principio generatore dell’universo fu la mente […] il secondo fu il caos diffuso del primogenito […] terza l’anima accolse, nel suo agire, questo principio»[14], si legge nel Salmo dei Naasseni sull’anima, uno dei più importanti testi gnostici legati alla psyché. Sarebbe il nous del divino la forza che ha generato il cosmo; tale forza venne sprigionata anche dal ruolo della psyché, motore del principio insieme al caos. Tuttavia la psyché calata nella materia si sente a disagio, imprigionata in una dimensione a cui non fa riferimento. Alla sua nascita è infelice, dato che si ritrova a vagare nel labirinto del mondo materiale. Così come infelice è la psyché che nel Fedone desidera il ricongiungimento con la dimensione iperuranica.

A questo punto nel salmo compare la figura di Gesù, che invoca il Padre in modo da fargli volgere lo sguardo sulla creatura che rischia di allontanarsi da lui. Senza l’aiuto della figura divina, fa notare l’inno, la psyché peggiora la sua condizione. E allora Gesù, o la divinità prevista dall’autore originario, chiede al Padre di poter scendere sulla Terra dalla sfera celeste, superando tutti gli eoni e rivelando i misteri. «L’arcano della santa via, chiamandola gnosi, rivelerò»[15] è la sua invocazione finale, inviata al Padre per chiedere la liberazione della psyché dagli ostacoli del mondo materiale. Così come avrebbe fatto un orfico ai tempi della Grecia arcaica.

Ma prima di ciò, «mostrerò le figure degli dèi»[16] dice Gesù nel salmo, ammettendo in tal modo l’esistenza di altre divinità oltre a quelle citate dalla dottrina cristiana. Tale affermazione dimostra il forte sincretismo intrinseco ai seguaci della gnosi, in questo caso i naasseni, che tentarono di rivelare a tutti i popoli la forza della forma immanente nel mondo.

L’eresiologo Ireneo, nel suo lavoro di catalogazione delle dottrine gnostiche, riporta una concezione secondo cui viene considerata essenziale l’esperienza di vita di ogni psyché, anticamera della salvezza finale. Anche in questo caso la salvezza coincide con la separazione dal corpo. Le esperienze di vita sono fondamentali dato che la psyché deve trasmigrare di corpo in corpo in modo da esaurire i propri peccati. L’esperienza è ritenuta fondamentale grazie all’assoluta libertà morale professata da questa setta.


[1] M. Simonetti, Testi gnostici in lingua greca e latina, Mondadori, Milano 2003, p. XI.

[2] Ivi, p. XIII.

[3] Ivi, p. XX.

[4] Ivi, p. XIII.

[5] Orfici, 4 A 65. [Trad. di G. Colli]

[6] Platone, Fedone, 81 A. [Trad. di G. Reale]

[7] Platone, Fedro, 246 B. [Trad. di G. Reale]

[8] Ippolito, Confutazione VI, 29,2 in M. Simonetti, Testi gnostici in lingua greca e latina, cit., p. 327.

[9] Ivi, V 7,7, p. 53.

[10] Ivi, V 7,8, p. 53.

[11] Ivi, V 7,10, p. 53.

[12] Ivi, V 7, 22, p. 57.

[13] Ivi, V 7,25, p. 59.

[14] Ivi, V 10,2, p. 85.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.