«Il cuore pensante della baracca». Parola e silenzio in Etty Hillesum

di Nicoletta Celeste

Ci si deve sforzare […] di vedere per vedere e non più di vedere per agire. Allora l’assoluto si rivelerà molto vicino a noi, e in una certa misura, in noi.[1]

Sofferenza e fango: questa l’essenza di Westerbork, un campo di smistamento nell’ Olanda nordorientale e per molti ebrei l’ultima fermata prima di Auschwitz. Qui la giovane Etty (in realtà Esther) trascorre gli ultimi mesi della sua giovane vita fino al 15 settembre 1943, giorno in cui giunge al campo l’ordine improvviso di deportazione verso la Polonia. Durante l’ultimo viaggio in treno, Etty riesce nonostante tutto a gettare dal vagone una cartolina postale indirizzata a Christine van Nooten, ritrovata in seguito lungo la linea ferroviaria e spedita da alcuni contadini il 15 settembre 1943. Poche righe custodiscono il suo definitivo congedo dalla vita: «Abbiamo lasciato il campo cantando»[2].

Nei mesi della sua prigionia, in aperto contrasto con la disumanità che la circondava, Etty si pone, senza alcuna riserva, a servizio del suo popolo. In un primo momento a un livello più concreto, occupandosi della lunga fila di uomini, donne, bambini, malati e morenti che quotidianamente arrivava al campo. In un secondo momento e a un livello più essenziale, Etty vuole essere “il cuore pensante della baracca”, la testimone lucida e lucente di quella sofferenza che tutti gli altri suoi compagni “non vogliono pensare” e “non vogliono sentire”. Come una vigile sentinella in mezzo agli orrori dell’umano, Etty vive e racconta la sua esperienza nelle preziose pagine del Diario, all’interno del quale annota tutto ciò che accade dentro e fuori di lei con originale trasparenza, freschezza e intensità. Un vigore letterario che ci mostra una giovane donna consapevole delle proprie ombre spirituali, radicata nella sacralità dell’istante presente e proiettata nell’accettazione incondizionata della propria fine. Al contempo però la sua disperazione non è negata o ignorata, ma è interamente assorbita all’interno di due sorgenti fondamentali: la Vita e la Parola. Ed è su questi due aspetti fondamentali della “resistenza esistenziale” di Etty che desidero soffermarmi.

Ogni situazione, per quanto penosa, è qualcosa di assoluto e contiene in sé il bene come il male.[3]

Esiste un ritmo più profondo dell’esistere, impercettibile nella caotica frenesia della realtà quotidiana. Un ritmo in cui la vita si rivela per ciò che essa è veramente: una «grande, potente, e eterna corrente»[4] , un flusso di forze creative e cosmiche che accade sotto forma di movimenti, percezioni, processi. All’interno di essa ogni respiro, ogni piccola azione o parola di un essere umano trova il suo più profondo significato. È questo ritmo che Etty impara ad ascoltare quando ormai il mondo intorno a lei si era ridotto a una striscia di brughiera di cinquecento metri quadrati, una piccola fetta di puro caos, una palude umana di terrore e sofferenza. Il 15 dicembre 1941 è lei stessa a scrivere a proposito della necessità di accettare, assorbire, abbracciare l’inevitabile destino di morte e distruzione che incombe. E fare ciò nella consapevolezza filosofica che il nucleo essenziale della vita è quello di essere un’unità indivisibile di contraddizioni, un armonico insieme di bellezza e terrore la cui “assurdità” appare soltanto «non appena se ne accetta o rifiuta una parte a piacere, proprio perché […] perde allora la sua globalità e diventa tutta quanta arbitraria»[5]. Nell’anima di Etty si accende così una forte tensione esistenziale verso l’armonia della vita stessa e ciò la rende via via sempre più mite, sempre più fiduciosa. Si tratta di sentire la vita sempre chiara e nitida in tutti i suoi contorni, nonostante la generale rovina delle cose. Un sentire intenso e grande, sereno e riconoscente che le permette di scorgere la bellezza dell’esistere nelle cose più semplici: la lampada d’acciaio della sua scrivania, il ciclamino rosso-rosa, la poesia di Rilke, il ricordo del campo di lupini immerso nella confortante luce della luna, la vista del grande orizzonte che si può sempre scoprire «dietro il chiasso e la confusione di questo tempo»[6]. Il Diario rivela così la saggezza di una giovane donna che poco alla volta trova la propria pienezza esistenziale, scopre il proprio sé come parte limitata ma feconda di quel tutto che è la vita. Già alcuni anni prima, durante la sua formazione accademica, Etty era diventata fortemente sospettosa nei confronti di qualsiasi forma di vitalismo metafisico e dogmatico, nella convinzione che la vita reale non può mai essere ridotta a sistema, né imprigionata e costretta all’interno di rigidi schemi ideologici e/o concettuali. Solo la scrittura permette di trasformare i nudi fatti della vita in significati, attese, ricordi che diventano così materiale dell’immaginazione, della fantasia, della letteratura. La scrittura per Etty ha infatti primariamente una valenza soteriologica,in quanto è salvezza dalla povertà spirituale del suo tempo, è la sopravvivenza verbalizzante dei suoi pensieri più intimi, delle sue lotte interiori. È il tentativo di creare un tempo critico nel tempo sospeso e uno spazio libero nello spazio costretto. La scrittura è anestetica dal dolore, è disvelamento di sé nel mondo.

Chi come Etty Hillesum riesce ad accostarsi alla vita senza pregiudizi e a intenderla come un tutto ininterrotto ha trovato la vera chiave del fluire del mondo, ha realizzato il salto estetico ed estatico nella complessità del reale. Così nel luglio del 1942 scrive:

La maggior parte delle persone ha nella propria testa delle idee e stereotipate su questa vita, dobbiamo nel nostro intimo liberarci di tutto, di ogni idea esistente, parola d’ordine, sicurezza; dobbiamo avere il coraggio di abbandonare tutto, ogni norma e appiglio convenzionale, dobbiamo osare il gran salto nel cosmo, e allora, allora sì che la vita diventa infinitamente ricca e abbondante, anche nei suoi più profondi dolori.[7]

Il mistero della vita con le sue infinite sfumature richiede di essere interpretato, significato, raccontato. Richiede parole sempre nuove e sempre diverse per essere descritto nelle sue infinite combinazioni, nel suo caleidoscopico ritmo. Così la scrittura di Etty  insegna come vedere la luce che attraversa la polvere della realtà, come la pervade, la agita, la oltrepassa. Insegna a vedere come nelle più profonde tenebre dell’umano si stagliano invisibili scintillii, come tutto l’esistere sembri vibrare, nonostante il dolore che lo pervade, di una potenza catartica, luminosa, sacra.

È un venerdì sera del maggio 1942. Etty racconta nel Diario di aver trascorso tutto il pomeriggio con Evaristos Glassner, suo amico pianista, a guardare alcune stampe giapponesi. Ciò che, più di ogni altra cosa, le rimane impresso è l’impostazione grafica della scrittura giapponese, i cui caratteri, a differenza della maniera occidentale, appaiono giustapposti rispettando un ampio spazio tra una lettera e l’altra. Etty si rende conto che è proprio questo quello che vuole dalla sua scrittura: un’essenzialità ermetica ma profonda, rispettosa del «giusto rapporto tra parole e silenzio»[8]. Il silenzio che per lei non è qualcosa di vago e inafferrabile, ma il momento necessario dell’assorbimento ermeneutico delle parole e del loro autentico valore. Quel silenzio che è conditio sine qua non di ogni efficace comunicazione, che è più eloquente di mille parole, ciò di cui Etty rivendica la tonalità espressiva e lo spazio ermeneutico. Etty chiede così alla sua scrittura di generare «parole che siano organicamente inserite in un gran silenzio, e non parole che esistono solo per coprirlo e disperderlo»[9]. Il silenzio che ha la sua forma, i suoi angoli, i suoi contorni. Il silenzio che non è un semplice momento di vuoto tra una comunicazione e un’altra, ma è uno spazio «ricco d’anima»[10]. Non uno sfondo muto nell’alternarsi delle parole, ma qualcosa che rivendica una propria tonalità, un proprio colore, un proprio contenuto. Il silenzio è lo spazio necessario e imprescindibile allo schiudersi della parola più vera, più necessaria. Ne abbiamo un esempio evidente nella musica dove, senza le pause, le note si succederebbero in una caotica confusione o in una monotona ripetitività[11]. La musica è infatti «una particolare mescolanza tra la monotonia di intervalli sempre uguali e il caos di intervalli sempre diversi»[12].

E questo è ancora più vero per la Parola di YHWH, la Parola divina, la Parola sacra. Etty sa che YHWH è questo abissale mistero di Parola e Silenzio e che proprio nell’apparente nientità del dire Egli rivela la sua presenza. «Rimani in silenzio davanti al Signore e spera in lui»[13] può essere considerato l’imperativo esistenziale che accompagna i tristi giorni della vita di Etty, della vita di pochissimi ebrei che nonostante le atrocità del campo non hanno perso la fede. Dio è davvero immaginabile come quell’Oltre che le parole non riusciranno mai a esprimere, come cantano alcuni celebri versi luziani: «Infine crolla / su se medesimo il discorso, / si sbriciola tutto /in un miscuglio / di suoni, in un brusio. / Da cui / pazientemente / emerge detto / il non dicibile / tuo nome. Poi il silenzio, / quel silenzio si dice è la tua voce»[14].

E tuttavia, rispetto alla maggioranza dei suoi compagni, l’esperienza di Westerbork non porta Etty a interrogarsi sul silenzio di Dio, ma al contrario a porsi in silenzio dinanzi alle assurdità del suo tempo, con la consapevolezza che gli orrori che la circondano non derivano da un pericolo misterioso e lontano, ma nascono dall’interiorità degli uomini:

Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi possano crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime: così, grandi edifici e torri, costruiti dagli uomini con le loro mani, s’innalzano sopra di noi, ci dominano, e possono crollarci addosso e seppellirci.[15]

Le parole servono così soltanto a raggiungere l’Hineinhorchen, il “prestare ascolto dentro”: non una particolare capacità mistica o contemplativa, ma la forma più alta di attenzione verso il proprio sé. Il raggiungimento di ciò che già lo stesso re Salomone chiedeva a Dio: il lev shomeà, il “cuore capace di ascoltare”[16]. Perché per gli ebrei il cuore non è la sede dei sentimenti e delle emozioni, ma della ragione, della consapevolezza, del discernimento, della sapienza delle cose. Attingendo anche dalle poesie di Rilke, Etty comprende l’importanza della scelta pensata delle parole, del loro soppesamento, contrario a ogni forma di superficialità e/o ridondanza stilistica. Ogni parola infatti rende trasparente prima di tutto colui che l’ha scelta. Occorre dunque affidare alla parola e alla scrittura prima di tutto il silenzio, il vuoto gravido del dicibile, della rumorosità dell’essenziale. Solo allora si potranno scrivere poche ma coraggiose parole. Parole che esaltano proprio lo sfondo del silenzio, la sua forma.

  • “Il cielo sopra di me, il cielo dentro di me”

È l’1 luglio 1942 quando Etty scrive nel Diario: «Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so»[17]. Da questo momento in poi, Etty comincerà a convivere con questo destino, il destino dello sterminio, della morte. Tante cose sono successe dentro di lei, ma ora finalmente qualcosa si è cristallizzato. Etty ha guardato in faccia la possibilità della sua fine e si è accorta che questa possibilità fa ormai parte del suo modo di sentire la vita, senza fiaccarlo. Anche lei sperimenta così il suo autentico essere-per-la-morte[18]. D’altro canto, c’erano solo due estreme alternative: pensare solo a se stessi e alla propria salvezza senza riguardi, oppure: «semplicemente essere»[19]. Diventare semplici, svuotarsi di tutto, dei pensieri come delle parole. Soltanto tacere ed essere come «i gigli del campo»[20], il grano che cresce, la pioggia che cade. Vivere cioè sapendo di essere finiti in «uno spazio infinito, carico di minacce, ma anche di eternità»[21]. Capire che la vita piena e completa è solo quella che integra la possibilità della sua fine, del suo compimento, della morte.

In pagine vibranti di un intenso vigore spirituale e filosofico, Etty ricorda che l’uomo occidentale tende a non accettare il dolore e la morte come parte integrante della vita. E questa fuga, questo misconoscimento è il motivo della sua totale impreparazione interiore, della sua dispersione distratta nel mondo, della sua povertà spirituale. Così, da Westerbork, Etty scrive all’amica Maria Tuinzing: «La gente non vuole riconoscere che a un certo punto non si può più fare, ma soltanto essere e accettare»[22]. Non si tratta dunque di riuscire a tenersi fuori dall’inevitabilità della propria fine, ma di capire come vivere questa situazione, come vivere la propria fine. Le “cose ultime” infatti non possono esserci sottratte e allora occorre soltanto trovare il modo più autentico e fecondo di portarne il peso, di integrarle nel proprio esistere. In questa direzione la vita può apparire allora nella sua completezza, come uno spazio finito in un’infinita complessità che ci circonda e ci attraversa.

E anche nei più profondi abissi del male, del limite, della morte, Etty scrive che ci sarà sempre «un pezzetto di cielo da guardare e abbastanza spazio […] per congiungere le mani in una preghiera»[23]. Così, nella sua compiutezza, la vita è l’insieme delle forze cosmiche che traboccano dentro e fuori l’umano, è lo scorrere calmo e silente dei grandi fiumi, la durezza aspra e selvaggia delle montagne. Quando la nostra anima diventa un tutt’uno con questa grande e significativa continuità, quando tutto è stato portato dentro noi stessi, è possibile risignificare ciò che ci accade, rifare poeticamente il mondo cogliendone l’essenziale che lo costituisce. E per questo la scrittura di Etty è dunque anche poetica: perché è parola che racconta la profondità del male con delicatezza struggente, semplicità estetica e onestà intellettuale. Perché è parola di un dolore intriso di eternità che viene identificato, concettualizzato, purificato. Perché è parola che traluce la grandezza tragica di ciò che sovrasta ogni iniziativa individuale e rimane incompreso. Perché è parola che riflette l’ampiezza e la complessità del reale che è sempre in sé molteplice e contraddittorio.

L’esperienza di Westerbork è l’esperienza di una sofferenza che in Etty Hillesum si è nutrita di parola e che si è fatta Parola. Una Parola di fulgida bellezza, poetica appunto, che continua a parlarci, a colmare le reciproche distanze. Possiamo credere così che Etty sia riuscita veramente a diventare quel “balsamo per molte ferite” che tanto aveva sognato di essere. E di averlo fatto come poeta, diffondendo parole di coraggio, speranza e bellezza. Il poeta che, come lei, è “cuore pensante” che sta tra l’abisso della notte e il bagliore della vita variopinta. Il poeta che con verità disfa l’ingiustizia, la violenza, l’odio. Il poeta che, nelle parole di Walter Benjamin:

 

Se ne sta lì in calma immutabile,

solitario, appartato dalla strada della vita,

ora guardando al fondo di se stesso, ora

guardando con coraggio noi, su verso la luce.[24]

 

*Dedico questo testo a Patrizia, esempio di cosa significhi vivere custodendo il cielo dentro di sé.


[1] H. Bergson, L’evoluzione creatrice (L’Évolution créatrice, 1907), a cura di M. Acerra, Rizzoli, Milano 2012, p. 284.

[2] E. Hillesum, Lettere 1942-1943 (De nagelaten geschriften van Etty Hillesum, 1986), a cura di C. Passanti, Adelphi, Milano 1990, p. 149.

[3] Ivi, p. 119.

[4] E. Hillesum, Diario 1941-1943 (Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943), trad. di C. Passanti, Adelphi, Milano 1985, p. 86.

[5] Ivi, p. 143

[6] Ivi, p. 215.

[7] Ivi, p. 158.

[8] Ivi, p. 116.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] A questo proposito non si può non fare riferimento alla celebre composizione di John Cage dei primi anni 50 del secolo scorso, intitolata «4’33’’». Un brano costituito da tre movimenti il cui spartito dà solo l’istruzione del Tacet, ovvero ordina all’esecutore di non suonare alcuna nota. Nelle intenzioni dell’autore, la composizione, che prende il titolo dalla sua durata effettiva, ha lo scopo di esaltare il valore del silenzio e permettere allo spettatore di trasformare i rumori esterni e interni in musica. Cage nei suoi studi comprese che l’assenza di suono non è mai assoluta, che il silenzio è parte attiva della musica, che è, esso stesso, musica.

[12] A.G. Biuso, Aión. Teoria generale del tempo, Villaggio Maori, Catania 2016, p. 48.

[13] Sal 37, 7-8 .

[14] M. Luzi, Infine crolla, in Autoritratto, in Dottrina dell’estremo principiante, Garzanti, Milano 2004, p. 184.

[15] E. Hillesum, Diario, cit., p. 102.

[16] 1Re 3,9: «Concedi dunque al tuo servo un cuore che sappia giudicare il tuo popolo, in modo da distinguere il bene dal male; altrimenti chi potrà mai governare questo tuo popolo così numeroso?».

[17] E. Hillesum, Diario, cit., p. 138.

[18] Nelle parole di Heidegger: «L’essere-per-la-morte è l’anticipazione di un poter-essere di quell’ente il cui modo di essere ha l’anticiparsi stesso. Nella scoperta anticipante di questo poter-essere, l’Esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema […]. L’anticiparsi si rivela come la possibilità della comprensione del poter essere più proprio ed estremo, cioè come la possibilità dell’esistenza autentica», in M. Heidegger, Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927), trad. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, § 53, p. 317.

[19] E. Hillesum, Diario, p. 160. Il corsivo è mio.

[20] Cfr. Mt 6, 28.

[21] E. Hillesum, Diario, cit., p. 151.

[22] Id., Lettere, cit., p. 105.

[23] Id., Diario, cit., p. 173.

[24] W. Benjamin, Il poeta (Der Dichter), in Opere complete, trad. di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, vol. I, vv. 27-30, p. 11.

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