Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte

Recensione a:

Carlo Rovelli, Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte, Adelphi, Milano 2023, «Piccola Biblioteca Adelphi – 789», Pagine 144, € 14,00

di Enrico Carmelo Tomasello

 

Nothing shines unless it burns, nothing matters till it hurts
I shall never return

Nothing matters till you shine, fearless comets never die
I shall never return

Belladonna (Rockband)

  1. I fratelli minori dei buchi neri

I buchi bianchi sono i fratelli minori dei buchi neri. Questo è l’incipit da cui prendere le mosse per comprendere il rapporto di parentela tra i buchi neri (riconosciuti empiricamente dalla maggior parte dei fisici contemporanei) ed i buchi bianchi (solo ipotizzati teoricamente e non riconosciuti da tutta la comunità scientifica). Certo, trattandosi di fisica teorica la trattazione dell’indagine proposta da Rovelli potrebbe intimorire il grande pubblico e condurlo a desistere dalla curiosità di comprendere di cosa si tratti, ma il talento dell’autore consiste proprio in questo, nel riuscire magistralmente a rendere comprensibile ciò che all’apparenza sembra non essere alla portata di tutti. Per queste ragioni l’autore distingue due tipi di lettore ai quali è rivolto il testo ed un gergo differente per ognuno di essi, poiché: «Quando scrivo ho in mente due lettori. Uno non sa nulla di fisica: cerco di comunicargli il fascino di questa ricerca. L’altra sa tutto: cerco di offrirle prospettive nuove. Per entrambi riduco al succo: a chi non sa nulla di fisica penso interessi solo l’essenziale, i dettagli sono fardelli inutili. A chi i dettagli li conosce già, non interessa certo sentirseli ripetere»[1].

Ma cosa sono i buchi bianchi? Anticipando le conclusioni potremmo dire che il buco bianco è il contrario del buco nero. Dunque, bisogna comprendere cosa sia un buco nero? Con le parole di Rovelli: «La maggior parte dei buchi neri individuati nel cielo sono nati da stelle che hanno finito di bruciare […] Alla fine l’idrogeno si consuma, si trasforma tutto in elio e in altre ceneri che non bruciano più: la stella resta come un’auto senza benzina. La temperatura scende, il peso comincia a prevalere. La stella si schiaccia sotto l’effetto della gravità. La forza di gravità in una grande stella è immane, neanche la roccia più dura resiste alla sua pressione. Non c’è più nulla che riesca a impedire alla stella di sprofondare su se stessa. Così la stella sprofonda fin dentro il suo orizzonte. Si è formato un buco nero»[2]. Dalla genesi dei buchi neri, che coincide con la morte di una stella, muove il nostro itinerario scientifico; ed è da un parallelismo con la Divina Commedia, (in questo caso saranno le equazioni del 1915 prodotte da Einstein), che come Virgilio con Dante, ci guideranno all’interno dei buchi bianchi.

Adesso, ipotizzando di entrare all’interno di un buco nero, dovremmo andare oltre l’orizzonte prospettico che annulla l’efficacia della vista dell’occhio umano e di tutti gli strumenti di misurazione ottici ad oggi disponibili. Perché ciò che vedrebbe un osservatore da lontano (se avesse la possibilità di farlo) sarebbe il progressivo rallentare del tempo sino all’immobilità totale. Una volta entrati dentro un buco nero non si può più uscire. Neanche alla luce è concessa la possibilità di espandersi oltre. Ma questo effetto è solo ciò che arriverebbe a cogliere l’occhio dell’osservatore distante che guarda l’orizzonte (ovvero il bordo del buco nero). Andare oltre l’orizzonte e dunque all’interno del buco nero apparirebbe come un punto di non ritorno. Andare dentro l’orizzonte significa che quando stiamo sull’orizzonte, come quello del mare una volta raggiunto, quest’ultimo non esiste e si allontana di volta in volta. L’orizzonte è la nostra porta d’ingresso per entrare dentro un buco nero.

Nella soluzione del fisico Schwarzschild gli orologi si fermano ed il tempo si strappa sull’orizzonte, ma questo non è ciò che accade all’interno del buco nero bensì solo quello che noi vediamo dalla nostra prospettiva. Dato che: «È guardando da lontano che si vede rallentare a dismisura quanto accade vicino all’orizzonte»[3]. Dobbiamo necessariamente abbandonare le equazioni di Einstein all’interno delle cosiddette “singolarità” (ovvero quello spazio-tempo nel quale tutte le leggi della fisica ad oggi conosciute non sono più valide, dunque anche la Teoria di Einstein). Non dimentichiamo inoltre, che per comprendere il nuovo bisogna abbandonare qualcosa di vecchio. Poiché le teorie scientifiche come le idee filosofiche sono come delle zattere, utili alla sopravvivenza nella marea delle ipotesi non verificate ma non sempre sufficienti per il raggiungimento della terraferma epistemologica. Il paradigma prodotto dalle equazioni einsteiniane all’interno del buco nero subisce un bombardamento logico-ipotetico e non regge l’urto delle prove che gli vengono richieste di sostenere, di conseguenza subentra un nuovo paradigma[4], o meglio rientriamo nuovamente nell’ambito delle ipotesi. Rovelli, a questo punto, suggerisce che: «Per capire cosa succede a un buco nero, in altre parole […] Bisogna pensarlo come un lungo tubo con in fondo la stella che l’ha generato: il tubo si allunga e si stringe e nel futuro si schiaccia su una linea. La singolarità non sta al centro: sta dopo. Questa è la chiave della storia»[5]. E successivamente: «Un buco bianco è la stessa cosa: una soluzione delle equazioni di Einstein. […] Un buco bianco è il modo in cui apparirebbe un buco nero se potessimo filmarlo e proiettare il film al contrario»[6]. Questo è ciò che abbiamo compreso sino ad ora, ovvero che la scienza non è altro che il tentativo collettivo di costruire nuovi modi di pensare il mondo, dei modi non perfetti o ineccepibili ma che funzionino nelle condizioni date.

 

  1. L’angelo melanconico

La seconda immagine che propone l’autore proviene dal mondo dell’arte (intesa come il tentativo di costruire nuove visioni sul mondo e del mondo): quest’ultima si riferisce all’incisione Melancolia I di A. Dürer (1514), ed in particolar modo ad uno stato d’animo oltre che ad un’allegoria celeberrima, ovvero la Melencolia. Rappresentata da una figura alata che con fare pensoso esprime uno sguardo rassegnato, non rappresenta semplicemente una condizione emotiva individuale ma uno stato collettivo, ovvero l’impossibilità di cogliere la visione assoluta delle cose. La volontà che manifesta l’angelo melanconico di Dürer potrebbe essere paragonata e confrontata al riferimento che propone Agamben nel suo L’uomo senza contenuto[7]. Concetto ribaltato in positivo nella visione di Rovelli poiché la parzialità della nostra visione sulle cose ci concede una leggerezza che non avremmo avuto se fossimo obbligati a percepire il mondo sub specie aeternitatis. Una dolce vertigine travolge l’amante della conoscenza che mantiene l’oggetto del suo desiderio eternamente irraggiungibile. Beata è la sua condizione, perché non porta il peso della visione totale e completa delle cose, la quale presupporrebbe la responsabilità del conoscere.

Di conseguenza non avrebbe senso parlare di reversibilità ed irreversibilità nel processo di conoscenza, anzi sarebbe il caso che si parlasse d’intuizione pura. Mentre come ricorda Rovelli: «In tutti i processi irreversibili si forma calore. Anzi, a ben vedere è anche il contrario: ogni volta che c’è qualcosa di irreversibile c’è anche calore (o qualcosa di analogo al calore): il calore è il marchio dell’irreversibilità. È il calore che distingue il passato dal futuro»[8].

Da quest’ulteriore domanda vogliamo ripartire per affrontare il tema dell’asimmetria del tempo, ovvero: perché ricordiamo il passato e non il futuro? «Conosciamo il passato perché nel presente ci sono tracce del passato, per esempio nella nostra memoria. Queste ci sono perché nel passato c’era un disequilibrio. Non è un’intrinseca direzione del tempo a rendere conoscibile – determinato – il passato: è come erano disposte le cose a un certo punto del tempo, che chiamiamo passato. È il disequilibrio nel passato, solo questo, che dà luogo all’esistenza delle tracce. Dire che il passato è determinato equivale a dire che ne abbiamo molte tracce»[9]. Apparentemente banale, se non illogica, questa domanda per il fisico Rovelli rappresenta uno dei punti nevralgici del testo, poiché attraverso la sua risoluzione cogliamo il rapporto tra noi e le cose, oltre al significato ultimo della comunicazione ed il ruolo del gioco tra le parole. Infatti, possiamo concludere che: «Alla fine, il vero senso delle parole […] non è comunicare. È tenere le cose con noi, stare in relazione con loro»[10]. Si tratta sempre di ritornare alle cose, al nostro rapporto con loro che determina il nostro stare al mondo. Nell’essere-con esistiamo in una modalità autentica del vivere. Nella comunicazione che si fa linguaggio, nello stare che si fa presenza e nel mostrarsi che si fa epifania avviene la metamorfosi che tramuta l’inautentico nell’autentico, in ciò riposa il sacro della nostra esistenza.

A questo punto appare necessario chiedersi qual è il ruolo della nostra facoltà di scelta, nonché della libertà nostra e delle cose che ci circondano. Per risolvere quest’ulteriore dilemma Rovelli si affida alle riflessioni di Spinoza, che attraverso un esempio conduce il lettore alla chiarezza esplicativa. Nelle parole del filosofo olandese: «E per intendere questo chiaramente, pensiamo ad una cosa semplicissima. Per esempio, una pietra che riceve una certa quantità di movimento da una causa esterna che la spinge, per la quale, cessato l’impulso della causa esterna, continua necessariamente ad esser mossa. Dunque, questo permanere della pietra nel movimento è coatto, non perché necessario, ma perché deve essere definito dall’impulso della causa esterna […] Inoltre, poniamo ora, se vogliamo, che la pietra, mentre continua a muoversi, pensi e sappia di sforzarsi, per quanto può, di persistere nel movimento. Questa pietra, certamente, in quanto è consapevole unicamente del suo conato al quale non è affatto indifferente, crederà di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun’altra causa se non perché lo vuole. E proprio questa è quella libertà umana che tutti si vantano di possedere e che consiste unicamente nel fatto che gli uomini sono consapevoli dei loro appetiti ma ignorano le cause dalle quali sono determinati»[11]. È l’ignorare questo stato di cose che inganna la nostra mente ma che contemporaneamente ci permette di sopravvivere all’insostenibile verità che ci vede in balia degli eventi determinati e destinati a verificarsi inevitabilmente.

Giunti alle conclusioni il testo di Rovelli, resta aperto alla possibilità di rimettere sempre in discussione quanto detto, tenendo bene in mente come: «Il punto d’arrivo mi sembra straordinario: che siano i nostri neuroni, i nostri libri, i nostri computer, il DNA delle nostre cellule, la memoria storica di un’istituzione, l’intero contenuto di dati in internet, o la dolce guida, che sorridendo, ardea ne li occhi santi, la sorgente ultima di tutta l’informazione di cui è fatta la vita, la cultura, la civiltà, la mente non è altro che il disequilibrio dell’universo nel passato»[12].

[1] C. Rovelli, Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte, Adelphi, Milano 2023, p. 101.

[2] Ivi, pp. 23-24.

[3] Ivi., pp. 34-35.

[4] Cfr, T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 2009.

[5] C. Rovelli, Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte, cit., p. 51.

[6] Ivi, p. 65.

[7] Cfr. G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Milano 2022, pp. 128-132.

[8] C. Rovelli, Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte, cit., p. 93.

[9] Ivi, p. 113.

[10] Ivi, p. 124.

[11] B. Spinoza-G. H. Schuller, Lettera 58, in A. Sangiacomo (a cura di), Baruch Spinoza. Tutte le opere, Bompiani, Milano 2010, pp. 2111-2113.

[12] C. Rovelli, Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte, cit., p. 119.