La scrittura dell’appartenenza. Su «Passavamo sulla terra leggeri» di S. Atzeni

di Nicoletta Celeste

                                                                                        Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini.[1]

Sergio Atzeni non è autore universalmente noto, malgrado possa essere riconosciuto come uno degli scrittori di maggior rilievo della letteratura sarda contemporanea. Della sua terra, infatti, Atzeni ha fatto primariamente un ambizioso progetto letterario: raccontare la sua storia millenaria, le sue vicende culturali, religiose e sociali già a partire dall’Apologo del giudice bandito del 1968 fino a Passavamo sulla terra leggeri, a cui la successiva scomparsa dell’autore conferisce il valore di libro-testamento. Di seguito, vorrei concentrare l’attenzione proprio su quest’ultimo testo, pubblicato postumo da Mondadori nel 1996, nel quale Atzeni illustra le origini del popolo dei S’ard (i «danzatori delle stelle» secondo il significato fantastico immaginato dall’autore) attraverso un intreccio narrativo in cui storia, epica, mito e leggenda si fondono insieme per creare un’armonica e polifonica chanson de geste. Una chanson di antiche memorie, dunque, nella quale Atzeni racconta e inventa personaggi immaginari che si muovono, si perdono, si immergono all’interno del loro paesaggio naturale. I S’ard sono proprio questo paesaggio. La loro identità è infatti connaturata alle rocce con le quali hanno costruito i nuraghi, alle stelle dalle quali hanno calcolato spazi e distanze, alle montagne in cui hanno trovato rifugio e protezione dai nemici, al mare che ha fecondato la terra. Una chanson che nella sua ecletticità ed eccentricità stilistica sfugge a qualsiasi forma di reductio a un modello narrativo predefinito. Atzeni è sapiente miscelatore di generi ed esperienze letterarie disparate, offrendo quadri intrisi di una straordinaria vivacità alla quale il lettore si abbandona completamente, immerso nel flusso caleidoscopico di colori, sapori, suoni, canti. Immerso nell’inconfondibile sacralità di questa terra.

1. I danzatori delle stelle

Quello di Atzeni è, senza dubbio, tra le tante cose, anche un romanzo sul tempo. Sul tempo del racconto scandito dall’atemporalità sacra delle parole, delle righe, delle pagine, della memoria che travalica i rigidi steccati cronologici del tempo della storia. E tuttavia, proprio nelle prime pagine del romanzo, il tempo del racconto viene puntigliosamente e ironicamente registrato: è il 12 agosto 1960 quando il protagonista ascolta la storia di Antonio Setzu, anziano allevatore di cavalli che, in veste di “custode del tempo”, affida a un anonimo bambino il compito di custodire e trasmettere le antiche memorie del popolo sardo, attraverso un lungo e solenne racconto orale. Il bambino, che si rivelerà subito essere il narratore-scrittore (riflesso autentico dello stesso Atzeni), una volta cresciuto, diventerà anch’egli “custode del tempo”, purché rimanga fedele alle leggi dei suoi antichi padri. A questa storia il nuovo custode potrà aggiungere spiegazioni nuove e avvenimenti più recenti, rispettando sempre la chiarezza e la concisione dello stile. Ma più che una storia quella di Setzu è un vero e proprio itinerario esistenziale e fondativo alla scoperta della remota identità del popolo sardo. Anche per questo, nel racconto, all’io dello scrittore si alterna il noi del narratore che è espressione del senso collettivo della comunità dei S’ard. È, infatti, l’intero popolo a parlare e a raccontarsi attraverso le nobili parole di Antonio Setzu poste a incipit del romanzo:

 

Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle. Usir di Mo disse: «Il disegno del creatore è imperscrutabile, spesso la morte giunge inattesa e invincibile ma altrettanto spesso un pugnale di pietra levigata saputo usare al momento giusto salva la vita di un uomo». Non lasciavamo altre tracce che i nuraghe, le navi di bronzo di Urel di Mu e i piccoli uomini cornuti, guardiani dell’isola, che molti fecero imitando Mir. Nessuno sapeva leggere e scrivere. Passavamo sulla terra leggeri come acqua.[2]

 

Cantavamo, danzavamo, morivamo, passavamo. Così prevale nel racconto di Atzeni l’utilizzo di un tempo narrativo coniugato all’imperfetto per sottolineare la continuità e la ricorsività degli enti, degli eventi e dei processi che si susseguono vorticosamente nei secoli, nel tentativo di sottrarli al vortice del divenire. Atzeni vuole enfatizzare proprio quella durata, quella continuità del tempo trascorso in cui il passato degli antichi padri fa un tutt’uno con il futuro delle nuove generazioni e viceversa. Non esistono, infatti, distanze e scansioni storiografiche e cronologiche nel tempo della memoria degli avi. Atzeni dà vita a un particolare intreccio del tempo in cui il presente è quasi poco ravvisabile e il passato diventa costantemente nel racconto una contemporaneità-non-contemporanea. Il passato degli antichi avi, nel racconto di Atzeni, ha già un futuro, è già futuro. E se è vero che, lungo il corso dei secoli, gli uomini passavano, essi comunque erano felici. E lo erano soprattutto alle origini proprio perché la loro vita era semplice e leggera, radicata nel ritmo cosmico del sole, delle stelle, dell’acqua. Radicata nella natura, nei battiti profondi e inarrestabili dei suoi cicli e dei suoi mutamenti. Così Setzu descrive in cosa consiste questa eterea condizione di felicità:

 

Passavamo sulla terra leggeri come acqua […], come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.[3]

 

Ai bambini dei villaggi viene mostrata la vita, la vrai vie, quella che oltre ogni freneticità avviene «sui monti, nei campi, negli ovili»[4]. La vita della natura fatta di cicli, di mutamenti, di passaggi lenti. Ed è proprio entro queste indicazioni che i S’ard vivono e interpretano il tempo seguendo un suggestivo calendario lunare che segna i ritmi della natura: il “mese della neve”, il “mese del vento che piega le querce” o il “mese delle mandorle aspre”. È il tempo della terra, del mare e del cielo: il tempo del cosmo come stabile permanenza o come eterno ritorno.

In questo ordine è radicata l’epopea degli antenati. Miti e racconti leggendari sono profondamente intrecciati al paesaggio aspro, selvaggio e tormentato della Sardegna, alle sue rocce granitiche, alle fonti di acqua zampillante. Qui i S’ard costruiscono ventuno villaggi dove imparano a coltivare la terra, a raccogliere i frutti e le erbe, a catturare e mungere pecore e capre. E se nei periodi di pace i villaggi prosperano, è sempre dal mare che arrivano gli stranieri e i potenziali nemici con cui i S’ard si incontrano, si mescolano, scendono a compromessi. Segno che per Atzeni non esiste mai un’identità pura e omogenea, sia essa individuale o collettiva. L’identità di un popolo è sempre il risultato di una stratificazione carsica di culture ed etnie differenti. L’identità è sempre inclusiva, molteplice, meticcia, fondata sulla relazione con il diverso.

Come sostiene Zygmunt Bauman, l’identità è sempre un compito e mai un traguardo, qualcosa che «va inventato piuttosto che scoperto […], un obiettivo, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte ancora»[5]. Un’identità quella sarda che non è solo geografica, politica, ma anche etica e religiosa. Ogni villaggio pensa e vive, infatti, come una buona famiglia, dividendo il lavoro e i frutti della terra a seconda dei bisogni di ciascuno. Una vita idilliaca, semplice, interrotta e corrotta (in parte) dall’arrivo dei fenici. Antonio Setzu racconta che:

 

I fenici sbarcarono a Ch’ia […]. Chiedevano di potere costruire un porto per comprare e per vendere. Comprare formaggi, sale, carne salata di cervo e di pecora. Vendere gioielli, stoffe e spezie […]. I fenici avevano dèi di forma umana dotati di strani desideri, come mangiare i neonati, e strani poteri, come trasformarsi in animali per copulare con gli uomini […]. Forse costruivano il villaggio per incontrarsi di notte nei passaggi, sfiorarsi con curiosità o timore, toccarsi senza ritegno e copulare al buio non sapendo neppure chi fosse l’inviato dal destino. Non cercavano il buio per nascondersi ma per incontrare con la carne l’ignoto.[6]

 

Ben presto i fenici dimenticheranno anche gli dèi, pensando esclusivamente alle ricchezze, al lusso, al piacere. Sulle rovine dell’antico villaggio di Lo, essi fonderanno la loro prima città, Karale, la futura Cagliè-Cagliari, archetipo della vita corrotta e depravata. I fenici, dunque, non muovono guerra ai S’ard, ma cercano di corrompere la purezza della loro vita e delle loro radici, importando commerci, denaro, potere. Nonostante la parte più anziana e conservatrice della popolazione rifiuti ogni contatto con loro, i fenici trovano comunque accoglienza. D’altronde, come dice il narratore con profonda e lucida consapevolezza: «Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile»[7].

2. Tra Storia e microstoria

L’incontro-scontro più problematico, nella storia dei S’ard, è senza dubbio quello con i romani. A precederli è, infatti, una fama di assassini spietati, di uomini-lupi il cui primario interesse non è quello di commerciare, ma di occupare, depredare e conquistare la terra. Essi sono come «erba maligna che riempie tutto il pascolo uccidendo l’erba buona e se tenti di strapparla ti avvelena»[8]. La paura è talmente grande che i sardi scelgono di non affrontare apertamente il nemico, ma di rifugiarsi e difendersi nell’entroterra dell’isola, sulle montagne e nelle zone interne delle grandi foreste. La Storia dell’invasione romana e della difesa dei sardi si oppone, nel romanzo, alla microstoria di Amsicora, guerrigliero rivoluzionario che incalza le genti dei villaggi alla resistenza armata contro il nemico invasore. Ma la sua decisione, come saggiamente avevano previsto i giudici e quanti si erano già rifugiati, costerà cara:

 

Amsicora portò dieci genti nella piana. I romani erano appostati sugli altopiani, cento e cento uomini e cavalli. Scesero alle spalle di Amsicora. Altri romani uscirono da Karale e andarono incontro ai rivoltosi. Molti romani erano sbarcati da molte navi […]. Amsicora circondato si arrese senza opporre resistenza. Mille sardi furono fatti schiavi. Urur commentò: «Novecentonovanta balentes in meno per difendere la montagna»[9].

 

Quello di Amsicora è uno dei tanti esempi di microstoria presenti nel romanzo di Atzeni, nella quale l’autore sembra espressamente compiere un’operazione di declassamento e di demitizzazione dell’eroe. Nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma sempre attraverso quella complessa trama di relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana. Atzeni è consapevole del fatto che non c’è mai identità piena senza l’appartenenza a un popolo e che la Storia è costituita dalle infinite microstorie umane inanellate tra di loro. E si tratta, su un piano più strettamente formale, di un percorso di vera e propria “inversione” rispetto al modello epico omerico nel quale, dopo aver concentrato l’attenzione del lettore sul clamoroso successo dell’impresa collettiva di Troia, si passa, nell’Odissea, al tema microstorico del viaggio del singolo individuo. In Omero, un personaggio di spicco della collettività diventa l’eroe del racconto, il tema dell’azione viene completamente modificato (dall’impresa guerresca all’avventura), così come si modifica anche:

 

l’atteggiamento narrativo, con un’improvvisa e quasi completa focalizzazione sul solo eroe – e, secondariamente, nella Telemachia, sul figlio – che rompe completamente con l’olimpica oggettività […] del mondo epico. Si tratta, quindi, di un cambiamento di genere, perché Omero percorre così più della metà del cammino che separa l’epopea dal romanzo: passaggio dal tema guerresco al tema dell’avventura individuale, riduzione della molteplicità dei personaggi a un eroe centrale su cui viene prevalentemente focalizzato il racconto.[10]

 

Atzeni offre, così, ai lettori l’immagine di una comunità che è stata in grado di resistere ai germi di disfacimento politico e morale e alla potenziale dissipazione della propria identità. La disposizione narrativa, dal tono epicizzante e mitopoietico, è alla base, nel romanzo, del recupero di una Sardegna che difende la purezza delle sue origini di fronte all’incipienza di una civiltà contemporanea totalmente votata al benessere, al consumo, all’individualismo più sfrenato. Possiamo, dunque, ben dire che i romanzi di Atzeni si collocano proprio agli antipodi della scrittura letteraria postmoderna: l’autore non descrive mai un contesto territoriale e sociale che gradualmente si è globalizzato, ma attraverso la rivendicazione della “sardità” del suo popolo, vuole produrre un senso di discontinuità rispetto al tentativo di omologazione politico-culturale del nostro secolo. Ciò che conta davvero è porre in rilievo la diversità della Sardegna, l’originalità esistenziale dei suoi personaggi umani e delle sue microstorie. Quella di Atzeni è allora autentica scrittura dell’appartenenza perché della sua terra e della sua gente ne scandaglia gli abissi profondi dell’anima, perché compie un “movimento a ritroso” verso un passato antico che illumina il presente e ne preannuncia il futuro. In quanto tale, la Storia non è mai, infatti, qualcosa che può appartenere a tutti in modo unico e univoco. La Storia nasce dalla ricostruzione microstorica di un insieme di personaggi, di eventi, di vissuti che vengono interpretati e diventano memoria.

Come sottolinea bene Ernesto Ferrero, Atzeni non fu soltanto uno scrittore di memorie sarde, ma:

 

un antropologo, uno storico delle culture materiali, un aedo, un affabulatore, un cacciatore di storie, perché nella caotica imprevedibilità delle storie sta l’uomo tutto intero, il suo destino, la sua follia, la superstite scintilla che ci fa ancora sperare in lui. Era un sognatore concreto, che conosceva tutti gli odori, i sapori, gli umori della terra. Un utopista disincantato pronto a esorcizzare con un sorriso ironico e carico di pietas le mille miserie del mondo che avrebbe voluto cambiare.[11]

 

Un autore inattuale, dunque, che appartiene al passato tanto quanto il passato gli appartiene. L’andamento rapsodico del racconto si esprime nel susseguirsi delle microstorie, intervallate da spazi bianchi che più che indicare stacchi narrativi o tematici, servono a conferire un movimento quasi musicale e armonico al lungo racconto di Antonio Setzu. Come una pianta rampicante, le microstorie si avvolgono su loro stesse, ma allo stesso tempo si espandono senza fine in una movenza narrativa sincopata che dispiega il passato, illumina ogni istante del presente e precorre il futuro. Il custode del tempo si rivela allora custode dell’atemporalità sacra della memoria collettiva che è innanzitutto appartenenza oltre che a un genos, anche a un topos, la Sardegna, che è la scaturigine stessa della loro peculiare differenza ontologica ed esistenziale.

Passavamo leggeri sulla terra si conclude con la definitiva sottomissione del popolo sardo alla forza degli stranieri invasori. La “resistenza dell’appartenenza” è terminata. Già la dominazione dei Savoia tenta di camuffare la storia ufficiale con notizie false e «spezzare il filo che lega la sovranità dei sardi alla terra dei sardi»[12]. Gli storici savoiardi desiderano così estirpare ogni sentimento di appartenenza, diffondendo l’idea che i sardi siano un popolo da sempre sottomesso, passivo, privo di una propria e originale identità. Ma, come afferma Antonio Setzu: «La storia talvolta non è il campo della verità»[13].

Così, seppur annegati in un mare di predoni e spaventati da un futuro che prevedono ancora più minaccioso e scuro, i S’ard sanno di non aver perso del tutto quella libertà e quell’identità difesa dopo un millennio di lotte e resistenza. Resta, infatti, un libro. Il libro. La Bibbia apocrifa di Lucifero, il santo “portatore di luce” che ha diffuso nell’isola la parola viva di Iesus. Una parola che ha «la forza del fulmine e del mare in tempesta»[14]. Una parola di libertà dal dolore dell’universo, dall’oppressione della schiavitù, dalla paura della morte. Nonostante gli spagnoli distruggano irrimediabilmente le mura di Arbarè, ultimo baluardo della loro coraggiosa resistenza, tutto sta però continuando a vivere e a sopravvivere nel libro di Lucifero. Il libro in cui si erano ri-conosciuti e che era stato, per secoli, il testo fondativo del modus vivendi della comunità e delle sue decisioni quotidiane. Come racconta Setzu nelle ultime pagine del romanzo, il libro, quasi miracolosamente, sfugge alla foga degli invasori:

 

I monaci crociati scavarono sotto il palazzo. Trovarono la cripta, la cassa, il libro di Lucifero. Non ebbero il coraggio di leggerlo, lo misero dentro una cassa dipinta di nero […]. Su un carro trainato da due buoi viaggiava un monaco crociato in piedi che mostrava la cassa minacciosa […] fino al porto di Cagliè dove li aspettava un veliero […]. La nave che portò il libro di Lucifero e i monaci fu attaccata dai pirati morus, un monaco si gettò in mare con la cassa e pregò le parole di Lucifero imprigionate là dentro di salvargli la vita. In cambio promise di occultare il libro, una volta a Roma. Le correnti benevole lasciarono uomo e cassa sulla sabbia di Ostia.[15]

 

Il cielo stellato e le dolci correnti d’acqua. Tra questi due elementi primordiali, tra queste due potenze cosmiche si chiude il cerchio del lungo racconto di Atzeni. La gioia sarà, dunque, eterna e infinita per i S’ard perché, grazie al libro di Lucifero, eterna sarà la memoria del loro popolo, delle loro origini. Gioia che è possibilità di ripetere sempre quel passato, di risentire, come Marcel Proust insegna, la pienezza del tempo rarefatta in Assoluto, in eterna atemporalità[16]. Il tempo si rigenera nella tradizione che è innanzitutto memoria. Memoria che è sempre un atto creativo, presente più nell’adesso dei giorni che nel loro ieri.

Anche il racconto di Atzeni insegna, dunque, che il presente è sempre presente storico, che il passato è sempre presente di memorie sempre attuali e sempre immanenti. È con la totalità del nostro passato, con le curvature originarie della nostra anima che si è inscritto in noi chi siamo, cosa desideriamo, cosa amiamo. Nelle sapienti parole di Henri Bergson: «Come l’universo nel suo insieme, come ogni essere cosciente distinto, l’organismo che vive è qualcosa che dura. Il suo passato si prolunga interamente nel suo presente, vi resta attuale e attivo»[17].

 La biografia autentica di un individuo è sempre biografia condivisa da un popolo. E l’esistere si passa dagli umani agli umani[18]. Noi siamo, allora, la fedeltà possibile «a tutto ciò che ogni uomo ha sperato e patito»[19], fedeltà a tutto ciò che ci è stato consegnato[20]. Noi siamo gli antichi padri che ci hanno preceduto. Noi siamo la possibilità esistenziale del loro ricordo vivo e vitale. Noi siamo quella “superstite scintilla” del loro canto, del loro sogno, della loro sempiterna eredità. Perché, come insegna Atzeni, anche noi uomini che oggi siamo, un giorno eravamo. Perché anche noi, sulla terra, Passavamo.

*Questo testo è dedicato agli uomini sardi che hanno accompagnato il mio cammino. A quelli che sono e, soprattutto, a quelli che sono stati.


[1] C. Pavese, Le Muse, in Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 2020, pp. 168-169.

[2] S. Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, Ilisso, Nuoro 2000, p. 65.

[3] Ivi, p. 56.

[4] Ivi, p. 57.

[5] Z. Bauman, Intervista sull’identità (Identity. Conversations with Benedetto Vecchi, 2003), trad. a cura di F. Galimberti, Laterza, Bari 2003, p. 13.

[6] S. Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, cit., pp. 66-67.

[7] Ivi, p. 78. Il corsivo è mio.

[8] Ivi, p. 89.

[9] Ivi, p. 87.

[10] G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, (Palimpsestes, 1982), trad. a cura di R. Novità, Einaudi, Torino 1997, pp. 208-9. 

[11] E. Ferrero, Custode delle memorie, in «La grotta della vipera», n. 72-73, 1995, p. 27.

[12] S. Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, cit., pp. 127.

[13] Ivi, p. 128.

[14] Ivi, p. 94.

[15] Ivi, p. 202.

[16] Penso a questo riguardo al celeberrimo episodio della madeleine della Recherche, in cui Proust scrive a proposito della gioia: «Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. […] Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? […] Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? È chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. La bevanda l’ha risvegliata, ma non la conosce […]. Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito. Trovare la verità è compito suo». M. Proust, Dalla parte di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, trad. a cura di G. Raboni, Mondadori, Milano 2014, p. 56.

[17] H. Bergson, L’evoluzione creatrice (L’évolution créatrice, 1907),trad. a cura di M. Acerra, Rizzoli, Milano 2012, pp. 21-22.

[18] Per queste riflessioni ringrazio il Prof. Eugenio Mazzarella.

[19] C. Pavese, Gli dèi, in Dialoghi con Leucò, cit., p. 175.

[20] Lo spiega chiaramente anche M. Recalcati: «L’eredità è innanzitutto relazione con la nostra stessa provenienza, responsabilità di coltivare quello che abbiamo ricevuto dall’Altro senza però misconoscerne il debito», in Id., La notte del Getsemani, Einaudi, Torino 2020, p. 8.