Un appunto «impudico» su Il Dolore di Giuseppe Ungaretti

di Sarah Dierna

«Questo pianto che pulisce lo sguardo e dà forza»

(C. Pavese, Dialoghi con Leucò)

1. Seduzione e segretonella poesia di Ungaretti

«Il Dolore», scrive Giuseppe Ungaretti, «è il libro che di più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudico»[1].

C’è del vero. E questo vale anche da parte del lettore che decide di saggiare questa raccolta. Prima di provare a dire qualcosa su queste poesie, infatti, vorrei far valere anche per Ungaretti – quasi a mo’ di necessaria premessa e quindi, in parte, di onestà intellettuale – ciò che il poeta diceva di se stesso a proposito della fascinazione subita dalla lirica di Mallarmé: «Conta poco capire alla lettera la poesia: la sentivo. Mi seduceva con la musica delle sue parole, con il segreto, quel segreto che mi è tutt’oggi segreto»[2]. Seduzione e segreto che credo appartengano anche alla poesia di Ungaretti.

La seduzione con cui la sua «musica» conquista passando per una poesia che narra lo strazio ma non dimentica la gioia – non la comprendo, ma la apprezzo –, che nasce da un grido ma si volge in canto per il lettore che sarà sinceramente disposto a mettersi in ascolto.

Il segreto quasi inevitabile, quale che sia la forma letteraria che lo racconta. Il segreto che rappresenta infatti la condizione inattingibile da cui qualsiasi letteratura o filosofia in fondo scaturisce e insieme ciò che permette a chi ne è l’autore di mantenere ancora intima la propria opera, nonché aperto il percorso ermeneutico del suo interprete.

Tanto più, tale segretezza, mi sembra non oltrepassabile per Il Dolore in cui le poesie sono il pianto di un padre che ha perso il figlio, di un ragazzo che ha perso il fratello, di un adulto che ha perso l’infanzia. Credo ci sia del vero nel ritenere che quello con il dolore, per quanto comune alla vita di ciascuno, sia comunque un rapporto profondamente chiuso intimo e insondabile da parte di qualsiasi alterità diversa dalla propria.

Che sia compreso, raccontato, intuito, o narrato attraverso la scrittura, ci sarà sempre un margine al di là del quale il segreto si conserva e in questo modo si preserva sollecitando così un ascolto che sarà sempre e soltanto nostro. Che poi è anche la condizione del suo attraversamento, della sua accettazione e, in ultimo, del suo superamento, come insegna saggiamente la lunga permanenza presso la Fortezza Bastiani del giovane tenente Giovanni Drogo: «Gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita»[3].

2. Diventare grandi

Forse perché si parla dell’infanzia perduta; forse perché a essersi spento è stato un bambino, Antonietto, di appena nove anni; forse perché le poesie di questa raccolta sono le lacrime di un uomo che la vita ha messo quasi subito in prossimità della morte; forse per queste e per altre ragioni mi è parso che leggere Il Dolore significhi comprendere davvero cosa voglia dire diventare grandi.

La prima sezione (Tutto ho perduto) inizia infatti con la sepoltura della propria infanzia «nel fondo delle notti» insieme a quella del fratello. Dell’infanzia gaia e spensierata trascorsa nella gioia del sapersi tenuti per mano e di cui adesso resta una spalla vuota, nell’amore fraterno – non scelto, già deciso, e per questo incondizionato – di cui sopravvive la disperazione e il ricordo:

 

Ma di te, di te più non mi circondano

Che sogni, barlumi

I fuochi senza fuoco del passato.

La memoria non svolge che le immagini

E a me stesso io stesso

Non sono già più

Che l’annientante nulla del pensiero[4].

 

È vero, i bambini, anche i meno capricciosi, trovano nel grido la forza e la semplicità di smemorarsi; di cancellare nel pianto il ‘torto’ subito perché il gioco possa continuare; un’immagine che in prosa assumerebbe le sembianze di quel giovane Patroclo dipinto da Pavese in dialogo con il compagno e amico Achille (I due).

Crescendo però il grido non basta più. Da bambini sarà capitato quasi a tutti di accogliere con sottile sgomento le lacrime dei ‘grandi’ perché da piccoli c’è come la speranza e l’illusione che la vita adulta non conosca più il pianto; è una sorpresa e insieme una difficoltà scorgere le lacrime nel volto adulto e rigato dagli anni ormai maturi ai quali si chiede con stupito – più che rispettoso – silenzio di smettere perché i ruoli possano tornare quelli di sempre, perché le lacrime tornino a essere mezzo ed espressione dell’età ancora tenera della vita. Invece il pianto non si interrompe, si solidifica anzi in una «roccia di gridi»[5], lì immobile e pronto a gocciolare ancora e sempre, svuotato però, col passare degli anni, della semplice capacità di dimenticare.

Può dunque dirsi duplice il lutto del poeta. Con il fratello torna alla terra anche una fase della propria esistenza, un modo di viverla che corrisponde alle «fiduciose mani» di Antonietto; alla sua vivace presenza per casa che risolleva e dà speranza a un uomo stanco perché in lui non c’è ancora la stanchezza del mondo e in cui traspare la speranza di un domani il cui sopraggiungere avrebbe recato con sé la stessa innocenza di quella voce bianca soffocata invece dalla malattia.

Ma del mondo sognato, atteso, anelato e voluto non rimane pressappoco niente crescendo. Per questo ogni condizionale ‘potrebbe’ ‘potresti’ ‘ripotrebbe’ dell’ultima poesia (Terra) resta soltanto ipotetico, superato e vinto dal grido dei morti, vale a dire dal loro silenzio che diventa grido e strazio per coloro che restano, costretti a convivere con il dolore della perdita, con il dolore di assistere alla morte altrui, con il dolore di sapere la propria. Nient’altro poi che il dolore di ogni vita.

Ne Il tempo è muto – dedicata sempre al figlio scomparso – Ungaretti parla di un’illusione che non è più solo della mente gloriosa e desiderante, ma anche del mondo; per questo per il rematore-figlio stremato e inerte forse «cadere fu mercé…»; in questo modo egli «non seppe / Ch’è la stessa illusione mondo e mente, / Che nel mistero delle proprie onde / Ogni terrena voce fa naufragio»[6]. Non conobbe insomma la morte (se non la propria), al padre invece così tristemente nota sin dalla prima infanzia: 

 

Sentimento della morte, sino dal primo momento, e attorniato da un paesaggio annientante: tutto si sgretola, tutto, credo di averlo già detto: tutto non ha che una durata minima, tutto è precario. Ero preda, in quel paesaggio, di quella presenza, di quel ricordo, di quel richiamo, costante, della morte[7].

 

Come è accaduto con il fratello, anche del figlio Ungaretti evoca la presenza in immagini che appaiono semplicemente commoventi. Sembra quasi vederlo questo bambino far sentire la sua presenza per casa mentre il padre lavora con impegno e concentrazione in una stanza; o sollevare le mani al cielo per abbracciare il sole e in esso la vita o ancora arrampicarsi agile per guardare le testuggini dall’alto di uno scoglio.

Un Amaro accordo di ricordi riempie adesso le stanze vuote del poeta; presto però, anche questi ricordi saranno spazzati via dalla risacca del mare. Sulla morte si conclude infatti Amaro accordo e Tu ti spezzasti. Perché quelle della memoria, come ha già detto per il fratello, non restano che immagini, e i suoi barlumi sono fuochi la cui fiamma non sfavilla più, detriti sul bagnasciuga che le onde salate presto trascineranno con sé rendendoli «un inutile infinito» mentre il mare da cui tali onde prendono la rincorsa «voce d’una grandezza libera, / Ma innocenza nemica dei ricordi, / Rapido a cancellare le orme dolci / D’un pensiero fedele…».

Il mare che cancella questi residui dolci d’esistenza, «echi brevi protratti, / Senza voce echi degli addii/ A minuti che parvero felici…».

Il mare, infine, che non è soltanto loro nemico, bensì talvolta anche lieve amico: «Le sue blandizie accidiose / Quanto feroci» ma anche «quanto, quanto attese»[8] se, nel loro ritirarsi, lasciano nel fondo le taglienti schegge del dolore.

3. «L’aurora e intatto giorno». La necessità del dolore

Antonietto non resta però solo un dolce e amaro ricordo. Dopo la primavera e l’estate, dopo avere attraversato l’autunno e benedetto l’inverno che di uno spoglio desiderio è la stagione più clemente, dopo lo schianto che amare produce, dopo la notte che segue all’inabissarsi di quella tortura segreta del crepuscolo, il sole torna a bussare dai vetri e le aiuole a riempirsi di ortensie, le pareti non sono più una prigione ma la premessa di un orizzonte nuovo.

Antonietto insomma non resta soltanto un’ombra – «Mai, non saprete mai come m’illumina / L’ombra che mi si pone a lato, timida, / Quando non spero più…»[9] – ma diventa l’aurora di un nuovo giorno, l’alba di un nuovo inizio:

 

Fa dolce e forse qui vicino passi

Dicendo: “Questo sole e tanto spazio

Ti calmino. Nel puro vento udire

Puoi il tempo camminare e la mia voce.

Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso

Lo slancio muto della tua speranza.

Sono per te l’aurora e intatto giorno”[10].

 

Il dolore patito e vissuto, pianto e agonizzato, diventa la condizione affinché un nuovo fiore possa sbocciare, una nuova primavera seguire a quell’inverno in cui soltanto Ungaretti ha sperato.

C’è un senso in cui il dolore diventa quasi necessario e certamente edificante in questa raccolta: è necessario affrontare la notte per vedere la luce.

C’è un senso in cui tale condizione trasforma e rinnova anche l’essere umano che ne è travolto, come se è dell’uomo la stessa passione che è stata del Figlio e che Ungaretti canta:

 

Fratello che t’immoli

Perennemente per riedificare

Umanamente l’uomo,

Santo, Santo che soffri,

Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,

Santo, Santo che soffri

Per liberare dalla morte i morti

E sorreggere noi infelici vivi[11]

 

in versi che ricordano il Dio che affanna e che suscita, che atterra e che consola dedicati a Napoleone da Alessandro Manzoni. C’è un senso, insomma, in cui anche il dolore acquista un senso.

‘Ora che’ anaforicamente si ripete nel componimento Mio fiume anche tu. Ora che il dolore è avvertito «m’accende ancora la speranza». Ora che la «notte triste» scorre come quel «Tevere fatale» il poeta impara che «l’inferno s’apre sulla terra / Su misura di quanto / L’uomo si sottrae, folle, / Alla purezza della Tua passione»[12].

Mi pare sia in questo riscatto che possa e debba ricercarsi la chiave edificante del dolore, il chiarore nello strazio da cui emergono queste poesie. Come a dire che sarà solo sottoponendosi al vaglio del proprio esserci in modo lucido, distante e consapevole – vale a dire secondo uno ascolto autentico che non soverchia l’io costringendolo a una forma, ma lasciando piuttosto che da sé trovi una forma – che le ferite si possono finalmente rimarginare, riconciliando in questo modo l’umano con la realtà di cui è parte.

Tale riconciliazione in Ungaretti diventa profondamente religiosa. Il poeta trae infatti rinnovata la propria fede dall’elenco di una sofferenza inaudita che il verso riesce a comunicare e la parola scelta a focalizzare.

4. Poesia e salvezza

Nella Nota introduttiva, Ungaretti dedica alla poesia una pagina che vale la pena riportare per esteso:

 

L’esperienza poetica è esplorazione d’un personale continente d’inferno, e l’atto poetico, nel compiersi, provoca e libera, qualsiasi prezzo possa costare, il sentire che solo in poesia si può cercare e trovare libertà. Continente d’inferno, ho detto, a causa dell’assoluta solitudine che l’atto di poesia esige, a causa della singolarità del sentimento di non essere come gli altri, ma in disparte, come dannato, e come sotto il peso d’una speciale responsabilità, quella di scoprire un segreto e di rivelarlo agli altri. La poesia è scoperta della condizione umana nella sua essenza, quella d’essere un uomo d’oggi, ma anche un uomo favoloso, come un uomo dei tempi della cacciata dell’Eden: nel suo gesto d’uomo, il vero poeta sa che è prefigurato il gesto degli avi ignoti, nel seguito di secoli impossibile a risalire, oltre le origini del suo buio[13].

 

Per l’autore, in altre parole, la poesia scaturisce dalla biografia del proprio esistere e al proprio esistere ritorna investita di tutta la sua potenza redentiva in una salvezza tutta immanente evocata dalla carica della parola detta, che è la parola detta come «ritrovamento di un linguaggio liberatore» perché riesce «a manifestare l’angosciosa ricerca di sé»[14].

Per ricordare la definizione di un altro affascinante poeta, Vittorio Sereni, la poesia si dispiega come campo di forze in cui ogni parola è la parola; in cui persino la punteggiatura non scandisce soltanto il ritmo bensì il momento in cui al lettore è chiesto di fermarsi per scorgere la verità che il poeta gli sta rivelando. Anche l’esperienza poetica che nasce dai propri giorni contribuisce a creare uno spazio rivelatore di senso perché la vita a cui Ungaretti attinge è sempre la Vita d’un uomo.

Tale esigenza della parola ne Il Dolore (1937-1946) emerge con una quasi indiscutibile chiarezza in almeno due poesie: Folli i miei passi e Nelle vene, appartenenti entrambe alla sezione Roma occupata (1943-1944).

Mentre la prima si presenta come il resoconto di una passeggiata che il poeta compie in una Roma ormai attraversata dalla risalita delle truppe alleate dopo lo sbarco in Sicilia del 1943, la seconda assume invece il tono e la forma di una preghiera laica che Ungaretti rivolge alla sua «Mente Genitrice».

Del fuoco che ha incendiato un pino (Incontro a un pino) resta soltanto il fumo dal quale riemerge adesso il Colosseo sotto un cielo di nuovo azzurro di aprile (Defunti su montagne). Di città una volta «piene di tempo» e di «usate strade / […] / Che una volta d’incanto ci muovevano» rimane ora l’eco di un lamento come d’agnello piangente che esce dalle abitazioni che «più non ne hanno allegria»[15].

 Della storia di Roma restano soltanto i monumenti. Fra questi è la cupola di Michelangelo a colpire l’occhio del poeta:

 

Appresero così le braccia offerte

-I carnali occhi

Disfatti da dissimulate lacrime,

l’orecchio assurdo, –

Quell’umile speranza

Che travolgeva il teso Michelangelo

A murare ogni spazio in un baleno

Non concedendo all’anima

Nemmeno la risorsa di spezzarsi.

Per desolato fremito ale dava

A un’urbe come una semenza, arcana,

Perpetuava in sé il certo cielo, cupola

Febbrilmente superstite[16].

 

L’antico monumento restituisce, in uno scenario in cui ogni cosa appare provvisoria, la fisionomia di una permanenza, il residuo superstite della distruzione nonché la speranza di credere che non tutto è stato perduto, che non da zero bisognerà ripartire. Che c’è ancora qualcosa. Qualcosa resiste al tempo. Per questo «non uno dei presenti sparsi oggetti, / Invecchiato con me, / O a residui d’immagini legato / Di una qualche vicenda che mi accorse, / Può inatteso tornare a circondarmi / Sciogliendomi dal cuore le parole»[17]. Parole e immagini, questo soltanto resta. Restano soprattutto iscritte nella memoria, caricate di un sentimento che rende ancora viva la speranza e non permette all’anima di «spezzarsi».

Emerge a questo punto il primo significato redentivo della poesia, intesa qui come poiesis nel senso più generale del termine. Nella parola scritta c’è la fissità – per citare sempre Sereni – che non permette alle parole – come fa il poeta di Luino – di nascondersi dietro alle cose, bensì di porsi loro dinnanzi per nascondere il segno di un tempo consumato nella distruzione e che diventa adesso ragione di «semenza, arcana».

Il secondo significato, più profondamente redentivo della poesia può invece ricavarsi dalla seconda lirica ricordata, Nelle vene. Ci si può infatti accostare a questa poesia come una sorta di preghiera laica che il poeta rivolge a se stesso affinché «nel librato paesaggio» questi «possa / Risillabare le parole ingenue».

Alla mente genitrice chiede infatti Ungaretti:

 

Nelle vene già quasi vuote tombe

L’ancora galoppante brama,

Nelle mie ossa che si gelano il sasso,

Nell’anima il rimpianto sordo,

L’indomabile nequizia, dissolvi;

Dal rimorso, latrato sterminato,

Nel buio inenarrabile

Terribile clausura,

Riscattami, e le tue ciglia pietose

Dal lungo tuo sonno, sommuovi[18].

 

La parola che volge il pianto in scrittura e le grida in canto, che dà forma al dionisiaco, misura al disordine dell’esistenza, in una parola: pace («Misura incredibile, pace» scrive Ungaretti nella stessa poesia).

La poesia dissolve in questo modo il dolore, il singhiozzo e il rimorso perché li attraversa, cercando una parola che possa esprimerne l’angoscia e favorire un ricongiungimento con i pezzi frantumati di sé e, così facendo, «trovare la via di assomigliare a se stesso, di costituire la propria unità». «Quell’unità non l’avremmo mai trovata altrove se non ricorrendo alla poesia»[19].

L’esperienza poetica diventa così il luogo in cui potere «sciogliere il canto» del proprio «abbandono», per parafrasare i versi dedicati al compagno Moammed Sceab; l’esperienza terapeutica – quale che sia la sua modalità – in cui può avvenire il racconto ordinato di sé a se stessi e agli altri. E questo conferma come «la poesia è […] Dichtung che porta a evidenza, comprensione e dolore ciò che di più radicale gorgoglia nelle vite»[20]. La poesia è, insomma, sempre anche filosofia.

 

* Ringrazio Alberto Giovanni Biuso, Enrico Palma e Antonio Sichera per avermi insegnato in tempi, luoghi, occasioni differenti e ciascuno sempre a modo suo, che la letteratura è sempre anche filosofia.


[1] G. Ungaretti, «Nota introduttiva», in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, testo secondo l’edizione “I Meridiani” 2009 a cura di C. Ossola, Mondadori, Milano 2016, p. 604.

[2] Ivi, p. 568.

[3] D. Buzzati, Il deserto dei tartari, Mondadori, Milano 2021, p. 168.

[4] G. Ungaretti, Se tu mio fratello, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 242.

[5] Id., Tutto ho perduto, ivi, p. 241.

[6] Id., Il tempo è muto, ivi, p. 253.

[7] Id., «Nota introduttiva», ivi, p. 561.

[8] Id., Ricordi, ivi, p. 277.

[9] Id., Giorno per giorno, ivi, p. 245.

[10] Ivi, pp. 248-249.

[11] Id., Mio fiume anche tu, ivi, p. 270.

[12] Ivi, p. 269.

[13] Id., «Nota introduttiva», in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, cit., p. 567.

[14] Ivi, p. 573.

[15] Id., Defunti su montagne, ivi, p. 263.

[16] Ivi, pp. 263-264.

[17] Ibidem.

[18] Id., Nelle vene, ivi, p. 265.

[19] Id., «Nota introduttiva», ivi, p. 573.

[20] A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2023, p. 365.