Ci sarà sempre orrore. Su “There Will Be Blood”

di Enrico Palma

Una terra, da cui si trae pane,

di sotto è sconvolta come dal fuoco.

(Gb 28, 5)

È che non conoscevo ancora gli uomini. Non crederò più a quello che dicono, a quello che pensano. È degli uomini e di loro soltanto che bisogna avere paura, sempre.[1]

Nell’abisso. Direi che è questa la prima espressione con cui iniziare a discutere di questo capolavoro artistico. Un monte, un deserto, un pozzo. E un uomo, solo. Queste sono le uniche cose che si vedono nella prima parte. Un uomo che, disceso in un pozzo che presumibilmente ha scavato di sua mano, è in cerca di argento. E lo trova, con fatica ma ci riesce, sacrificandovi la gamba destra, tanto che rimarrà claudicante per tutta la vita. Dopo aver fatto saltare una parete del pozzo con un’esplosione controllata, riscendendo dalla scaletta, precipita in terra per la rottura di un piolo. Potrebbe restare lì dentro, spacciato, ma non si scoraggia. Infatti non solo riesce a uscirne ma si trascina sulla schiena in modo eroico per tutto il fianco della collina con l’ausilio della sola gamba sinistra, finché giunge in città dove scambia la sua pietra per un titolo di credito. Questo è l’inizio dell’epopea di Daniel Plainview, il quale da solitario cercatore di argento si trasforma in cercatore di petrolio, divenendo ben presto uno dei più ricchi e potenti tycoon del Paese.

Una lettura superficiale di questa storia, seppure certamente corretta ed efficace, vedrebbe un uomo povero e privo di mezzi compiere la scalata sociale del successo e della ricchezza, un po’ sulle orme di Mastro-don Gesualdo e di Barry Lyndon prima di lui. E tuttavia, se così fosse, rimarrebbe non colta l’intera fenomenologia che giace letteralmente sotto questo film. Affermare che Paul Thomas Anderson e Daniel Day-Lewis sono il primo uno tra i più grandi registi e il secondo uno tra i più grandi attori della contemporaneità costituisce un’espressione non del tutto esagerata. Come del resto non rappresenta un’esagerazione sostenere che There Will Be Blood sia una delle migliori produzioni cinematografiche del nostro secolo. L’impressione che ho è che in questo film (e la cosa si ripeterà con tutt’altra atmosfera e intenzioni in The Phantom Thread) sia avvenuto un incontro eccezionale, talmente felice che per ritrovarne un altro uguale devo scomodare il Velázquez del periodo romano e Innocenzo X, ovvero il papa più odiato ritratto dall’artista più grande, dall’incontro dei quali non poteva che nascere un capolavoro, nel loro caso il vertice più alto della ritrattistica del Seicento, l’intensissimo e quasi intollerabile ritratto di papa Pamphilj[2]. In questo secolo quindi uno dei registi più dotati e visionari incontra l’attore più grande, e il risultato ottenuto è quest’uomo estremamente affascinante, un’anima shakespeariana, un malato dostoevskijano, un cuore nero.

L’enfasi che ho dato a quest’opera rende difficile non soltanto restituire un progetto ermeneutico adeguato, obiettivo che sfiorerò soltanto, ma soprattutto scegliere una chiave di lettura su tutte le altre possibili per addentrarsi in essa. Si seguiranno dunque alcune suggestioni attraversandone la trama, lasciando a chi vorrà di continuarle o di reputarle altrimenti solo abbagli interpretativi.

1. La terra promessa

Il film inizia con un crescente accordo dissonante e disturbante all’orecchio. La ricercatissima colonna sonora a cura di Jonny Greenwood non poteva avere inizio migliore. È presumibile che Daniel, dopo aver riscosso la somma per la pietra d’argento che gli stava per costare la vita, abbia avviato per conto proprio un’impresa di trivellazioni petrolifere. Ed è lì che lo troviamo, immerso nella melma e con una decina di uomini alle sue dipendenze. Uno di loro ha un figlio di neanche un anno. Mentre entrambi si trovano calati nel pozzo a immergere i secchi per raccogliere il petrolio, il sistema assai rudimentale di carrucole cede all’improvviso e una trave di legno, tra i due, ricade proprio su quell’uomo, uccidendolo sul colpo. Forse per una forma di umanità latente, forse per senso del dovere, forse per riconoscenza verso la morte di quell’uomo rispetto al quale egli è ancora vivo, prende con sé il bambino. Nella scena successiva Daniel è su un treno in viaggio per lo Stato, con questo biondo bimbo seduto accanto a sé che protende una mano verso di lui e gli sfiora il viso con una carezza. Pare che l’orfano abbia trovato un altro padre.

In realtà H.W., questo il suo nome, sebbene non si possa negare del tutto che tra lui e Daniel ci sia un vero legame affettivo, è come affermato dai dirigenti della Union Oil un bel visino da mettere in mostra per intenerire i proprietari dei terreni sotto i quali si trovano i giacimenti. Per facilitare le contrattazioni delle concessioni a trivellare, Daniel tenta in modo capzioso di trasmettere gli stessi solidi valori familiari su cui dice essere fondata la sua impresa.

Alcuni anni dopo, in occasione di una di queste riunioni, Daniel, diventato nel frattempo un punto di riferimento nel settore delle trivellazioni, viene raggiunto da un ragazzo di nome Paul Sunday. Il giovane gli parla di un giacimento petrolifero collocato nelle terre della sua famiglia e in quelle limitrofe. Dopo aver pattuito con Paul un anticipo di 500 dollari, a fronte di altri 500 una volta che Daniel avrà raggiunto di persona il luogo indicato, i due si salutano.

Daniel raggiunge questa cittadina in incognito, Little Boston, presentandosi presso la fattoria Sunday come un avventore in caccia di quaglie, a seguito della prescrizione medica per il figlio H.W. di stare all’aria aperta. Ma Paul non c’è. Dettaglio che nel film, per un buco della sceneggiatura o più probabilmente per una scelta meditata, non viene per nulla esplicitato. Al suo posto, Daniel trova un fastidioso e cocciuto giovane, Eli, il fratello gemello di Paul. La famiglia Sunday è molto religiosa, e basti segnalare oltre a quello della famiglia stessa i nomi del padre Abel e di due delle figlie, Mary e Ruth. Durante la loro battuta di caccia, Daniel e H.W. vedono in effetti il petrolio affiorare in superficie, fuoriuscito dopo il terremoto. Daniel subodora l’affare della sua vita e intavola le trattative con la famiglia. Se Paul aveva chiesto 1000 dollari per dare le informazioni a Daniel e al suo collaboratore, il gemello Eli è più ambizioso: chiede infatti 10 volte quella cifra, la cui metà di 5000 dollari dovrà andare alla congregazione di cui egli stesso è il profeta e pastore, la Chiesa della Terza Rivelazione.

È a quest’altezza che diventa molto interessante, se non proprio necessario, fermarsi a riflettere sull’incrocio che sta avvenendo tra la vita di Daniel e la sua impresa petrolifera e questo curioso inserto religioso, fondamentale per il film. La sosta da fare, pena la cecità sul seguito, è dunque da compiere per quanto possibile sub specie Hierosolymorum. Inizio dai nomi dei protagonisti. È noto che secondo la cultura ebraica nei nomi si trova il destino del nominato, perché il nome è il modo in cui la creatura muta si dice a Dio nell’uomo e viceversa[3]. Fatto ben presente anche nella cultura latina classica, che vedeva nel nomen omen ben più di un semplice presagio. Plainview in inglese significa un molto immediato “ampia veduta”, suggerendo un uomo che osserva le cose con ampiezza, dall’occhio acuto e dallo sguardo lungo. Etimologicamente Daniel significa “Dio è il mio giudice”[4], stessa radice che si rinviene in Eli, che significa letteralmente “Dio è”. Il fratello gemello porta invece il nome dell’apostolo Paolo, il cui ruolo tuttavia si chiarirà a tempo debito. Chi è tuttavia il Dio di Daniel? È il Dio di Mosè, il Dio di Gesù, il Dio di Eli e dunque della Terza Rivelazione? È Pluto, il Dio del denaro, è il successo, la fama, il riuscire sugli altri a ogni costo, è il petrolio sotto i loro piedi? Rispondere a queste domande è ancora prematuro. Così come è forse solo una vacua suggestione rinvenire in H.W. le lettere centrali del tetragramma biblico del nome di JHWH.

L’altro episodio sul quale mi voglio concentrare è la caccia alle quaglie. La quaglia, più precisamente la Callipepla californica, è uno dei volatili più comuni della California, stato nel quale è ambientata la vicenda. Non dovrebbe dunque destare troppi sospetti il fatto che Daniel e H.W. vadano proprio a caccia di questo esemplare. E tuttavia proprio le quaglie prolungano l’eco biblica proveniente dal libro dell’Esodo, e mi riferisco alla celebre peregrinazione nel deserto del popolo di Israele dopo la fuga dall’Egitto. Nei tre giorni successivi di cammino il popolo eletto giunge alle imbevibili acque di Mara, che per l’appunto significa amarezza (in ebraico mar). Mosè allora «invocò il Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce» (Es 15, 25). Il senzadio Plainview assaggia il petrolio affiorato dal terreno, raccoglie un legno, ve lo intinge e gli dà fuoco per saggiare la qualità della combustione. Il petrolio è per lui infatti la più dolce delle acque.

Il riferimento a Esodo non termina qui, poiché mi spingo a dire che l’intera Little Boston sia da intendere come una nuova Canaan, una Terra Promessa in cui scorrono fiumi di latte e miele (il latte di capra del resto è una delle bevande citate a più riprese durante il film). La comunità di Little Boston è poverissima, l’ospitalità della famiglia Sunday nei confronti di Daniel si limita soltanto al latte di capra e a patate bollite; niente pane, poiché in quelle terre il frumento non attecchisce per via dei depositi alcalini e della penuria d’acqua. Il popolo d’Israele sempre in dubbio su Mosè, Aronne e il Dio che parla per mezzo di loro, reclama a gran voce di avere del cibo. Sicché Dio gliene dà, la proverbiale manna dal cielo. E lo fa servendosi delle quaglie come avvisaglia: «Ora alla sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino vi era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Poi lo strato di rugiada svanì ed ecco sulla superficie del deserto vi era una cosa minuta e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: “Man hu: che cos’è?”, perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: “È il pane che il Signore vi ha dato in cibo”» (Es 16, 13-15). Le quaglie hanno mostrato a Daniel e al popolo di Little Boston la manna che faceva la loro terra più ricca, una Terra Promessa i cui latte e miele giacevano sotto i loro piedi. Con un’inversione topografica, non si tratta di una manna scesa come rugiada al mattino dal cielo, bensì di un bene, il più prezioso di tutti, da estrarre dai recessi della terra, dall’abisso

Se il popolo di Little Boston avrà fiducia (o fede) in Daniel Plainview, potrà cadere oro su tutti loro, e il discorso così bugiardamente commovente pronunciato prima dell’inaugurazione del pozzo non può essere prova più chiara di ciò. Daniel promette di costruire una scuola, di far giungere l’acqua, sistemi di irrigazione, pane, strade, agricoltura, lavoro. La comunità acquisterà dunque una vita migliore. Plainview mette in atto la lunghezza del suo sguardo e, ancora una volta, promette una terra fiorente. La Terra Promessa sarà tale soltanto se verrà capovolta come un bacile e se dal fondo uscirà il petrolio. Viene perciò costruita la torre della trivellazione e inaugurata da H.W. e dalla sorella minore di Eli, con grande delusione di quest’ultimo, che aveva chiesto espressamente a Daniel di poter benedire, dopo una sua breve presentazione circa il suo essere il profeta di quella terra, sia la torre che l’opera in procinto di iniziare. Plainview non gli accorda questo favore, ed è un passaggio fondamentale, la prima maglia della catena che d’ora in avanti legherà entrambi rendendo l’uno il riflesso dell’altro[5].

2. Il sottosuolo

In una delle scene più intense del film, incalzante e spasmodica per ritmo e impatto visivo, ovvero l’esplosione del giacimento, l’incolpevole H.W., a causa dell’enorme urto sonoro, perde l’udito, presumibilmente per la rottura dei timpani. Un evento nefasto, che rende il figlio del tutto irraggiungibile da parte di Daniel. Nel frattempo, giunge a Little Boston un uomo che si presenta come Henry Plainview, il fratello di Daniel, col quale non si vedeva da moltissimo tempo. Se uno dei temi più importanti del film, e direi anche piuttosto ovvi, è il sottosuolo, questo è il momento in cui si potrebbe fare iniziare, riferendosi naturalmente all’opera dostoevskijana, la parte memorie dal sottosuolo di Daniel. Per molti versi la vicenda e il personaggio Daniel Plainview sembrano ricalcare in modo illuminante il romanzo dostoevskijano.

Chi è quest’uomo del sottosuolo? È un uomo solo, malato, malvagio, che gode a essere umiliato, che nutre un immane senso di risentimento nei confronti delle altre persone e del mondo intero, che gioisce della sua abiezione e mediocrità, e il cui unico impegno serio nella vita è non tirarsi indietro lungo la Nevskij di Pietroburgo nel dare una spallata a un ufficiale dell’esercito per esclamare che su questa terra esiste anche lui. È un essere ripugnante, una mosca a cui non prestare per nulla attenzione se non per il fatto di dare fastidio e di doverla schiacciare.

Così descritto, tuttavia, l’uomo dostoevskijano non somiglia per nulla a Plainview, il quale è invece ambizioso, competitivo, infaticabile, indefesso, duro, arcigno e senza fede e scrupolo alcuno. Pare però che questa corazza indossata per difendersi dal male del mondo sia molto simile all’abiezione del sottosuolo, i dimoranti del quale sono ignorati da tutti e da tutto, e sembra anche che l’ariete bicefalo dell’incidente di H.W. e dell’arrivo del fratello a un certo punto faccia breccia in lui. H.W., ormai ingestibile e anche dopo un grossolano tentativo motivato dalla gelosia di rimuovere lo zio, viene mandato in città per essere educato a una scuola per sordi, ed è in questo frangente che Daniel approfondisce la conoscenza del fratello. Pur di evitare che la sua impresa venga inghiottita dai rapacissimi affaristi della Standard Oil, Daniel costruisce una tubazione per trasportare il petrolio da Little Boston alla prima città portuale sul mare, in modo da poter stipulare un accordo con la Union Oil. Per far ciò, e per preparare la tubazione, Daniel si avvale dell’aiuto del fratello. I due percorrono molta strada e giunti al mare fanno un bagno. Lì Daniel capisce che qualcosa sull’uomo che ha accanto inizia a non tornare. Comincia a provare disprezzo per questo non più tale Henry. Scopre che è un impostore appropriatosi dell’identità del vero fratello morto e di cui era amico: saputo ciò, gli pianta infatt una pallottola in testa. Da buon scavatore della melma, prepara con tanto di vanga la fossa a quell’uomo e lo getta lì dentro.

L’unico problema per la tubazione è la terra di William Bandy, che non avrebbe dato la concessione della sua terra senza prima averne discusso con Daniel. Messo alle strette si dirige da lui. Il vecchio Bandy vuole che Daniel si converta alla Chiesa di Eli. Difficile immaginare una beffa più grande. Questa infatti è la seconda scena topica del film. Le parole usate da Daniel questa volta paiono le più adeguate per definire Eli, ovvero un abile commediante. Eli è una specie di guaritore, un intermediario tra Dio e il suo popolo della peggiore specie, che tramite gesti scomposti, urla e schiamazzi crede di estirpare i demoni del peccato o di cacciarli via. Eli, fatto mettere Daniel in ginocchio, non solo lo costringe a umiliarsi dinanzi alla comunità adunata, ma anche a urlare di aver abbandonato suo figlio, un grido che grazie alle mirabili doti recitative di Day-Lewis sembra sgorgare sinceramente dal suo cuore come uno zampillo di petrolio infuocato.

L’impressione è che Daniel gridi quelle parole in modo convinto, salvo poi ritornare lucido e motivato a subire strumentalmente quell’umiliazione. Tanto che alla fine, dopo essere stato deterso dal peccato con l’acqua battesimale, pare esclamare sotto voce e con la massima soddisfazione una frase come: «There’s the pipeline!». Durante questo rito Eli schiaffeggia Daniel ripetutamente, ed è proprio questo schiaffeggiare che richiama ancora una volta le dense pagine delle Memorie, in cui quest’uomo con un tremendo amor proprio, sospettoso e suscettibile, dice addirittura di godere della disperazione in cui si viene gettati negli attimi della più cocente umiliazione: «Così appunto nel caso dello schiaffo: giacché allora ti senti proprio schiacciare dalla consapevolezza del fango in cui ti hanno cacciato schiaffeggiandoti. Tanto più che, per quanto la rigiri, alla fin fine vien sempre fuori che il principale colpevole di tutto sei sempre tu, e nessun altro, e – quel che fa più male – colpevole senza colpa e, potremmo dire, per legge di natura. Colpevole in primo luogo perché tu sei il più intelligente fra quanti ti circondano»[6]. Daniel si sente, ed è, il più intelligente di tutti loro, quando per intelligenza si intende la capacità avere la meglio sui propri simili.

Daniel fa infatti questo. Un’intelligenza che non è né giusta né sbagliata, che ha comunque una parvenza di abiezione ma in fondo la più naturale delle reazioni al mare nero che è il mondo e di cui il petrolio è la metafora, male di cui Plainview è un cercatore e, rispetto a tutti gli altri, il più bravo a sfruttare. Terminata la cerimonia, invocato il sangue del Signore (altro fondamentale passaggio, e cioè: «I want the blood») e forse ammesso il rimorso d’aver abbandonato il suo bambino, Daniel stringe la mano a Eli e gli dice qualcosa che, e sarebbe stato interessante sentirlo, resta coperto dagli applausi dei convenuti ma che fa cambiare di netto l’espressione del volto del sacerdote. È plausibile sostenere che Daniel gli prometta vendetta per l’umiliazione subita, e Eli ne avrà più di quanta potrà mai immaginare. Potrebbe essere questo infatti il momento in cui Daniel gli promette che ci sarà sangue.

Forse in preda al rimorso, forse semplicemente per continuare a tenere in piedi questa farsa di sincero amore filiale, fa richiamare il figlio, ma il figlio non lo riconosce, è in collera con lui per averlo abbandonato, e come se non bastasse la distanza tra i due si fa incolmabile poiché Daniel non ha modo di farsi capire da H.W. né H.W. di farsi intendere da Daniel, sebbene abbia imparato con una certa destrezza il linguaggio dei segni. Molto significativa in tal senso la scena in cui Daniel e il figlio vanno a pranzo in un locale costoso, da veri signori, e lì incontrano gli stessi uomini della Standard Oil che gli avevano proposto di vendere tutto e di ritirarsi a vita privata. Allora la delusione per quanto accaduto con H.W. era ancora troppo forte, sicché Daniel, interpretando male le parole del dirigente della Standard, gli intima di tagliargli la gola. Se la figura fraterna poteva essere accostata a quella di Lisa nel sottosuolo dostoevskijano con gli esiti ben noti, ovvero una pausa di bontà repressa che finalmente trova espressione, questa scena sembra avere lo stesso tenore di quella dei festeggiamenti dell’impiegato Zverkov, durante la quale l’io narrante tenta in modo folle e paranoico di attirare l’attenzione, di affermare nonostante tutto la propria esistenza. Daniel, palesemente ubriaco, importuna i signori seduti al tavolo accanto al suo e ribadisce la parola data: che avrebbe costruito la tubazione e che si sarebbe preso cura di suo figlio. La barriera di odio e risentimento eretta contro il mondo diventa più alta e più spessa.

Come confessato al fratello, Daniel non vede niente di interessante nelle persone, niente che lo attragga. Le persone sono un mezzo per arrivare al suo scopo, lui un uomo segnato dal dolore della constatazione di un mondo che cospira alle sue spalle, della perdita familiare, di una moglie mai avuta, di un figlio non suo. In questo senso c’è molto Gesualdo Motta in Daniel Plainview. Il personaggio esemplare e mitico del cosmo verghiano è invidiato dal popolaccio e deriso dalla nobiltà, non ha una famiglia, ha una moglie di comodo e la figlia Elisabetta è di un altro. Ma a ben vedere Daniel Plainview, e qui colgo la divaricazione fondamentale tra le due opere, non è un vinto. Sempre al fratello impostore confida di voler guadagnare talmente tanto per potersi isolare da tutto e permettersi di rendere definitivo il suo distacco dal resto dell’umanità. Daniel opera nel sottosuolo per fabbricarne uno in cui abitare per sempre. E così fa. Il denaro è così cospicuo da costruire un’enorme villa, nella quale va a vivere solo, dedito all’amministrazione delle sue varie imprese sparse per lo stato e all’alcol. Direi che concepire un pensiero simile è un atto fatale, la cui radicalità a mia conoscenza è stata colta ed espressa solo da Cesare Pavese: «La sola regola eroica: essere soli soli soli. / Quando passerai una giornata senza presupporre né implicare in nessun tuo gesto o pensiero la presenza di altri, potrai chiamarti eroico»[7]. Pavese parla di una giornata. Il titanismo di Plainview si spinge invece al resto dei suoi giorni.

In quest’ultima parte del film accadono per lo più due cose: la separazione con il figlio H.W. e, soprattutto, la visita di Eli. Al figlio Daniel rivela, nel colmo del suo risentimento, di non essere il suo vero padre, di essere «a bastard from a basket». H.W. si è sposato con la figlia minore di Abel Sunday, un’unione che potrebbe suggellare la continuità tra Daniel e Eli, ma non è in questa direzione che prosegue il film. Del resto H.W. non rivede niente di sé in Daniel[8].

3. Il cuore nero del mondo

Il momento apicale del film, in cui tutte le fila vengono tirate, è la visita di Eli. È passato più di un decennio, Eli ha viaggiato molto e predicato la sua rivelazione, ma alcuni cattivi investimenti e ingenti perdite in borsa lo hanno indotto a riparare per disperazione proprio da Daniel, il quale è in uno stato pietoso, divorato dall’alcol, dall’odio e da un sentimento di autodistruzione, un vecchio rancoroso divenuto lo spettacolo grottesco di se stesso. La scena si svolge, si badi bene, in una specie di piano sotterraneo in cui è stata allestita una pista da bowling. Eli trova Daniel profondamente addormentato sulle assi di legno, e l’unica cosa che pare vincere il suo torpore è sentire pronunciare da Eli il proprio nome, a cui Daniel risponde come se lo aspettasse da tempo: «Yes, it is». Si sveglia schiaffeggiandosi sulla nuca come si fa con i conigli, si sgranchisce, prende da terra il piatto con il suo pasto e si siede su una poltrona a muro, rifiutando il drink che Eli gli offre, preso dal suo stesso bar. Dopo di ciò, prestando orecchio a Eli, svuota un’intera bottiglia d’acqua e inizia mangiare la bistecca fredda, quasi come una bestia feroce che pregusta la sua preda. Mentre Daniel lo guarda con impressionante disprezzo, Eli gli espone la sua proposta: trivellare i pozzi non ancora sfruttati di Little Boston. La risposta di Daniel, in un colloquio che meritatamente è stato segnalato per rimanere nella storia del cinema, è censoria: i pozzi sono stati trivellati. Daniel li ha prosciugati come con la cannuccia di un milkshake, e gliela mostra mimandogliela con un dito prima di acciuffarlo per il bavero e di scaraventarlo a terra.

Due sono le cose da evidenziare in questo colloquio: il fatto che Daniel dica a Eli di essere il gemello sbagliato, addirittura uno scarto negli umori di sua madre; contrariamente a Paul, il quale è il vero eletto, che con i soldi della prima contrattazione ha iniziato una sua impresa con diversi pozzi produttivi; Daniel ha prelevato ogni goccia bevendo il «lamb’s blood» da quella terra, promettendo la Terra Promessa salvo poi prosciugarne i fiumi per sé solo.

È ormai chiara la ragione del nome del fratello eletto Paul: anziché permanere nella palude del misticismo e interpretare il mondo come il frutto dei misteri che Dio manderebbe all’uomo, ha invece incontrato la luce della vera rivelazione, e cioè Daniel in persona. Per quanto patetico e ridicolo possa sembrare questo duello finale tra due fedi (da una parte un uomo vecchio, lurido e avvinazzato, dall’altra un giovane patetico, ripugnante e corroso dallo stesso peccato che con tanto fervore aveva creduto di scacciare dai suoi fedeli), e per quanto si faccia difficoltà a capire chi tra i due sia il vincitore e chi lo sconfitto, due elementi mi sembrano palesi: la vendetta di Daniel e il sacrificio compiuto nel sangue di Eli.

Daniel si mostra talmente generoso nei confronti del suo nemico da concedergli ogni cosa che propone, a patto però di ammettere a gran voce davanti a lui di essere un falso profeta e che Dio è una superstizione. E Daniel lo costringerà a farlo, cogliendolo nella debolezza della sua esasperazione per i debiti e per i suoi dubbi di fede, come in occasione del suo battesimo in cui gli aveva promesso di divorarlo. E Eli lo fa. Si prostra davanti al suo nemico e nella massima umiliazione Daniel gli rivela che quei pozzi sono stati prosciugati. Dopodiché lo insegue lanciandogli dei birilli e, colto Eli nel suo strisciare come un verme, Daniel, goffo e zoppo da sfiorare il ridicolo, alla fine lo raggiunge e gli spacca il cranio. A quel punto, col sangue del profeta che finalmente scorre nel sottosuolo, Daniel Plainview, ovvero la Terza Rivelazione, si accascia a terra esausto. Interrogato dal suo maggiordomo per nulla indispettito da quanto avvenuto risponde: «I’m finished». Il vero messia si mostra alla fine e conclude la sua opera, sulle note festanti e giubilanti dello strepitoso Allegro giocoso del Concerto per violino e orchestra in re maggiore di Brahms.

In tutta sincerità, il finale mi sembra così enigmatico e intenso che ho davvero difficoltà a chiudere il cerchio di questo tentativo di commento. Ritengo allora utile raccogliere le fila di quanto detto per slanciarsi in un azzardo interpretativo. Su suggerimento di un Paolo che nella via del successo si offre a un Dio che gli illumina la strada, Daniel approda alla Terra Promessa e la adultera, ne prosciuga ogni goccia per trarne profitto, una manna nera come il suo animo. Come il petrolio si trova sotto terra, il male è sotto i nostri piedi, male che il film restituisce con quest’uomo che non apporta al mondo nulla di ciò che aveva promesso nel suo primo sermone alla comunità di Little Boston, ovvero prosperità e benessere, poiché in verità non esiste niente di tutto questo, la Terra Promessa è solo un mito, come del resto ogni giudizio positivo sugli esseri umani, sulla famiglia, i figli, il prendere moglie e il successo professionale. Daniel è il detentore e il paladino di questa verità, e l’ha compresa talmente bene, ha scavato così in profondità, da assurgervi lui stesso con la sua vita e da non aver bisogno di alcuna filosofia o rivelazione. Un uomo divorato dal sottosuolo, al quale ha aspirato per tutta l’esistenza e in cui alla fine si rintana.

Questo film è ben lungi dall’essere un racconto di quale fine si può fare se si persegue nella vita null’altro che il successo. Oltre ogni etica, Plainview sembra ai miei occhi il personaggio migliore di tutta la vicenda, che da solo è riuscito ad avere la meglio sulla ripugnante mediocrità che aveva intorno, dalla falsa superstizione di un guaritore strampalato ai dittatori del capitale americano.

La rivelazione non è dunque Eli, latore di un messaggio fuorviante, ma Daniel, il giudice e giustiziere di Dio. Il mondo non è buono, è nero come il petrolio che Plainview ci mostra con il suo personaggio facendolo sgasare dalle profondità della terra. Aveva allora ragione Conrad a far dire a Kurtz che tutto è orrore[9]. E naturalmente aveva ragione Pavese: «Contemplare senza posa quest’orrore: ciò ch’è stato, sarà»[10]. Plainview è tale ampia veduta sull’orrore. Bisogna solo decidere se farsi illuminare dalla sua rivelazione, se credere alla sua fede o se battezzarsi alla sua Chiesa con il sangue di Eli per vivere con coraggio e disprezzo il mondo com’è veramente: un immenso, sconfinato e agghiacciante Heart of Darkness.


[1] L.-F. Céline, Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1932), trad. di E. Ferrero, Corbaccio, Milano 2018, p. 22.

[2] Si guardi D. Velázquez, Ritratto di Innocenzo X, 1650, olio su tela, 140x120cm, Galleria Doria Pamphilj, Roma.Per un’introduzione al dipinto rimando a T. Montanari, Il Barocco, Einaudi, Torino 2012, scheda 32. Per una lettura più approfondita rinvio sempre a Montanari ma al ciclo di documentari a sua cura Velázquez. L’ombra della vita, in particolare al secondo episodio intitolato La materia della pittura.

[3] Rimando al sempre fondamentale W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo (Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen), in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 2014, pp. 53-70.

[4] Daniele è anche un sinonimo di giudice. Memorabile l’esclamazione di Shylock nel processo contro Antonio, udendo il favore iniziale accordatogli da Porzia sotto le mentite spoglie di un giovane e talentuoso avvocato: «Un Daniele! un secondo Daniele venuto a far giustizia! Ah, come ti onoro, saggio e giovane giudice!», in W. Shakespeare, Il mercante di Venezia (The Merchant of Venice), trad. di S. Perosa, Mondadori, Milano 2011, p. 155.

[5] In una scena successiva, durante la quale Eli si reca da Daniel per ricordargli di onorare la promessa fatta di donare 5000 dollari alla sua chiesa, il giovane viene letteralmente picchiato e gettato nel fango da Plainview, un accanimento motivato anche dai recenti trascorsi con il figlio. La scena è scandita, non a caso, dalla profondissima sonata per violino e pianoforte di Arvo Pärt nota con il titolo molto evocativo per il nostro argomento di Fratres.

[6] F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo (Zapiski iz podpol’ja, 1864), a cura di I. Sibaldi, Mondadori, Milano 2015, p. 13.

[7] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 2020, p. 205, fr. del 15 ottobre 1940.

[8] Sebbene a parti invertite, l’episodio richiama ancora il Mastro verghiano, in particolare la constatazione da parte di Gesualdo dell’incolmabile distanza che lo separa dalla figlia: «E lui allora si sentì tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia e non aggiunse altro», in G. Verga, Mastro-don Gesualdo, Mondadori, Milano 2008, p. 354.

[9] «In un bisbiglio gridò verso qualche immagine, qualche visione – due volte lanciò un grido, un grido che non era più di un sospiro: “Che orrore! Che orrore!”», in J. Conrad, Cuore di tenebra (Heart of Darkness, 1899), trad. di R. Bernascone, Mondadori, Milano 2012, p. 223.

[10] C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 59, ultima frase del fr. del 26 novembre 1937.

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