Tra comicità e dialogicità: fortuna e particolarismo nella commedia Gl’Ingannati

di Mauro Distefano

 

 

Com’è consueto immaginare la Toscana come la culla – per antonomasia – del Rinascimento italiano, lo è altresì porre al centro della rinascita la città di Firenze, ignorandone altre, anche limitrofe a quest’ultima. È il caso della città di Siena, avversaria politica della più famosa e centrale Firenze, etichettata come centro marginale e provinciale sulla quale, però, porremo il nostro focusCittà fortemente libera e autonoma, come da antica tradizione, Siena, nei turbolenti anni che precedono il nefasto Sacco di Roma, si trova schiacciata dal giogo spagnolo, dall’ingerenza della vicina Firenze, da lotte intestine e disordini popolari[1]. È proprio in un periodo caratterizzato da un nicodemismo nei confronti degli occupanti iberici, da carestia e povertà che soverchiano lo strato sociale dinamico della città, che muovono i primi passi gli Accademici Intronati[2].

Appartenenti “all’accademia più antica d’Italia”[3], quella degli Intronati di Siena si distinse in Toscana prima, in Europa poi, per aver concepito una delle commedie più fortunate dell’intero Cinquecento: la commedia de Gl’IngannatiMa prima di focalizzarci sull’opera posta in analisi sembrano utili, quanto mai doverose, alcune premesse: cosa vuol dire vivere e “fare teatro” nel ‘500.

Vivere in un periodo tanto complesso quanto innovativo e “moderno” come il Rinascimento significa trovarsi all’interno di un movimento di rinascita, scoperta e contraddizioni in moto perpetuo: considerandolo con l’accezione generale di “movimento culturale”, il Rinascimento è l’irruzione del moderno in quel lunghissimo segmento temporale che, per convenzione, chiamiamo Medioevo e che coincide con la stagione della cultura artistica italiana muovendo i primi passi dalla “ruina” d’Italia sino alla data del decesso di Tasso[4]. La vita assumeva fattezze spettacolari continuando la cultura del Medioevo e attingendo da essa la vivace forma cerimoniale, sia laica che religiosa. Tale spettacolarità divenne lo spazio privilegiato sul quale si imperniò il profondo spirito comunitario delle città, potendone esprimere il forte senso d’identità. Da questo unicum fiorirono le arti quali canzonieri, opere teatrali, sperimentazioni di vario genere, sottolineando un ritorno alla stabilità dopo la finis Italiae. Siamo dunque in quello spazio liminare tra l’abbandono del vecchio e la nascita del nuovo. Come nel Medioevo la comunità celebrava vari avvenimenti (feste, lutti, il passaggio delle stagioni ecc.), allo stesso modo avveniva nel Rinascimento: nelle piazze, luoghi di aggregazione cittadina per antonomasia delle poleissi riversavano i cittadini per partecipare a quella cultura libera, ora declinata in feste sfarzose promosse dal signore mecenate, ora per commemorazioni e festività d’importanza rilevante come l’epifania o il carnevale. La piazza divenne anche il luogo privilegiato – escludendo i teatri privati delle corti signorili – per la rappresentazione delle opere. Nei primi anni del Cinquecento le opere teatrali vennero aggiornate al modello latino, al quale si ispiravano, producendo una sequela di commedie in volgare estremamente realistiche ed educative; venivano rappresentati scorci di vita quotidiana estrapolati direttamente da quell’enorme fucina della borghesia mercantile, classe dirigente dinamica dedita al danaro ma non esclusa dalle faccende cittadine. Queste opere rappresentavano storie di beffa, amore e tradimenti, di denaro e di dispute matrimoniali sugli sfondi caratteristici dell’urbanistica cittadina. Furono le grandi corti le promotrici dell’intrattenimento commediografo, ma il testimone passò di mano in mano anche alle varie congregazioni e accademie. Si era, tuttavia, nelle fasi embrionali del vasto percorso che avrebbe portato all’affermarsi della commedia, un elaborato crescendo che vedeva legare il teatro, tiepidamente destato dalla classicità, all’attualità della società. L’affermarsi della “commedia erudita” è da attribuire sia alla fluidità della drammaturgia crescente, sia all’utilizzo congeniale della stampa, mezzo rivoluzionario e fondamentale per la crescita drammaturgica. 

È proprio in questo lasso di tempo irripetibile che fanno la propria comparsa Gl’Ingannati.

 

 

1. Il particolarismo dell’opera

 

Messa in scena a Siena nel carnevale del 1532 dagli Intronati, l’opera venne redatta “a più mani” com’era loro consuetudine ambientando le vicende per le vie della città di Modena[5]. Sebbene si tratti di una commedia, la suddetta sovverte, modifica e rivoluziona il genere: partendo dal prologo – rivolto interamente alle donne – che presenta una connotazione meta-teatrale, si nota come l’artificio scenico, l’inganno appunto, viene messo in atto[6], passando per i personaggi (archetipi delle commedie classiche di Plauto e, in genere, della commedia dell’arte), terminando con l’unicum della protagonista.

La commedia de Gl’Ingannati risulta essere l’apripista della fortunata forma di teatro detta commedia degli equivoci, variazione dal consueto schema delle commedie classiche, nella quale l’espediente cardine è la trama caratterizzata da scene ricche di confusioni e inganni. Il testo, atto a suscitare il riso nello spettatore[7], presenta la consuetudine drammaturgica dello scambio di persona, il quale fa sì che i due personaggi si trovino ad agire l’uno all’insaputa dell’altro. Ed è ciò che avviene nell’opera: la trama, strutturata su cinque atti ricalcando lo schema classico, s’impernia sulla vicenda amorosa della protagonista, Lelia, e del suo amato Flamminio per poi articolarsi tra le vie della città insieme ai vari personaggi. L’amore della giovane sarà minacciato della decisione del pater familias Virginio caduto in disgrazia per il nefasto Sacco che, per risollevare le sorti economiche, propone un matrimonio combinato a un suo amico, Gherardo, anziano millantatore e buon partito per il padre. Tale decisione, non condivisa dalla giovane, innesca in lei il desiderio di rivalsa: compiendo un gesto libero, Lelia si traveste da uomo prendendo il nome di Fabio, decisa a servire Flamminio come paggio minando il rapporto tra quest’ultimo e la ragazza che lo insinua, Isabella, al fine di poterlo riconquistare. Oltre a questo inganno ed equivoco, si insinuerà un secondo livello di beffa con l’entrata in scena del fratello di Lelia, Fabrizio, creduto ormai deceduto. L’inganno perpetrato nei confronti di Isabella sarà risolutivo per l’intera opera: Isabella infatuata di Fabio e desiderosa di consumare la sua passione giacerà con Fabrizio, identico a Lelia travestita da Fabio, credendo nella riuscita del suo intento[8]. La trasformazione scenica del personaggio consacra l’inganno primigenio: 

 

LELIA

[…]. Oh che sorte è la mia! Amo chi m’ha in

odio, chi sempre mi biasma; servo chi non mi cognosce

ed aiutolo, per più dispetto, ad amare un’altra

– che, quando si dirà, nissun sarà che lo creda – senza altra

speranza che di poter saziare questi occhi di vederlo

un dì a mio modo. Ed infino a qui mi è andato assai

ben fatto ogni cosa. Ma, da ora innanzi, come farò? Che

partito ha da essere il mio? Mio padre è tornato; Flamminio

è venuto ad abitar nella città; e qui non poss’io

stare senza esser cognosciuta: il che se avviene, io resto

vituperata per sempre e divento una favola di tutta

questa città. E per questo sono uscita fuora a questa

ora per consigliarmi con la mia balia, che da la finestra

ho veduta venire in qua, ed insieme con lei pigliarci

quel partito che giudicaremo il migliore. Ma prima vo’

vedere s’ella in questo abito mi cognosce.[9]

 

 

Analizzando a fondo l’azione compiuta dal personaggio, la svestizione, che richiama a quella più famosa del frate d’Assisi, conferisce un’aura celestiale, quasi agiografica per Lelia[10].

Il monologo dolente è la forma espressiva tipica dell’amorosa avente la funzione di illustrare il complesso antefatto:

 

LELIA

[…] Orsù! Fai vista di non mi cognoscere, eh?

 

CLEMENZA

Se’ tu forse Lelia? Dolente a la mia vita! Sciagurata a

me! Sì, che gli è essa. Oimè! Che vuol dir questo, figliuola

mia? […]

 

LELIA

Ti dirò. Flamminio, com’ io ti dissi poco fa, è innamorato

d’Isabella Foiani e spesso spesso mi manda a lei

con lettere e con imbasciate. Ella, credendo ch’io sia

maschio, si è sì pazzamente innamorata di me che mi

fa le maggior carezze del mondo; ed io fingo di non

volerla amare se non fa sì che Flamminio si levi dal

suo amore; ed ho già condotta la cosa a fine, e spero,

fra tre o quattro giorni, che sarà fatto e che egli la lasciarà[11].

 

 Con l’entrata in scena di Fabrizio si accentuerà l’equivoco scaturito dal travestimento avviando l’opera verso la conclusione: 

 

ISABELLA

Io credevo del certo che voi fusse un servitor di un

cavalier di questa terra che tanto vi s’assomiglia che

non può esser che non sia vostro fratello.

 

FABRIZIO

Altri sono stati oggi che m’hanno còlto in iscambio:

tanto ch’io dubitavo quasi che l’oste non m’avesse

scambiato.[12]

 

La risoluzione finale con l’abbandono degli abiti menzogneri – un’altra svestizione – risolverà l’ingarbugliata situazione mettendo a nudo i vari eccessi e difetti dei personaggi: 

 

      LEILA

Flamminio, voi mi sète signore; e ben sapete, quel

ch’io ho fatto per quel ch’io l’ho fatto, ch’io non ho

avuto mai altro desiderio che questo.

 

FLAMMINIO

Ben l’avete mostrato. E perdonatemi se qualche dispiacere

v’ho io fatto, non cognoscendovi; perch’io

ne son pentitissimo e accorgomi dell’error mio.

 

LEILA

Non potreste voi, signor Flamminio, aver fatta mai

cosa che a me non fusse contento.

 

FLAMMINIO

Clemenzia, io non voglio aspettare altro tempo, ché

qualche disgrazia non m’intorbidasse questa ventura.

Io la vo’ sposare adesso, se gli è contenta. [13]

 

L’eroina, che nel dramma classico era una muta persona, nella commedia rinascimentale si presenta sotto una nuova veste: Lelia effettivamente si nasconde da Flamminio in quanto il travestimento la rende un altro personaggio, ma di fatti risulta essere un personaggio estremamente dinamico dotato più che mai della caratteristica del logos[14]. La novità, senza ombra di dubbio, va identificata nel rimaneggiamento degli schemi plautini e dalla diversificazione dei sessi dei personaggi, ma anche dal triangolo amoroso Lelia, Flamminio e Isabella: nella commedia il personaggio a travestirsi non è l’uomo bensì la donna. E’ quest’ultima a muovere le fila della trama comparendo in tre atti su cinque e non sempre insieme alla balia[15]. Disaminando gli altri personaggi, Flamminio si differenzia dall’eroe alessandrino perché tende ad assumere una posizione arrendevole e assai mutevole verso gli amori; non differente risulta Isabella mostrando impeto amoroso nei confronti di Flamminio prima e Fabio poi. Particolare è l’analisi nei confronti di Fabrizio: risulta essere sì impetuoso, ma ciò lo si può intuire come causa di un forte trauma che lo spinga alla liberazione delle pulsioni più ataviche dell’uomo. Dopo il dialogo con Gherardo e Virginio[16], intuiamo che il contatto con gli spagnoli, dai quali è stato prigioniero, ne ha corrotto e indebolito la fibra morale. Gherardo pensa a mantenere il nome della casata mentre Virginio incarna il senex romano, un uomo decaduto che porta sulle spalle i difetti derivati dalla classe mercantile. Sulla falsariga dei personaggi della Commedia dell’Arte –Gherardo è paragonabile a Pantalone[17] – degna di menzione è la presenza di un soldato imperiale, lo spagnuolo Giglio, millantatore e favellatore di gesta mai compiute che calza l’abito del Miles gloriosus di plautina memoria. Non è di certo un caso se i giovani accademici abbiano inserito un soldato imperiale catalizzatore delle beffe: la figura del soldato spagnolo incarnava l’opprimente giogo straniero ai danni della città di Siena, riuscire a renderlo un personaggio non dotato in alcun modo di virtù militari, tantomeno di capacità di seduzione – non riuscirà a sedurre nemmeno una serva – pone l’accento sulla libertà tanto ostentata, e difesa, dei senesi[18].

 

2. Fortuna e diffusione

 

Dopo le varie repliche il testo conobbe un’immediata e impressionante fortuna sia teatrale che novellistica: negli anni ’40 Bandello e Giraldi ne trassero versioni narrative che girarono in modo indipendente per l’Europa[19]; presentando la trama rimaneggiata, e persino il titolo, lungo tutto il secolo. Se ne impadronirono, soprattutto, i comici dell’Arte attratti dal tono tragicomico della vicenda di una fanciulla che si traveste per amore. Alle loro tournées internazionali, e a una serie di traduzioni fortunate, si deve l’irradiazione degl’Ingannati in Francia con Les Abusez di Charles Estienne (1540)[20], in Inghilterra dove furono rappresentati a Cambridge in una versione latina intitolata Laelia (1547)[21] – raggiunse Shakespeare che ne ricavò La dodicesima notte (1601)[22]Giunse in Spagna, nuovamente tradotta in latino, con il titolo Deceptida Juan Perez fino alla Comedia de los Enganados di Lope de Rueda (1567)[23]

Lo spettro teatrale dell’eroina vestita da uomo, che affronta peripezie e sofferenze in nome dell’amore, diventa dunque un archetipo dell’immaginario teatrale moderno sfruttando la gemellarità bisessuale come motivo comico che alimenta scambi e travestimenti. Una fortuna che separa il testo dal suo contesto, sfruttandone a fondo la struttura tragicomica e la ricchezza costruttiva. Gl’Ingannati risultano essere una primizia d’avanguardia in Europa «costituendo la palinodia di quella cerimonia (che dobbiamo immaginare inscenata con sfarzo spettacolare […]) e fanno parte di un complesso gioco festivo di corteggiamento in pubblico che diventerà uno degli elementi portanti della civiltà senese cinquecentesca»[24]. Al termine di questa stagione di breve pace, Siena si rinchiuse nel silenzio e nella sconfitta e a questo prezzo il suo teatro entrò nella leggenda.

 

 

 



[1] Per un esauriente scorcio della situazione dell’Italia centrosettentrionale, in particolar modo della città di Siena, rimando a «Nemici e libertà a Siena: Carlo V e gli spagnoli» in L’ultimo secolo della Repubblica di Siena. Politica e istituzioni, economia e società, M. Ascheri e F. Nevola (ed.), Siena, Accademia senese degli Intronati, 2007, pp. 243-269; per una panoramica della figura dell’intellettuale nella prima metà del XVI si vedano: F. Benigno, M. C. Giannini, N. Bazzano,L’età moderna. Dalla scoperta dell’America alla restaurazione, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 58-60; G. Alfano, C. Gigante, E. Russo, Il RinascimentoRoma, Salerno Editrice, 2016, pp. 236-244; da qui in poi GA, CG, ER, Il Rinascimento.

[2] L’Accademia assunse questo nome per mostrare il desiderio dei fondatori di «ritirarsi dai rumori del mondo […] per dedicarsi alle commedie e agli studi di lingua e letteratura» https://www.accademiaintronati.it/storia-dellaccademia/ ; per un’esaustiva esegesi cronologica si veda la nota seguente.

[3] Cfr. M. Maylender, Storia delle accademie d’ItaliaBologna, Cappelli, Vol. III, 1926-30, p. 350. L’Accademia degli Intronati viene riconosciuta, cronologicamente, come «la prima regolata Accademia d’Italia»; gli eruditi senesi ne collocarono la nascita al 1525 sebbene altre date, di poco antecedenti, prendano in considerazione un circolo di intellettuali omogeneo identificato come Accademia Grande. Il retaggio teatrale si ottenne dai giovani nobili che si riunirono attorno alla figura di spicco dell’Accademia: Alfonso Piccolomini. Per la “Grande” si rimanda sempre a M. Maylender, Storia delle accademie d’Italia, ibidem; per una biografia esaustiva di Alfonso Piccolomini si rimanda a F. Tomasi, Piccolomini Alessandro in Enciclopedia Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Società grafica romana, Vol. 83, 1979, pp. 203-208.

[4] La datazione cronologica del Rinascimento è un argomento ampiamente affrontato da secoli. Riuscire a proporre una tesi di datazione rispetto a un’altra risulta difficile se non inutile. Si consigliano gli inestimabili studi in materia di: J. Burckhardt, The Civilization of the Renaissance in Italytrad. S. G. C. Middlemore, Penguin Books Ltd, 1990, e K. Burdach, Reformation, Renaissance, Humanismus. Zwei Abhandlungen über die Grundlage moderner Bildung und SprachkunstPaetel editore, Berlin-Leipzig 1918. La nota fa riferimento a Cfr. GA, CG, ER, Il Rinascimento seguendone la suddivisione storica, sia per facilitare il lettore, sia per la recente pubblicazione.  

[5] La data della messa in scena ha generato in passato vari errori filologici: compare datata 1531, proprio perché quest’ultima è da intendersi “alla maniera senese”, ossia 1532 «giacché il computo calendariale ab incarnatione, allora vigente, faceva iniziare l’anno il 25 marzo data dell’Annunciazione) e non il 1 gennaio». La nota e la citazione in Accademia degli Intronati, Gl’Ingannati, M. Pieri (a cura di), San Martino (PI), Tipografia Bongi, 2009, cit., p. 11. Per ciò che concerne l’attribuzione in toto della stesura, e non ad personam, è stata mossa l’ipotesi che per via dell’ambientazione scenica a Modena, per la minuziosa descrizione dei luoghi – capace presumibilmente per un autoctono della città -, l’autore potesse essere Ludovico Castelvetro, membro Intronato e modenese. Tale ipotesi, a lungo discussa, risale a G. Cavazzuti, Lodovico Castelvetro e la commedia “Gli Ingannati”, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XL (1902), pp. 343-365.

[6] È importante segnalare al lettore dell’esistenza di un antefatto importante, inscindibile dalla recita, che giustifica il prologo meta-teatrale, ma che ha incrementato l’addensare intorno al testo di tanti equivoci. La prima vera uscita in pubblico degli Intronati si era infatti consumata circa un mese prima di quel martedì grasso – nella notte dell’Epifania – con una festa allegorica in cui gli accademici avevano inscenato un rito, con connotazioni misogine, di rinuncia all’amore: esausti nel ricevere rifiuti sentimentali, avevano abbandonato il culto di Venere e sacrificato a Minerva i pegni d’amore ricevuti dalle rispettive dame, recitando in musica, per l’occasione, delle rime di scongiuro e di voto. La reazione della controparte non si fece attendere tanto che, intimoriti dall’esito, dedicarono come risarcimento la commedia alle donne. Cfr. M. Pieri, Gl’Ingannatipp. 16-17. La scelta delle festività per l’uscita degli accademici non fu casuale: l’Epifania, il carnevale e la notte di Santo Stefano erano chiamate festa stultorum per via delle celebrazioni di feste a sfondo parodico eseguite da studenti e chierici. La festa dei folli, in particolare nel Medioevo, aveva come caratteristica il travestimento, accompagnata da mascherate e balli osceni atti a parodiare il culto ufficiale. In riferimento a ciò Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979, pp. 83-85.

[7] La componente specifica del riso nel Rinascimento ha radici antiche, direttamente dirette dalla cultura popolare del Medioevo. Se nel medioevo la caratteristica era suscitare il riso parodiando le Sacre Scritture – o in genere opere religiose – nel Rinascimento il riso scaturisce da opere letterarie con riferimenti alla vita sociale. «La concezione del riso, nel Rinascimento, può essere caratterizzata preliminarmente e sommariamente in questo modo: il riso ha un profondo significato di visione del mondo, è una delle forme più importanti con cui si esprime la verità sul mondo nel suo insieme, sulla storia, sull’uomo; è un punto di ista particolare e universale sul mondo, che percepisce la realtà in modo diverso, ma non per questo meno importante. […] il riso non può essere una forma universale di visione del mondo; può riferirsi soltanto a fenomeni parziali e parzialmente tipici della vita sociale […]. Il Rinascimento ha espresso la sua particolare concezione del riso attraverso opere e giudizi letterari, ma anche attraverso elaborazioni teoriche che attribuivano al riso il valore di forma universale nella concezione del mondo.» M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolarecit., pp.76-77.

[8] La tematica dei gemelli ritrovati è tipica del Menecmi plautino, opera tradotta dagli Intronati.

[9] M. Pieri, Gl’Ingannati, I, 5, pp. 49-50.  

[10] Come ribadito già in precedenza, la commedia rielabora non solo schemi del teatro classico, ma intreccia la linea comica con quella romanzesca, in particolare è presente la bipartizione boccaccesca, per le scene più scabrose, e boccacciana. La tematica agiografica, probabilmente, venne attinta dall’enorme serbatoio decameroniano, in particolar modo dalla novella, X, 10, Griselda. Si rimanda a un testo di F. Bruni il quale ha individuato e analizzato criticamente la componente romanzesca Cfr. R. Bigazzi, La via romanzesca degli “Ingannati”in F. Bruni (a cura di), La maschera e il volto. Il teatro in Italia, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 51-68.

[11] M. Pieri, Gl’Ingannati, I, 5, p. 53-54. 

[12] Ivi, p. 177.

[13] Ivi, pp. 172-173.

[14] Cfr. V. De Amicis, L’imitazione latina nella commedia italiana del XVI secoloPisa, Tipografia Nistri, 1871 e G. Ulysse, La «commedia» nel Cinquecento, in Il teatro italiano nel Rinascimento, a cura di F. Cruciani, D. Seragnoli, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 90-91.

[15] M. Pieri, Gl’Ingannati, pp. 25-27. 

[16] Ivi, pp.41-45.

[17] S. Ferrone, Attori, mercanti, corsari. La commedia dell’arte in Europa tra Cinque e SeicentoTorino, Einaudi, 2011.

[18] L’inserimento di una figura, seppur marginale, conosciuta all’unanimità dalla cittadinanza in origine non presenta collegamenti con la Spagna. L’uomo impostore mascherato da gentiluomo, riconoscibile dal suo linguaggio artificioso e maccheronico, acquista la nazionalità spagnola a partire dal Sacco di Roma che innesta, fino ad ampliare, l’incubo della violenza. Si veda M. Pieri, Il soldato spagnolo in commedia nel ‘500: dalla cronaca storica alla stilizzazione Teatrale, in Leyendas negras e leggende auree, (a cura di) M. G. Profeti e I. Pini, Firenze, Alinea Editrice, 2011, pp. 71-86.

[19] I. Sanesi, Commedie del Cinquecento, Bari, Laterza, 1912, I, p. 331. Sanesi sostiene come la commedia sia la fonte della novella II, 36 del Bandello. Per quanto riguarda la novella del Giraldi, VIII della V decade, la parentela risulta innegabile nonostante si discosti dall’intreccio.

[20] Per l’edizione francese si veda F. Cerreta, A French Translation of Gl’Ingannati: C. estienne’s Les Abusez, «Italica», 54, 1, 1977, pp. 12-34.

[21] M. Smith, College Plays Performed in the university of Cambridge, Cambridge, The University Press, 1923, pp. 99-100.

[22] F. Cerreta, La commedia degli Ingannati, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2012, pp. 34-44. Cerreta elenca in modo magistrale le opere derivate dalla commedia fornendo un enorme caleidoscopio di opere.

[23] O. Arroniz, La influencia italiana en el nacimiento de la comedia española, Madrid, Gredos, 1969, p. 200.

[24] Cfr. M. Pieri, Gl’Ingannati, cit., p.18.

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