Di patriarchi e di padri: “Come in cielo” di Damiano Scaramella

di Pietro Russo

Come in cielo (NN Editore, 2023) di Damiano Scaramella è il libro d’esordio di un autore non esordiente. La scrittura di Scaramella infatti proviene da lontano, dimostra di possedere una sapienza antica che vuole riconnettersi al respiro dell’epos, al sangue del mito fondativo. La voce onnisciente che racconta i fatti è quella di un narratore antico, di un cronista biblico, di un profeta della sciagura imminente. Allo stesso modo Badìa – l’immaginario paese alle pendici dell’Etna in cui si svolgono gli eventi della storia – non è solo la microscopica porzione di un mondo a noi attuale, bensì l’omphalos di un tempo sacro, rituale, ancestrale, il cosmo di un universo in sé concluso e governato dalle leggi del Destino. Lo Scaramella romanziere si muove dunque tra due sponde: da una parte la Tragedia greca ma senza il titanismo gnoseologico dell’eroe, dall’altra la parola di un Dio veterotestamentario che deve essere continuamente interpretata, verificata, ovvero fatta interagire nel cortocircuito che è Badìa. A Badìa non si entra e da Badìa non si esce.

In questa sineddoche territoriale, si staglia la Villa di Zu Pippu, luogo sospeso tra il fiabesco e il kitsch, tra la metafora e il puro referente: location per eventi dal gusto estetico più prossimo al neomelodico che al neoclassico. La Villa di Zu Pippu Puglisi è il centro e il motore (immobile e immobiliare) attorno a cui ruota una storia destinata a schiantarsi con il fragore di una luce morta migliaia di anni fa. Di Beverly, la vittima non sacrificale immolata sull’altare del determinismo genetico, Scaramella scrive che è «lucente e rossa come una palla di fuoco» (p. 72), come a dire che non si sfugge alla storia che le stelle vogliono raccontarci con il loro “mormorio notturno” (si veda l’epigrafe di Cormac McCarthy). Mentre di Salvatore, il carnefice senza coscienza e volontà del male, l’omone-bambino, si conosce solo la sua alterazione cromosomica e quindi il ritardo cognitivo che lo fa essere una superficie opaca, al contempo estranea e immersa nella realtà siciliana di Badìa. Infine Tano, terzo vertice di un improbabile triangolo sentimentale, “tipo” di una mascolinità rusticana e patriarcale, alfiere di una giustizia personale imparentata con la vendetta, a completare il motivo della inesorabilità del fato: è così, e non poteva essere diversamente.

Ma Come in cielo è anche un romanzo sulla famiglia, anzi sulle famigghie. Quelle che a Badìa sono in odore di mafia (i Russo, i Privitera, il capomafia Orsu) e, soprattutto, quella di Zu Pippu Puglisi – Malavoglia versione reloaded con figli e nipoti (tra cui il già citato Salvatore) sotto lo stesso tetto – arroccata intorno alla Villa; anzi dentro, quando la realtà esterna assedierà la ragione più profonda della sua esistenza. E la logica familiare, come convengono antropologi e psicologi, è tribale. Carotenuto scrive molto bene a questo proposito:

Quale nucleo originario di appartenenza dell’individuo, la famiglia si costituisce immediatamente come luogo separato dall’ambiente esterno, e assume una funzione di protezione rispetto ad altri possibili rapporti. Questo senso di appartenenza intorno a cui si solidifica la comunità familiare implica dunque “separatezza” ed “esclusione”. […] In termini junghiani, il cosiddetto ‘collettivo’ viene eletto a destinatario di tutte le “proiezioni d’Ombra” della famiglia: ogni eventuale conflitto “interno” viene disconosciuto come tale e proiettato all’esterno, al di là dei confini dell’unità familiare.[1]

Il cancello grigio impenetrabile, l’alta siepe che bordeggia la Villa e che esclude la vista esterna ha poco a che fare con l’anelito d’infinito di Leopardi; è semmai il confine che divide interno ed esterno, protezione e minaccia, spazio degli affetti e luogo del pericolo. Senonché il patriarca Zu Pippu – patriarca in un’epoca secolarizzata oltre che mafiosizzata – disconosce questo confine poiché per lui oltre la Villa non c’è nulla. La Villa è un’entità autotelica, risolve in sé, al proprio interno, ogni possibile conflitto e contraddizione. Come nel caso di Salvatore, il bambinone che ride (come Isacco), vittima – questa volta sì, sacrificale – della negazione della realtà di Zu Pippu. Se vogliamo, Salvatore, in quanto personaggio borderline, è l’unico della famiglia al di sopra della Legge della Villa, ovvero “al di là del bene e del male”: nel suo ritardo cognitivo il dentro e il fuori sono realtà sovrapponibili, insignificanti, inesistenti. Per Salvatore esiste solo chi, come Beverly, gli fa intravedere una possibilità ‘altra’ di vita che si avvicina a una forma d’amore inteso come attrazione dei corpi e delle anime. L’amore nel senso agapico di San Paolo sembra essere una forza non contemplata nell’uni(co)-verso irreversibile di Badìa, così come, più in generale, dalla cittadina etnea resta esclusa la parola del Nuovo Testamento, surclassata dal basso continuo dell’Antico che invece accompagna i momenti salienti della narrazione, Prologo ed Epilogo compresi. Alla Villa, e a Badìa, gli eventi sono solo mondani e fattizi (feste di compleanno, battesimi, ecc.), e nessuno di questi ha in sé il kairos cristologico della salvezza.

L’unico Evento che in qualche modo potrebbe suscitare un vago riscontro con l’accezione heideggeriana di Ereignis è un accadimento funesto (l’omicidio involontario di Beverly) che scatena una reazione non sempre riconducibile al criterio di causa-effetto. A questo punto del romanzo il confine della Villa tra dentro e fuori diviene una ferita che sanguina, e Tano, ex fidanzato machista di Beverly, irrompe sulla scena come una scheggia impazzita, fool e villain, giustiziere e giudice e boia. Sarà Tano a rompere gli equilibri mafiosi di Badìa sovrintesi dalla bilancia di Orsu, doppio terreno di quella stessa divinità veterotestamentaria a cui tanto si ispira il suo senso di giustizia. E non a caso l’unica lettura prediletta di Orsu è il libro dell’Esodo, in particolare il passaggio sulla retribuzione vendicativa del Signore sull’Egitto (pp. 174-7). Dunque il dilemma, ovvero lo spazio in cui si agisce il tragico di Come in cielo, è racchiuso nel cruccio del vecchio capomafia: come applicare la giustizia del dio mafioso senza alterare gli equilibri della lotta naturale (e verghiana) tra Zu Pippu, sempre più attaccato alla sua Villa-Casa del Nespolo e in denial del suo essere “vinto”, e il cavaliere rusticano Tano che conosce solo le ragioni del sangue e dell’onore? È interessante qui notare come l’idea della Giustizia alle latitudini di Badìa (Sicilia inventata, ma sempre Sicilia) affondi le sue ragioni nella “Bilancia di Giobbe”, nella logica retributiva del libro biblico che racconta il rovescio della fortuna del patriarca di Uz. Non sfuggirà, al lettore attento, che Zu Pippu, dietro lo schermo del personaggio biblico, a un certo punto espone ai nipoti un frettoloso resoconto di una storia che è la propria storia, di Zu Pippu-Giobbe; una narrazione come vista dal futuro, in cui il tempo arcaico del mito si incrocia a quello profano del qui-e-ora, dal momento che, scrive Scaramella, «il futuro precede il passato» (p. 240).

E nel passato, allora, Salvatore è Isacco (colui che ride) e Zu Pippu, prima di vestire i panni di Giobbe, e di Padron ’Ntoni, è stato un Abramo che rovescia il segno della paternità in un finale che si ricongiunge all’incipit, entrambi biblici, di Come in cielo. Il lettore non si aspetti che a Badìa la mano del Signore intervenga a fermare Zu Pippu: il punto conclusivo della storia si allarga a dismisura come una pozza scura e grumosa, un cosmo di sangue. A Badìa, sembrerebbe dire Scaramella, è bene diffidare dei capifamiglia, dei patriarchi e persino dei Padri; e ancora meglio sarebbe non pregarli, o comunque fermarsi un attimo prima di completare la similitudine, la somiglianza: Come in cielo


[1] A. Carotenuto, Amare e tradire, Bompiani, Milano, 2017 [1994], p. 69.

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