Lo sguardo della nottola. Un’ermeneutica dell’apprendimento ritrovato

di Enrico Carmelo Tomasello

 

Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse tale

 da scorrere dal più pieno al più vuoto di noi,

quando ci tocchiamo l’un l’altro,

 come fa l’acqua nelle coppe,

che dalla più piena scorre nella più vuota

Platone, Simposio

 

 

 

Sommersa dalle scadenze e dalla produzione di documenti necessari alla programmazione curriculare, la vita dei docenti è ripiegata sulla rincorsa all’adempimento burocratico. Il tempo dedicato alla ricerca si consuma in fretta e spesso i risultati non sono ottimali, inoltre lo scontro tra le diverse forme d’apprendimento e tra i vari stili cognitivi degli studenti e delle studentesse non trova punti di contatto con una didattica utile alla loro formazione. Così, se per apprendimento intendiamo ancora giustamente le modificazioni del nostro comportamento prodotte dall’esperienza allora è chiaro che non avviene nessun cambiamento e che nella maggioranza dei casi la scuola non riesce ad incidere positivamente sulla vita dei futuri adulti che popoleranno le città di un mondo sempre più globalizzato. Questo è ciò che avviene. Nelle aule delle nostre scuole si consuma quotidianamente una schizofrenia comunicativa che investe i giovani di tutte le età, alzando il muro dell’impossibilità conoscitiva tra docenti e studenti. Non sono più sufficienti metodologie e tecniche mentre la mediazione didattica sembra non avere più incidenza nel percorso formativo dei singoli o dei gruppi. Nella distanza che viviamo ogni giorno tra i banchi di scuola si manifesta il vuoto del rapporto tra docenti e studenti, e non nel metro di distanza fisica da mantenere per evitare il contagio.

Nello sguardo appannato e stanco di migliaia di giovani costretti a tenerlo fisso e rivolto verso un computer sempre acceso durante le ore di didattica a distanza, si è resa manifesta l’obsolescenza del nostro sistema scolastico. Abbiamo fallito tutti. Abbiamo appreso che è giunto il momento di spostare lo sguardo oltre, nonostante le palpebre siano appesantite e gli occhi arrossati dalla luce degli schermi che quotidianamente non smettiamo di fissare. Dedichiamo il nostro tempo ad un cambiamento d’orizzonte, poiché non sappiamo quando verrà risanata questa ferita nel legame che istaurano i ragazzi con la figura del maestro. Dunque: cosa servirà affinché si verifichi il contatto? Quale sarà il rapporto ideale e quale quello reale che si prospetta tra docenti ed allievi? Educare alla ricerca sarà ancora possibile? Ed infine, cosa resta del lavoro dell’insegnante oggi? 

Da queste domande dobbiamo tentare d’interpretare l’attualità nella speranza di trovare delle buone risposte o delle domande migliori da cui ripartire.

 

1. Oltre il maestro

 

Attraverso l’incontro col diverso da noi apprendiamo i contorni della mente pensante che siamo e non dall’utilizzo degli strumenti adeguati a risolvere un determinato problema. Dal contesto formativo apprendiamo come vivere la consapevolezza del nostro modo di apprendere, mentre per prove ed errori procede la ricerca di un metodo adeguato al nostro stile cognitivo. Tuttavia oggi i docenti sono chiamati a questa pratica nel mantenimento del distacco. Fornendo mezzi che permettano di riprodurre un meccanismo senza saper interpretare il perché avvenga in un determinato modo e non in un altro. A questa pratica viene accompagnata la ricerca continua di criteri oggettivi per una valutazione insindacabile (infatti manteniamo una posizione difensiva perché temiamo di poter essere attaccati e questo forse è il sintomo più evidente che qualcosa non funziona). 

Considerando unicamente questi due aspetti comprendiamo come non siano sufficienti ad una visione autentica dell’oggetto della nostra indagine, poiché: «Spiegare non basta a comprendere, come ha rivelato Dilthey. Spiegare è utilizzare tutti i mezzi obiettivi di conoscenza, ma che sono insufficienti per comprendere l’essere soggettivo. C’è comprensione umana quando sentiamo e concepiamo gli umani come soggetti; essa ci rende aperti alle loro sofferenze e alle loro gioie; ci permette di riconoscere negli altri gli stessi meccanismi egocentrici di autogiustificazione che sono in noi»[1]. In questa pedagogia che guarda con attenzione ai mutamenti del comprendere, del portare con sé che non è mai trascinare ma quasi sempre un lasciarsi andare, consiste il nostro andare oltre il maestro. Nel superare le teorie di un’istruzione istituzionalizzata accogliamo definitivamente l’idea che la comprensione sia un percorso attraverso il quale possiamo fare il passo decisivo ed andare dall’istruzione all’educazione. Dall’insegnare inteso etimologicamente come lasciare il segno, ovvero imprimere nella mente dell’allievo un modo per avvicinarsi ad una realtà che trascende la semplice visione della realtà, all’educare come l’atto maieutico del far venir fuori e del condurre l’individuo ad una nuova sensibilità. Sicché sul concetto di educare esiste un’etimologia eretica che accosta il termine educere al più pertinente seducere. Quest’ultimo valorizza i connotati heideggeriani del concetto di Lichtung (radura), da cui apprendiamo come: «Portare via significa anche rapire, strappare, separare, sedurre. Educere assomiglia molto a seducereanche nel senso di sviare e portare fuori strada. Ma soprattutto, prima che condurre in un luogo appartato, può significare condurre all’aperto. Il gesto educativo è il gesto di chi porta nella radura»[2]. Questa intuizione preliminare è necessaria per comprendere e far nostra l’idea del cammino che conduce alla conoscenza di qualcosa. Per queste ragioni, riprendendo il pensiero dello psicologo americano D. Ausubel sulle forme dell’apprendimento, possiamo affermare che l’apprendimento che andiamo ricercando è quell’apprendimento che conferisce significato a quanto appreso nella misura in cui crea nuove visioni del mondo. Così si manifesta la verità che nascondeva l’atto del superare. Omaggiando il maestro che ci ha condotto sin lì, bisogna superarlo andando oltre e portando con sé il lascito del superamento; parafrasando le parole del filosofo di Röcken: ripagheremo male un maestro, se rimarremo sempre e solo dei discepoli[3]. Questo monito antico giunge alla nostra riflessione, per ricordarci che l’infedeltà al maestro è un valore e che bisogna essere fedeli nel tradimento. 

Il maestro dunque è colui che indica la strada ma anche colui che percorre insieme ai suoi allievi i sentieri già battuti. Condurre alla radura significa quindi perdersi per ritrovarsi ed assumersi questo rischio è il preciso compito di chi si orienta tra i boschi, di chi ha dedicato la sua vita alla ricerca autentica. Se ciò non dovesse accadere, riconosceremo che non ha senso camminare senza una guida e che procediamo a passi inadeguati verso l’obiettivo sbagliato, perché tutte le nostre energie sono solamente gestite, le nostre menti riempite come vasi che traboccano d’istruzioni pronte all’uso e il nostro sguardo opaco non è più rivolto a nuove prospettive ma solo verso vecchi schemi precompilati. 

Dovremo infine convenire con le posizioni anticonformiste del filosofo americano H.D. Thoreau, quando ricorda ai suoi allievi di diffidare di chi propone dei modelli di vita prestabiliti e rigidi che spesso ci allontanano dall’essenza delle cose. Potremo parafrasare una sua celebre affermazione ed ammettere che: se dovessimo incontrare un professore di filosofia sarà bene per noi ricordare che lì non c’è un filosofo, ma un impiegato[4]. Proprio per queste ragioni, «molti insegnanti sono insediati nelle loro abitudini e nelle proprie sovranità disciplinari. Sono, come sosteneva Curien, simili ai lupi che marcano il loro territorio con l’urina e mordono quelli che lo violano. C’è una resistenza ottusa, anche da parte di menti raffinate. La sfida è invisibile ai loro occhi»[5]. Se il nostro sguardo non andrà oltre non riusciremo ad accendere quello di chi ci ascolta, se non apprendiamo ad apprendere non sapremo contagiare l’amore per la conoscenza e se vogliamo andare oltre dobbiamo chiedere uno sforzo in più a noi stessi, per trasformare gli sguardi opachi e spenti degli studenti in quello abbagliato ed acceso d’interesse della Nottola di Minerva, che produce trauma e meraviglia.

 

2. La danza delle meduse

 

Soffermarsi ancora una volta per riprendere fiato e poi continuare il cammino alla ricerca di una mutazione che avvenga in itinere e che durante il sentiero conduca ad una trasformazione nello stesso luogo ma in condizioni diverse. In fondo è questo ciò che dobbiamo capire, ovvero che il cambiamento di significati o delle categorie con cui noi interpretiamo il mondo non modifica solo il mondo attorno a noi ma persino noi stessi. Capiremo che trasmettere cultura non è un mero fatto di erudizione ma una scelta etica, che essere intelligenti o non esserlo è una questione da mettere in discussione ogni giorno e di conseguenza appuriamo che nessuno di noi propone unicamente idee brillanti o congetture banali, ma che tutti noi siamo soggetti all’errore. È vero che trasmettere passione aumenta le possibilità di rendere appassionati chi si trova di fronte un’epifania della conoscenza così forte e dirompente. Le informazioni importanti le apprendiamo dal modo in cui vengono esposte e solo quando riescono a coinvolgere la nostra emotività si verifica l’apprendimento significativo, la cosiddetta warm cognition di cui parla la professoressa D. Lucangeli dell’Università di Padova.  Una cognizione calda è fondamentale, poiché lo stato emotivo attraverso il quale vengono trasmesse le nozioni stimola l’attività cerebrale e crea un’alleanza d’intenzioni che migliora il legame tra allievi e docenti, mettendo definitivamente al bando lo spauracchio dell’errore come fallimento disciplinare. In tal modo il docente si svincola dal ruolo di giudice che assegna una votazione quantitativa ed istaura una relazione di fiducia che migliora l’apprendimento. 

Chi insegna qualcosa deve anche educare qualcuno, poiché solo nella cura del rapporto con l’amante della conoscenza avviene l’apprendimento. Abbiamo l’opportunità di capovolgere questo rapporto e siamo chiamati a farlo. Nelle parole di M. Recalcati: «La sostituzione metaforica dell’erastes all’eromenos è la manovra essenziale per aprire il processo della cura analitica, ma, più in generale, potremmo considerarla la manovra essenziale di ogni processo di formazione e, in quanto tale, è un’operazione che dovremmo collocare al centro di una trasformazione autentica e riuscita del sapere»[6]. Tutto ciò tradotto nel rapporto maestro-allievo si declina nei termini di un mutamento spirituale; poiché lo spirito muta irreversibilmente quando avviene il contatto folgorante con l’intuizione decisiva della consapevolezza.

Ripartendo dal prendersi cura e dalla tensione che produce e conduce alla conoscenza ritroviamo la vocazione del nostro maestro. Di colui o di colei che indica la strada e non spinge. Del maestro che è un esempio di onestà intellettuale e di curiosità infaticabile, del discepolo delle verità nascoste che si improvvisa conoscitore di sensi non ancora indagati e di espressioni non comprensibili da tutti. Assume le sembianze di una metafora quella che suggerisce come osservando le dinamiche della natura animale possiamo coglierne le analogie coi movimenti della conoscenza umana e che probabilmente in uno dei fenomeni naturali più spettacolari ma anche più illogici ritroviamo fonte d’ispirazione. In quella che potremmo definire la danza delle meduse cogliamo le analogie con l’andamento delle scoperte, delle invenzioni e dei flussi di apprendimento umani. Così come le meduse che nuotano in maniera disordinata e si scontrano tra di loro involontariamente alla ricerca di correnti d’acqua calda, allo stesso modo le idee e le teorie senza nessuna motivazione intrinseca descrivono traiettorie immotivate. Percorsi lenti, talvolta a ritroso, compongono lo spettacolo dei colori. La meraviglia della materia che galleggia nell’unica sostanza che noi siamo, o con le parole di L. Caffo: «Siamo cellule di un unico corpo spinoziano […] è la nostra morte a garantire l’immortalità del tutto»[7]. Sarà necessario perdersi nell’insensatezza delle curve tracciate dai nostri interrogativi e costeggiare i tentativi di risposta per coglierne il senso unitario, per coglierne la danza. Se è vero che il tutto è più della somma delle sue parti, allora avremo finalmente occhi nuovi per attribuire significato all’insensatezza dei movimenti interpretativi. Occhi nuovi per osservare meglio gli stessi paesaggi che non ci appariranno più come prima ed un’attenzione diversa per guardare alle aule in cui studiamo come luoghi di crescita umana e professionale. 

 

Conclusione

 

Nel panorama della scuola italiana non c’è spazio per devianze metodologiche basate sul modello americano come l’ability tracking, che riducono il modello educativo ad una competizione darwiniana per ottenere ruoli di prestigio nella società dell’imprenditoria solipsistica. Oltre a violare senza giustificazioni il «principio della “equi-eterogeneità” della scuola italiana, ovvero l’obbligo per legge di formare classi che includano nella misura più ampia possibile studenti differenti per abilità, origine sociale ed etnica»[8].

La scuola dovrebbe essere un luogo d’incontro. Una grande comunità di curiosi che apprendono servendosi dell’esperienza e dei metodi dei suoi maestri, ovvero di coloro che hanno già percorso quei quesiti, le trame delle diverse discipline e sono pronti a lasciarsi sorprendere dalle successive navigazioni interpretative. 

Di conseguenza l’orientamento ed il metodo sono gli elementi più preziosi che dovrebbe fornire la scuola oggi, anche se frequentemente sono i grandi assenti che non rispondono da tempo all’appello della nostra formazione. Non possiamo pretendere dagli altri ciò che noi non abbiamo e ciò che non abbiamo chiesto a noi stessi. Non dobbiamo cadere in questa trappola, ovvero quella del naufragio di tutte le nostre buone intenzioni ma non dobbiamo neanche credere che quest’ultime siano sufficienti. 

Questo è ciò che manca per ritrovare l’apprendimento autentico e conseguentemente noi stessi. Lo sguardo folgorante della Nottola di Minerva è il grande assente negli occhi di chi non crede che sia più possibile educare alla ricerca in uno spazio depauperato delle sue forme prima traboccanti di senso ed oggi prive di ogni significato.  


[1] E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, p. 50.

[2] R. Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Laterza, Roma 2018, p. 26.

[3] Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1976.

[4] Cfr. H. D. Thoreau, Walden. Ovvero vita nei boschi, Bur, Milano 1988.

[5] E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, cit., p. 104.

[6] M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014, p. 50.

[7] L. Caffo, Fragile umanità. Il postumano contemporaneo, Einaudi, Torino 2017, p. 91.

[8] A. Gavosto, La scuola bloccata, Laterza, Roma 2022, p. 46.

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