Biennale Arte 2022: il Corpo come Differenza

di Elvira Gravina

La mostra dal titolo Il latte dei sogni allestita alla Biennale Arte 2022 di Venezia è una mostra sulla corporeità. La maggior parte dei 1433 artefatti[1], siano essi dipinti, installazioni, documentari, video, sculture o veri e propri oggetti, raffigura ed esprime la corporeità sotto varie forme. E questo non sorprende se si prende in considerazione l’insieme di interrogativi e di riflessioni che sono alla base della ricerca della curatrice Cecilia Alemani e, di conseguenza, di questa 59a edizione della Biennale, che possono essere riassunti nelle domande riportate di seguito:

  1. Come sta cambiando la definizione di umano?
  2. Quali sono le differenze che separano il vegetale dall’animale, l’umano dal non umano?
  3. Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo?
  4. Come sarebbe la vita senza di noi?

Si può notare come queste siano domande prettamente filosofiche che alimentano la ricerca del pensiero sotto vari punti di vista e prospettive come quello dell’epistemologia, della filosofia della mente e della filosofia morale, senza tralasciare il necessario contatto con discipline trasversali come l’antropologia e la sociologia. Qualunque sia la prospettiva adottata sembra fondamentale porre attenzione ai corpi e alle relazioni tra i corpi, così come alla relazione simbiotica con l’ambiente e con il mondo, se si vuole cercare di dare delle risposte a quegli interrogativi. 

Si ottiene una maggiore e vigorosa conferma di ciò quando la curatrice, nel descrivere gli intenti delle opere, parla di artisti che «adottano la metamorfosi, l’ambiguità e la frammentazione del corpo proprio per contrastare l’idea dell’uomo unitario rinascimentale» e che «in opposizione celebrano un dominio del meraviglioso e del fantastico superando tutti quei dualismi tra mente-corpo, umano-non umano, femminile-maschile in favore di un ibridismo e di una realtà, relazionalità e individualità fluttuanti»[2]. Per realizzare questi intenti sono state seguite tre tematiche di fondo che si intersecano e coinvolgono reciprocamente durante tutta l’esposizione: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi, la relazione tra individui e tecnologie e la connessione che intreccia corpi e terra.

Sono moltissimi i termini che richiamano una riflessione un po’ più approfondita. Ad esempio l’utilizzo della parola “ambiguità” riferendosi ai corpi che non deve essere intesa soltanto in termini sessuali o di genere, ma che si riferisce all’intrinseca ambiguità di cui tutti gli aspetti della vita umana sono intrisi. Ambigua, infatti, è la natura dell’esistenza stessa, in quanto essa è aperta a infinite possibilità, è plurale e mai definitivamente statica, e in quanto plurale contiene in sé diversi aspetti. Questo sono i corpi: poiché hanno delle necessità biologiche essi sono manchevoli e desiderosi e per rispondere a tali carenze diventano creativi e costruttivi ma anche ciechi e distruttori. Emerge così in maniera chiara il fil rouge che connette le tematiche: l’uomo, in quanto corpo è, per propria natura e dunque da sempre, in continua trasformazione poiché capace di modificare l’ambiente che lo circonda, il mondo in cui vive. E lo fa attribuendo senso alle cose esistenti in natura, trasformando così un oggetto in un significato, ma lo fa anche creando egli stesso degli strumenti tramite i quali riesce a superare i propri limiti, a ovviare a determinate difficoltà, a migliorare la propria vita.

Ecco la condizione metamorfica e in qualche senso “magica” dell’umano: quella che gli permette di realizzare qualcosa che non sarebbe stato possibile altrimenti, di produrre eventi, di modificare il reale ma anche che gli consente di andare oltre se stesso, di produrre qualcosa che va sempre più determinandosi come un’estensione di sé e della propria corporeità: la tecnologia. Quindi le relazioni tra i corpi sono necessariamente anche relazioni con le tecnologie e non ci si può più esimere dall’indagare questa relazione se si vuole conoscere e studiare il fenomeno umano. Infine, è bene esplicitare anche il passaggio all’ultimo tema e cioè la connessione tra  corpi e la terra. Le corporeità che siamo non fluttuano in uno spazio iperuranico, ma abitano una terra. Il corpo che noi siamo non si limita ad agire in maniera arbitraria senza ripercussioni sull’ambiente esterno. L’azione umana non è solo un agire, né un reagire (come pensano in maniera riduttiva alcune filosofie cognitiviste) ma anche e soprattutto un interagire. È dunque fondamentale non solo rinnovare la consapevolezza di essere, come ci insegna Martin Heidegger, Mit-Sein e cioè Essere-con-gli-altri dove l’Altro deve essere considerato non soltanto l’altro uomo, ma l’essere altro in generale, ma anche rendersi consapevoli di essere In-der-Welt-Sein, Essere-nel-Mondo. E la terra è il fondamento di questo mondo e non a caso è così sin dalle cosmogonie e dalle mitologie di differenti culture.

Tra le moltissime opere in mostra è necessario fare una cernita che permetta di esemplificare tramite le opere i temi di cui si è discusso sopra. A tal proposito è impossibile non citare le opere di Rosana Paulino quali Senhora das plantas, una serie di disegni in cui vengono raffigurate donne dalle quali si diramano radici e piante o la serie Jatobá che rappresenta una figura ibrida che a partire dal suolo diventa radici e tronco e da tronco si tramuta in un umano dalle cui estremità corporee nascono fiori o frutti; vi sono poi le mastodontiche sculture-forno di Gabriel Chaile che ritraggono alcuni dei suoi cari e che rievocano così la continuità tra la funzionalità del recipiente-forno che richiama un senso di nutrimento e sostegno, e quella della famiglia e dei componenti che ne fanno parte.

Oltre a mettere in mostra opere molto recenti come queste appena citate, è stato scelto di istituire delle “capsule del tempo” nelle quali vengono esposte anche opere più “datate” ma che possono sicuramente suscitare ulteriori riflessioni pienamente coerenti con i temi presentati fin qui. Tra queste, le raffigurazioni di Leonora Carrington[3] in cui è possibile ravvisare corpi mutanti ibridizzati con parti animalesche o, anche qui, con radici, oppure l’École de vanité di Jane Graverol (1967) in cui una figura mitologica quale è la sfinge viene riproposta in chiave ibrida presentando testa di donna, arti di animali e un corpo costituito di parti meccaniche e robotiche, tra cui le zampe che trattengono un fiore.

Come si può notare, c’è un concetto onnipresente che connette le tre tematiche di base: l’ibridazione. Nel suo testo La mente temporale, Biuso definisce l’ibridazione come  «un processo che dura da sempre poiché l’esistenza umana è contaminazione con l’alterità, scambio continuo con il diverso da noi, anche con l’alterità digitale e computazionale delle macchine che sono state e saranno progettate da noi e per noi, a vantaggio della nostra immersione nel mondo»[4]. L’ibridazione è la necessaria e profonda connessione tra l’umano e il suo ambiente, sia esso naturale come le radici o le figure animali nei quali i corpi raffigurati in alcune opere della mostra si tramutano, sia esso tecnologico e artificiale come emerge da altre. A tal proposito mi sembra fondamentale citare l’opera dell’artista Agnes Denes[5]  Introspection I—Evolution (1968–1971) e Introspection II—Machines, Tools & Weapons (1969–1972), due stampe monotipo che raccontano gli aspetti interconnessi dello sviluppo e della conoscenza umana: in quella blu viene narrato lo sviluppo biologico, anatomico ed evolutivo dell’uomo in quanto corpo naturale mentre in quella marrone Denes ripercorre la storia del progresso tecnologico che non è altro che la storia dell’uomo, così come la storia dell’umanità non può non contenere pagine dedicate ai primi strumenti e alle tecnologie più evolute, ossia a quelle protesi del corpo umano che si sono rivelate fondamentali per vivere e sopravvivere nell’ambiente. Ecco cosa rappresenta la sfinge di Jane Graverol: essa non è altro che un simbolo dell’uomo contemporaneo in quanto «siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo: in breve, siamo tutti dei cyborg. Il cyborg è la nostra ontologia»[6]. Proprio per questo l’ultima capsula del tempo è intitolata La seduzione del Cyborg, titolo preso in prestito dall’opera dell’artista Lynn Hershman Leeson, Seduction of a Cyborg (1994). Essa consiste in un video in cui si racconta di una donna cieca che accetta la possibilità di ibridarsi, possibilità che le consentirà di tornare a vedere attraverso lo schermo di un computer e cioè di svolgere un’azione naturale tramite l’uso della tecnologia, di tornare umana nel suo tramutarsi in un cyborg.

Tutto questo è riconducibile alle domande e alle riflessioni di una specifica corrente culturale e filosofica quale è il postumanesimo, tanto che la stessa curatrice specifica in più occasioni l’importanza ispiratrice della filosofa italiana Rosi Braidotti. Alla luce delle opere d’arte della Biennale il postumanesimo è la risposta agli interrogativi che ne hanno ispirato temi, contenuti ed espressività: decentrare l’umano, ripensarlo all’interno di un sistema complesso di relazioni e accettare la dissoluzione di quell’unità rappresentata dall’uomo vitruviano, accogliere l’impossibilità di una natura originaria e immutata che deve far posto all’Altro in tutte le sue sfaccettature.

E dunque:

  1. Come sta cambiando la definizione di umano?

È possibile rispondere che l’uomo è un essere autopoietico e in continuo divenire con un limite invalicabile: la corporeità. La sua natura corporea, però, è proprio ciò che gli permette di andare oltre se stesso e, come dice Alemani citando Braidotti, «farsi macchina e farsi terra».

  • Quali sono le differenze che separano il vegetale dall’animale, l’umano dal non umano?

La specificità dell’uomo non consiste in una superiorità intellettiva o nelle sue capacità cognitive dato che l’intelligenza è più corporea e percettiva di quanto a volte si è portati a pensare. Sarebbe più opportuno, invece, fissare il carattere distintivo dell’umano nella sua capacità di creare e utilizzare quelle che Cassirer ha chiamato “forme simboliche”. La differenza sostanziale tra un uomo e un animale e tra un individuo e una macchina può essere racchiusa in una parola: cultura, ossia l’insieme di quei fenomeni che producono un significato, colmando quel vuoto di senso che la natura non provvede a riempire. Ciò ci porta al terzo interrogativo, ossia:

  • Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo?

Una più di tutte e cioè abbandonare qualsiasi forma di antropocentrismo e prendere atto dell’impatto negativo che l’azione umana ha nei confronti del mondo il quale va ripensato come una dimora da abitare piuttosto che un territorio da sfruttare.

  • Come sarebbe la vita senza di noi?

Sarebbe arida se si pensa al fatto che abbiamo creato l’arte, la musica, la poesia, la filosofia; sarebbe povera perché non sappiamo se senza di noi ci sarebbe la possibilità di cogliere la bellezza, sia quella della natura che quella derivante dalle nostre forme simboliche; sarebbe, però, più umile in quanto non esisterebbe la pretesa da parte di un piccolo e imperfetto essere di dominare la vastità e l’infinità dell’universo. Uno dei più ardui e complessi compiti della filosofia, o meglio di alcune filosofie, è quello di scardinare le dicotomie che per secoli hanno pervaso e limitato gli studi sull’uomo e sulla mente umana. Se gli intenti della ricerca filosofica riguardano il tentativo di superamento dei dualismi al fine di un’analisi quanto più olistica e meno deficitaria possibile, quelli della mostra della Biennale sono finalizzati a evidenziare ed esaltare l’importanza della pluralità e del fluire delle differenze


[1] Il numero si riferisce sia a opere d’arte che a oggetti presenti all’esposizione ed è stato dichiarato dalla curatrice Cecilia Alemani durante la presentazione della mostra che è possibile vedere al presente link: https://www.youtube.com/watch?v=C1WNFwn-jqo (consultato il 13.12.2022).

[2] Le parole racchiuse nel virgolettato sono state trascritte dal video della presentazione il cui link si trova alla nota 1.

[3] Il titolo della mostra deriva proprio da un racconto di questa artista.

[4] A.G. Biuso, La mente temporale. Corpo Mondo Artificio,  Carocci, Roma 2009, p. 259.

[5] Denes è considerata una figura pionieristica dell’arte concettuale e dell’arte ecologica e ambientale. L’opera si trova nella capsula del tempo chiamata “Tecnologie dell’incanto”.

[6] D.J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature, 1991), trad. di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1995, p. 41.

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