Cento anni di luce. In dialogo con «Proust senza tempo»

di Enrico Palma

Il grande Roland Barthes, una riflessione del quale sulla Recherche è stata molto opportunamente inserita come introduzione all’edizione Einaudi del capolavoro proustiano, si slancia in un’affermazione che rappresenta un vero e proprio indice programmatico per una nuova frontiera di fare ermeneutica, la quale – per il filosofo francese in stato ancora larvale, inconsapevole e implicito – consiste, piuttosto che nella vetusta critica letteraria a cui siamo vieppiù abituati, in un tipo molto particolare di racconto[1]di sé dinanzi al testo. Io stesso, nel mio piccolo territorio di studioso provetto, riscontro difficoltà spesso insormontabili nel proporre esercizi filosofici e critici a riviste scientifiche se redatti in prima persona, frammisti di riferimenti abbastanza velati a esperienze personali (che pur rappresentano, dopotutto, lo specchio vitale in cui la filosofia o la critica dovrebbero far riflettere la materia speculativa e letteraria per comprenderla), con il risultato di matematiche richieste di rettifiche (spersonalizzare il testo, espungere l’esperienza, oggettivare il punto di vista) o addirittura con un categorico rifiuto: non tanto dettato – Deo gratias – dalla sostanza del lavoro che in genere è buona, bensì dall’eccessiva vicinanza tra il sé e il testo. Si direbbe che quella che mi ostino a praticare sia una testardaggine ancora tutta da sistematizzare e concettualizzare a livello filosofico, per cui al posto dell’io che in filosofia e letteratura dovrebbe presenziare di diritto se ne preferisce un altro, un soggetto aleatorio ed evanescente che si distacca dal libro senza esserne provocato, afferrato e sconvolto.

Ma perché allora Barthes? Perché questa nuova frontiera dell’ermeneutica, della filosofia, della critica, potrebbe essere non più una sterile cervellotica libresca, come se il testo fosse un morto il cui cadavere viene sezionato a scapito del calore che emanava un tempo, ma invece un vero incontro, un colloquio silenzioso ma roboante nell’anima, nel fracasso di certezze crollate o brezze di immedesimazione e riconoscimento: un metabolismo esistenziale che trasforma il già dato in un ancora da essere all’insegna della serena comprensione di sé e del mondo.

Ragionare e riflettere su un testo, leggere quindi le righe che un altro uomo o donna hanno scritto su un libro al quale tengono particolarmente, costituisce il fattore che rende l’atto critico-filosofico a mio avviso più interessante, a maggior ragione quando l’anima che lo incontra è grande e l’incontro veritativamente rilevante. Ciò che sembra palesare Barthes, infatti, è criticare un testo raccontando la relazione e la storia di incomprensioni reciproche o di amori indiscussi, crollati e risolti con una grande opera. E al filosofo francese ciò accade, per un caso assolutamente curioso e dunque tutto da indagare, proprio con la Recherche.

Raccontare quindi le circostanze dell’acquisto, la persona che ce l’ha regalata, il luogo in cui la si è letta, i dolori che ci ha causato, la gioia che ci ha fatto provare, il sollievo dalla vita che alla fine ci ha donato, sono elementi altrettanto degni rispetto alla concettualizzazione, ad esempio, di un’analitica esistenziale in Proust o a coglierne le radici balzachiane e le spinte teoretiche.

Trovo quindi molto giusta la frase del libro Proust senza tempo di Alessandro Piperno, la quale mi sembra nella sua semplice bellezza cogliere il cuore della critica, definendola appunto come «un atto creativo ed emozionato»[2]. La critica e la filosofia che indugiano sui testi sono creative poiché fondano laddove c’era – intorno, prima e oltre i testi – un vuoto di senso e di interpretazione, ed emozionate poiché rendono conto dei movimenti, dei sommovimenti e finanche dei contorcimenti avvenuti all’interno del lettore, la coincidenza della peristalsi con lo sfogliare delle pagine, il ritmo sfasato, l’andare a tempo nello spettacolo sempre meraviglioso dell’essere conosciuti da un’opera. La critica istituisce verità o cerca di avvicinarsi a essa aprendo il testo al fascio di luce che illumini le opere secondo il giusto grado di rifrazione, ed emoziona perché il critico, venendo mosso ab initio, sa muovere anche chi li legge, auspicando così un incontro, direbbe Hegel, più caldo[3]con i lettori.

Credo che sia questa la tonalità critica del libro di Piperno appena pubblicato per i cento anni dalla scomparsa dello scrittore parigino: un fare i conti, e quindi un fare critica, direttamente con l’opera parlandone come di una cara amica, una guida da tutta una vita e anche un ostacolo, un talismano verso un altro mondo che rappresenta la verità che un libro a volte, se è un grande libro, può diventare cambiando per sempre la nostra esistenza. E lo faccio immaginando una specie di seconda conversazione, iniziata in realtà in un piccolo ma graziosissimo paese della Valle d’Aosta, Morgex, nel quale, in occasione dei Rencontres de l’Archet organizzati dalla Fondazione Sapegno, ho avuto modo di esporre brevemente anche la mia modestissima parte su Proust, scambiando qualche battuta con l’autore proprio come lui lo aveva fatto con il libro al quale molti altri sono legati con una vera e propria catena: la malia fatta di tempo e verità, inestricabilmente intrecciati tra di loro, che in fondo è la Recherche.

Uno dei miracoli della Recherche è quello di aver mostrato con una chiarezza addirittura crudele l’implacabilità dello scorrere del tempo, un’emozione che il lettore prova con maggiore intensità soprattutto giungendo alla fine, quando Proust mette in scena lo strepitoso Bal des Têtes, il ballo in maschera di sua maestà il Tempo che per esibirsi prende in prestito il corpo degli umani, quei personaggi che nell’ultimo atto del romanzo sono ridotti a orribili e grottesche caricature di loro stessi[4]. Piperno ricorda, allora, ciò che la scrittura può rappresentare forse in modo proditorio ma illusorio, il «conforto offerto dalla forma», che però nulla può contro lo «sgretolarsi dei giorni»[5]. Tuttavia, è questa idea che contesto non appena si parla di Proust, e cioè che la letteratura, specie quella eretta in modo monumentale dallo scrittore parigino, non sia appunto una forma che offra un riscatto, un modo per rappresentare la crepa sul tempo della nostra vita fermandolo, prelevandolo dal divenire e collocandolo in un’altra dimensione di pura luce, un regno fatto di parole che solo l’artista può ottenere e far raggiungere.

È senz’altro vero che Proust nella sua opera assume posizioni ambigue: da un lato declama l’immortalità dell’anima e di un mondo letterario sottratto al tempo; dall’altro afferma che questo regno è mortale per definizione, poiché destinato a scomparire non appena non ci sarà più un’umanità in grado di farvi parte. Come risolvere questa contraddizione? Credo che Proust ci racconti l’inferno che è la vita dal punto di vista della redenzione[6], dal punto di vista di chi la vita presume di averla compresa ma che ha bisogno di capirla meglio trasformandola in letteratura e ripercorrendola artisticamente. Narrare, insomma, la storia lunga, dolorosa e accidentata della sua redenzione, alla fine della quale ci sarà appunto la salvezza con la conquista di quella vocazione di cui il Narratore è stato per tutto il romanzo avidamente alla ricerca.

Una circolarità assoluta, una vocazione che ritrova se stessa una volta appreso il male che è la vita, il peccato di sprecarla all’infuori dell’arte, rivoltare il nastro della nostra temporalità compiendo il gesto impossibile di far combaciare i suoi due lembi. Che senso avrebbe avuto altrimenti da parte di Proust dedicare l’ultima parte della sua esistenza a scrivere un libro il cui argomento è proprio questo, qualcosa che più che una biografia è invece un’agiografia, una storia santa o, come è stato giustamente notato, cristologica?

Trovo molto interessante la posizione di Piperno, che, pur riconoscendo il fascino di questa interpretazione, o per lo più questo modo di intendere la fibra più intima della Recherche, non se ne fa infatuare e anzi la rigetta: «Chiunque consacri l’esistenza alla letteratura sogna di raggiungere un tale stato di grazia: a pensarci bene, il solo permesso a chi non conosce il conforto della fede»[7]. Poco prima l’autore ci aveva parlato del conforto della forma ed è proprio tale la fede proustiana, il suo credo fondato su una redenzione per nulla trascendente ma assolutamente immanente che, aspirando a un altrove nebuloso, rimbalza sul sé riscattandolo e risollevandolo dal gravame del vivere, e soprattutto dal suo peccato, avvenimento che può dirsi benissimo uno stato di grazia.

L’«agnizione piena di luce e speranza», la Rivelazione materico-temporale della possibilità di un uomo eterno sopito dentro di noi e che attende di essere svegliato (direi, anzi, più esattamente di essere scritto letterariamente), è solo una falsa pista, un fumo dalle fattezze di una soffice nuvola, una promessa mendace. Continua Piperno: «Ecco come finisce la Recherche. Con un uomo, un uomo qualsiasi, un tipo come noi, solo un po’ più intelligente, che scopre di essere vecchio. Altro che riscatti garantiti dall’arte! Altro che vita vera!»[8]. Proust prometterebbe un cammino salvo poi realizzare il contrario: «Ecco, è proprio così che ti frega»[9]. In realtà, dal mio canto, ritengo che le cose stiano diversamente: la Rivelazione, cioè riscoprire attraverso la memoria involontaria che tutto non è ancora perduto, che una possibilità di eternità è data all’uomo ma di cui ancora si deve appurare la forma per metterla in pratica, è quella promessa che per Piperno era l’ultima e anche la più crudele delle illusioni con cui Proust termina il romanzo, a questo punto senza alcuna speranza. Ma, mi chiedo, una volta conosciuta l’eternità a cui si può far avvicinare la propria vita, che si può convertirla nella luce della parola[10] prelevando le verità in cui ci si è imbattuti, e con essa la miriade di dolori, sofferenze, patimenti, leggi, curve e andamenti, che senso avrebbe provare angoscia per una morte che può coglierci troppo presto, prima di poter realizzare l’opera alla quale da sempre il Narratore era stato destinato ma che soltanto in quel momento capisce di avere dentro di sé, guardando la Morte in faccia sui visi presi in prestito dei suoi amici, quella Morte sinonimo del Tempo che aveva fatto e farà ancora incetta di vittime? La mia risposta è che quella carnevalesca parata umana ha l’unico scopo di fungere da contrasto per l’apparizione di Mademoiselle de Saint-Loup, la figura nel romanzo più perspicua della Giovinezza, il punto in cui tutta la Recherche converge, la metafora dell’Opera dentro se stessa, il simbolo del piccolo trionfo che gli umani possono declamare sul Tempo distruttore di ogni cosa.

Quello che infatti Piperno apostrofa del mito Proust mi sembra al contrario il suo tratto più affascinante, e l’autore lo esprime, seppure contestandolo, con la massima efficacia: «Il sacrificio che aveva in mente di mettere in scena nascondeva un che di cristologico: un altruismo talmente irriducibile da contemplare l’estremo sacrificio di sé»[11]. A prescindere o meno se si tratti di una pantomima di Proust autore realizzata per i motivi più vari (crearsi, come si direbbe, il personaggio; suscitare un alone di sacralità sulla sua opera; accrescere un interesse auratico su di sé), ciò non inficia per nulla il risultato. Anche se Proust fu il creatore del suo stesso mito, è il mito in sé a essere rilevante, perché questa scelta tradisce la sua reale intenzione letteraria: immolare il suo sé per i molti, compiere quel sacrificio vicario che in virtù del suo genio artistico lo scrittore ha compiuto affinché i lettori potessero trarne la più alta delle lezioni esistenziali.

Le pagine della Rivelazione sono realmente come Piperno le descrive, a cui mi permetto di aggiungere lo sguardo retrospettivo che il lettore deve adoperare sul romanzo che Proust ha finito di scrivere, e soprattutto la decisione e la predisposizione maturata da una vita passata alla ricerca della vocazione a realizzare l’opera che l’eternità del tempo che è in noi, ancorché per il balenare di un attimo, finalmente ha rivelato. Dice Piperno che esse «fungono da approdo e da apice all’estenuante cammino di salvezza che è stato preparato con cura, e non senza scaltrezza, sin dal principio. Il culmine del mito, le fondamenta della cattedrale»[12]. E credo che sia esattamente così, che queste siano le fondamenta che all’inizio, sin da Combray, Proust ha eretto, che con la ciclicità che contraddistingue la Recherche, come un Uroboro[13], ritorna nuovamente su di sé per slanciarsi ancora più in alto, verso quel suono e quella luce di cui le cattedrali gotiche sono il massimo esempio artistico.

Molto bello, sempre riguardo al Narratore – quel «petit Marcel» di cui giustamente Piperno dice che non ci si stancherà mai di utilizzare riferendosi a Proust – è l’accostamento compiuto tra il giovane protagonista della Recherche,che vive all’ombra di un’idea forse troppo grande di sé in quanto futuro scrittore da dover essere a ogni costo, e il Salieri subissato da Mozart, in quell’altro mito consegnatoci dal formidabile film di Forman: «Il Narratore (anche in questo sovrapponibile al suo creatore) sembra afflitto dalla cosiddetta “sindrome di Salieri”: Dio lo ha fornito del gusto sufficiente per riconoscere la bellezza, ma non del genio necessario per esserne l’artefice. Come si può vivere con un simile tarlo nel cuore? Come si può invecchiare con la prospettiva di non lasciare traccia? Il problema non è che tutto si dissolva, che le persone amate siano destinare a morire, che anche l’amore più appassionato non resista alle tenebre dell’Oblio. La vera beffa è che tutto questo scialo non prometta riscatti o risarcimenti. Che le grandi leggi dell’esistenza – solipsismo, risentimento, gelosia, snobismo – non siano destinate a defluire nel calderone di un capolavoro letterario»[14].

La storia però sembra avere un insperato lieto fine, almeno per quanto riguarda il Narratore, l’essersi trasformato da apprendista a maestro, da Salieri a Mozart, dal «petit Marcel» al Marcel Proust autore della Recherche. «La luce di riscatto che lo irradia è talmente abbagliante da costringerci a chiudere gli occhi e a guardarci dentro»[15]. La luce è così forte, dice Piperno, che come immagine mi sembra richiamare quella a cui Platone nel Sofista paragona il filosofo, immerso nel barbaglio del sapere di ciò che è, dell’essere, tanto da risultare impossibile guardarlo e coglierne i tratti «perché gli occhi dell’anima dei più sono incapaci di rimanere fissi su ciò che è divino»[16]. Questa stessa luce, nata nell’oscurità e nel silenzio a cui Proust si votò, raggiunge anche il lettore, che può quindi leggere in se stesso e convertire il suo peccato, un percorso di ascesi e di ascesa gnostica che in conclusione giunge al riscatto del male e del peccato della vita-che-si-perde: alla redenzione.

Dopotutto, resta molto vera, per chi è artista e non si sente, parafrasando Benjamin, trattenuto dall’impulso verso il concetto che fa di un uomo un filosofo piuttosto che un romanziere, questa considerazione: «Sordo come sono a qualsiasi confessione religiosa, ho bisogno di credere che la vita si specchi benignamente nell’arte. E ne ho bisogno soprattutto quando mi sento di cattivo umore»[17]. Credo che la medesima riflessione sia applicabile a Proust: ritengo infatti che, ancorché imbevuto di religione, non avesse nessuna confessione precisa, né quella ebraica per lui particolarmente problematica né quella celtica, ad esempio, che ricorre spesse volte nella Recherche con una funzione metaforica. La confessione religiosa a cui Proust si dedicò con così tanto fervore, e forse anche fanatismo, fu proprio la scrittura, a cui si votò come a una vera e propria regola. Per lui fu certamente un bisogno, ma direi un destino che si strutturava pagina dopo pagina non appena vergava su ogni foglio, in modo stavolta tutt’altro che metaforico, il tempo ritrovato della sua vita trasfigurata in arte letteraria, e con lui la sua epoca, i suoi amici, il gorgo del divenire sofferente dei giorni che senza la sua opera non avrebbe conosciuto alcun riscatto. Si tratta, allora, di scendere in questo gorgo muti, e farsi riempire da quelle parole, che sottraggono noi stessi alle intemperie del tempo salvandoci in un mondo redento, nel sollievo della vita adesso vissuta pienamente e lontana da qualsiasi concezione del purché sia o del sia così purché duri.

E Proust lo ha fatto consegnandoci un’immagine, come ho cercato di discuterne a Morgex: per meglio dire un mito gnostico, un racconto che è la rappresentazione di un’essenza invisibile che si riveste di una nuova carne e di una forma superiore proprio con la narrazione. E penso, alla fine, a quelle vetrine illuminate che forse troppo romanticamente – facendo un calco dalla veglia funebre allestita per Van Gogh proprio a Parigi dal fratello Theo – mi immagino alle pareti della camera ardente di Bergotte, lo scrittore prediletto del Narratore. Pur morendo da irredento, non avendo speso la sua vita da artista per la giusta concezione, quelle vetrine sono le custodi dei suoi libri, alludono per il defunto alla sua resurrezione, a un’appendice dell’esistenza sulla Terra in un’altra forma: «On l’enterra, mais toute la nuit funèbre, aux vitrines éclairées, ses livres, disposés trois par trois, veillaient comme des anges aux ailes éployées et semblaient, pour celui qui n’était pas plus, le symbole de sa résurrection»[18].

Il Piperno romanziere, anche qui giustamente (e forse più correttamente), intende le vetrine come quelle dei negozi che, illuminate durante la notte della veglia, promettono ancora più vita a colui che non è più. Veglieranno «per un pezzo sulla sua memoria»[19], scrive Piperno, cosa senz’altro vera, com’è vero che una resurrezione assoluta ed eterna in letteratura non è realisticamente possibile. Ma è un’altra sensazione a contare, è quel senso di liberazione che la letteratura porta con sé oltre ogni eternità possibile a interessare me e forse anche ad aver interessato Proust. Secondo la nota testimonianza di Céleste Albaret, infatti, Proust, apposta la parola fin al suo romanzo, deve aver provato una sensazione prossima, se non uguale, all’assoluzione[20]. «La resurrezione operata da un libro che sopravvive al suo autore è la sola speranza di eternità (un’eternità minore, ne convengo) cui un artista ateo e senza progenie possa ragionevolmente aspirare»[21].

Credo che bisogni guardare da una prospettiva diversa: è il processo della scrittura a essere fondamentale, la salvezza in itinere che il romanziere si conquista e poi ottiene quando termina il suo libro: l’aver redento la sua vita e il suo doloroso durare con la letteratura avendoli cambiati di forma. E questa luce irradia, come si diceva, anche sui suoi lettori. Ma per quanto riguarda lo scrittore – come mi è capitato di scrivere in un altro saggio di argomento latamente proustiano ma che ora capisco molto meglio in relazione allo stesso Proust[22] – può addirittura essere del tutto indifferente di cosa effettivamente quel libro parlerà e se sopravvivrà al suo autore. Lo scrittore si trova già nella Luce. Il lettore, invece, ne riceve i raggi, come accade da cento anni.


[1] Cfr. su questo punto A. Sichera, Da Atene a Gerusalemme: per una nuova ermeneutica dell’applicazione, in Id., Ceux qui cherchent en gémissant. Crepuscolo e nascondimento di Dio nella scrittura letteraria, Bonanno Editore, Acireale 2012, p. 59. A sua volta, Sichera rinvia appunto a R. Barthes, «Per molto tempo mi sono coricato presto la sera», in M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, I, La strada di Swann, trad. di N. Ginzburg, Einaudi, Torino 1991, pp. XV-XXVII.

[2] A. Piperno, Proust senza tempo, Mondadori, Milano 2022, p. 122.

[3] Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (Grundlinien der Philosophie des Rechts, 1820), trad. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2006, p. 65.

[4] Mi permetto di rimandare a E. Palma, L’invecchiamento come emozione del Tempo nella Recherche di Marcel Proust, in «Siculorum Gymnasium. A Journal for the Humanities», 5, LXXII, 2019, pp. 313-330.

[5] A. Piperno, Proust senza tempo, cit., pp. 10-11.

[6] Il riferimento è ovviamente a T.W. Adorno, Minima moralia. Riflessioni sulla vita offesa (Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben,1951), trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2015, p. 304.

[7] A. Piperno, Proust senza tempo, cit., p. 22.

[8] Ivi, pp. 22-23.

[9] Ivi, p. 23.

[10] Ricordo la bella espressione di A.G. Biuso: «L’opera proustiana fa splendere la parola nel tempo e il tempo nella parola», in Id. Biuso, Aión. Teoria generale del tempo, Villaggio Maori Edizioni, Catania 2016, p. 95.

[11] A. Piperno, Proust senza tempo, cit., p. 26.

[12] Ivi, p. 27.

[13] Questa metafora si trova in P. Citati, La colomba pugnalata. Proust e la «Recherche», Adelphi, Milano 1995.

[14] A. Piperno, Proust senza tempo, cit., p. 30.

[15] Ivi, p. 31.

[16] Platone, Sofista (Σοφιστής), trad. di F. Fronterotta, Rizzoli, Milano 2007, 254 a-b, p. 419.

[17] A. Piperno, Proust senza tempo, cit., p. 32.

[18] M. Proust, La prisonnière, in À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, Gallimard, Paris 2019, p. 1744; «Venne alla fine sepolto, ma per tutta la notte della veglia funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate, e sembravano, per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione», trad. di M.T. Nessi Somaini, Rizzoli, Milano 2012, p. 227.

[19] A. Piperno, Proust senza tempo, cit., p. 43.

[20] «“E allora, cara Céleste, glielo dico. È una grande notizia. Stanotte ho messo la parola ‘fine’”, e sempre sorridendo e con quella luce nello sguardo, aggiunse: “Adesso posso morire”», in C. Albaret, Monsieur Proust (1973), testo raccolto da G. Belmont, trad. di A. Donaudy, SE, Milano 2004, p. 309.

[21] A. Piperno, Proust senza tempo, cit., p. 43.

[22] Mi riferisco a questo mio modesto saggio sulla Grande bellezza di Sorrentino: E. Palma, L’identità proustiana de La grande bellezza, in «E|C. Rivista dell’Associazione italiana di Studi Semiotici», XXV, 33, 2021, pp. 196-206.

Lascia un commento