Il naufragio della memoria. Sulla strage di Cutro

di Antonio Sichera

Che cosa significa ricordare? Come funziona dal punto di vista della nostra esperienza profonda quella ‘cosa’ che chiamiamo memoria? Che rapporto c’è tra chi ricorda e chi è ricordato, tra noi che ricordiamo e quanti – vivi o morti che siano – trovano posto nella nostra memoria? Sono domande, queste, a cui non si può naturalmente sfuggire quando si vanno a sondare i territori letterari del Novecento, che sono stati come ‘costruiti’ attorno alla memoria. Ritengo però doveroso da parte mia – ecco, doveroso, necessario almeno per me – cominciare questo mio breve percorso facendo leva sul senso di ospitalità legato alla memoria. Perché quando qualcuno sta a cuore a qualcun altro (ri-cordare significa ‘riportare al cuore’, appunto), questo qualcuno – chiunque sia: un bimbo o un adulto, un uomo o una donna, un animale o un albero – viene come accolto nella memoria dell’amante, dell’amico, dell’intimo, e lì trova uno spazio che gli consente di essere-al-mondo, di essere-alla-vita, di non essere ‘nessuno’ perché è ‘qualcuno’ per qualcun altro, perché il suo corpo, il suo viso, i suoi pensieri, i suoi sentimenti sono presenti nella memoria di altri. Lasciare la propria patria, la propria terra, per fuggire, per muoversi verso una terra lontana e sconosciuta significa quindi lasciare un humus ma al contempo lasciare lo spazio in cui si è e si è stati vivi per altri, si è stati accolti da altri, nella speranza che questo possa accadere di nuovo nel luogo che è la meta del viaggio, nella speranza, anche, che alle memorie antiche possano affiancarsi nuovi riconoscimenti, nuove ospitalità, possano affiancarsi nel proprio cuore le immagini e le emozioni di quanti sono rimasti a casa e dei nuovi conterranei.

Il naufragio di una barca insomma è anche il naufragio della memoria, perché ci si è trovati a morire in quello spazio temibile e mostruoso – sin dai tempi della Bibbia –, in quel mare in cui non si è più ospitati da quelli che ci ricordano e non si sono ancora incontrati altri ospiti per i quali essere vivi davvero. E così, nel mare in cui si affonda o pur nella terra straniera in cui si viene seppelliti non si è scortati, accompagnati per mano da un pur minimo corteo di ri-cordanti. È questo dal mio punto di vista uno degli aspetti più strazianti della tragedia di Crotone, perché ci mette davanti alla distruzione delle vite e delle memorie, di quei fili che possono essere intessuti anche nella morte e che rinfrescano la vita. I corpi affondati o diventati numeri sono il segno di una cancellazione dell’identità profonda che ci viene conferita dal reciproco ri-cordo, dall’accoglierci gli uni gli altri nel cuore. La radicalità dell’essere vittima si mostra qui nella maniera più potente e lancinante, come se fossimo davanti a quelle macerie della storia, che qui sono i resti di legni e di corpi, quelle macerie – dicevo – di fronte alle quali si leva lo sguardo attonito dell’Angelo di Benjamin. Dis-umano è sottrarsi a questo sguardo, non sentire ‘politicamente’, nell’accezione più alta del termine – prendersi cura della polis – il senso di una tragedia umana come questa.

[Foto di Alice Magnano: la costa calabrese vista da Torre Faro nei pressi di Messina]