Recensione a:
Augustin Berque
Essere umani sulla terra. Principi di etica dell’ecumene
Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2021
Pagine 184
€ 16,00
di Mattia Spanò
Chiunque, oggi, dovesse proporsi di affrontare la questione ambientale, prendendo così parte ad uno dei dibattiti maggiormente frequentati del nostro tempo, non potrebbe che costruire un discorso in larga misura già situato. Ogni essere umano, così come qualsivoglia gesto di cui ciascuno – a suo modo – è interprete, risente del milieu dal quale affiora; al contempo, vi è da osservare che ogni intervento sul mondo concorre anche all’indomita riscrittura dello stesso. In altre parole, le traiettorie di pensiero ed azione che trasformano il mondo sono esse stesse già-mondo e risentono del particolare, e sempre in movimento, orizzonte spazio-temporale entro cui si realizzano (che non è mai astratto, generico, neutro). Seguendo un tracciato in cui si incontrano Michel Foucault e Carlo Sini, si potrebbe dire: non ogni cosa può essere fatta o detta in ogni tempo e luogo. La riflessione non si limita ad abbracciare alcuni aspetti dell’esistenza, ma riguarda il fare umano tout court. È così che, ad esempio, l’attuale concetto-scenario di ambiente ci arriva, in una qualche misura, già carico di teoria o, se si vuole, “sporcato” di mondo. E la dinamica coinvolge ogni altro concetto-scenario (modo alternativo di intendere e rendere il connubio cose-parole, se dietro le stesse vi è un lavoro, seppur spesso carsico, in costante fermento).
Rimanendo sul concetto-scenario di ambiente – come la presente situazione suggerisce – cosa si può dire, in termini perentoriamente definitivi, dello stesso? Se possedessimo, già, la nozione di ambiente in sé, in questa – come in ogni altra – sede non avremmo che aggiungere. L’attuale concetto-scenario di ambiente ci arriva, invece, filtrato dal fondo storico-geografico in cui siamo gettati, per quanto la cosa possa sfuggire. Oggi sembra, infatti, “normale” che la questione ambientale ricopra, con indefettibile puntualità, almeno uno dei punti all’ordine del giorno dei più disparati programmi individuali e collettivi: appare quasi naturale (strano gioco linguistico) intendere la tutela dell’ambiente come una questione d’ordine etico-morale, sociale-comunitario, economico-politico; ma raramente ci si sofferma sul fatto che il Ministero dell’Ambiente, in Italia, sia stato istituito solo nel 1986. Ciò non significa, certo, che fino a quel momento la questione ambientale non rientrasse nell’alveo degli interessi del corpo collettivo italiano, ma restituisce sicuramente un indicatore di tendenza culturale e politica (nel senso più ampio del termine). In altri termini, l’istituzione così recente di un vertice dell’amministrazione statale preposto alla tutela ambientale, dice qualcosa sul modo complessivo in cui – fino ad una certa epoca – è stata intesa l’azione trasformatrice dell’uomo sull’ambiente fisico: positivamente, in ordine al progresso della civiltà. In aggiunta, si potrebbe far riferimento a datazione e collocazione di altri eventi-cardine a favore della tutela ambientale, la maggior parte dei quali si raggruppa, in particolar modo, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando «ha iniziato a diffondersi un modo completamente diverso di vedere le cose che è divenuto oggi prevalente», ricalibrato sugli «effetti negativi della civilizzazione moderna sull’ambiente […] che mettevano in pericolo l’abitabilità stessa della Terra per l’umanità» (p. 48).
In questa soglia il geografo francese Augustin Berque articola la sua opera Essere umani sulla terra, emersa dall’esigenza – e ambizione – di riconsiderare la questione ambientale, proponendo itinerari di pensiero e azione alternativi a ciò che, da un lato, discende dall’alveo interpretativo del pensiero ecologico classico e, dall’altro, è assunto e prodotto entro le coordinate antropocentriche di stampo moderno. Secondo Berque, infatti, entrambe le prospettive non restituiscono strutturalmente la possibilità di approcciarsi con il debito rigore all’inestricabile e co-costitutiva relazione tra l’essere umano e la terra, ritenuta «la condizione necessaria a partire dalla quale potremo comprendere meglio perché, proprio come esseri umani, dobbiamo agire diversamente nei confronti della terra» (p. 43). Proprio in quanto esseri umani: l’ago della bussola teoretica si dispiega da e verso qui.
Questa l’irrevocabile condizione che Augustin Berque pone e non tarda a sviluppare, descrivendo una traiettoria sinusoidale che – come anticipato – si articola, pungente, tra due poli. Il primo, la modernità, ospita nei suoi tratti generali «qualcosa di particolarmente contrario agli equilibri ecologici, qualcosa che ha a che fare con la natura stessa di questa civiltà, e che non è solamente questione di effetti quantitativi» (p. 48). Berque, dunque, si riferisce a quanto si è soliti tematizzare in termini di progresso tecnico, soffermandosi sugli aspetti qualitativi oltre che quantitativi del processo.
In tal senso, ravvisa una tendenza generale già riscontrabile, in fase embrionale, nell’Etica Nicomachea di Aristotele, dove lo Stagirita esplicita una postura teoretica volta a tracciare una linea di demarcazione netta tra l’uomo e le cose inanimate. Prospettiva – continua il geografo francese – che riceverà una significativa spinta dalla mossa dualista di cartesiana memoria e dalla scissione, operata dal filosofo scozzese Davide Hume, tra la realtà in quanto ciò che è (l’is) e la realtà in quanto ciò che dovrebbe essere (l’ought). Questo punto di vista – seppur in un lungo processo di fermentazione e sedimentazione – è stato recepito e fatto proprio dalla scienza moderna che, eleggendolo a «condizione di tutta la conoscenza obiettiva» (p. 49), si è andata gradualmente separandosi dal mondo dell’esperienza, «dove le cose non sono mai» del tutto «indipendenti dalla morale» (p. 50), per rivolgersi ai propri oggetti d’indagine in termini sempre più descrittivi e sempre meno etico-orientativi.
Si tratta di un dispositivo che Berque definisce oggettivazione del mondo e che ha, nel tempo, permeato l’intera civiltà a partire da un presupposto ontologico: il soggetto che, auto-fondandosi, si rapporta ai propri oggetti – l’altro da sé – in termini amorali, «senza considerazione per il loro essere» (p. 51); se è il soggetto a porsi nel mondo in termini autonomi e non relazionali non stupisce che questa mossa di cesura si sia «accompagnata all’idea che la verità delle cose non è quella della pratica ma quella della ragione stessa» (p. 56): è dunque un osservatore statico a stabilire le coordinate entro le quali assumere qualsivoglia oggetto che, in virtù delle premesse, non solo dipende integralmente dal soggetto osservante ma non ha con quest’ultimo alcun legame che non sia strumentale. A ciò, Berque affianca un ulteriore e conseguente aspetto paradigmatico della modernità: la disarticolazione del mondo; il disallineamento – che diventa frattura netta – tra l’uomo e le cose, discendente dall’incrocio di un doppio movimento: la tendenza a «svuotare i simboli del loro potere di integrazione» e la contestuale disponibilità di «mezzi sempre più potenti per trasformare le cose» (p. 48). Ma la modernità riluce, agli occhi di Berque, nella sua configurazione complessa, diversificata, metamorfica: in primo luogo vi è da osservare che quanto presentato in termini di tratti e tendenze generali altro non è che la particolare, quanto dirompente, declinazione occidentale della modernità; accanto ad essa, si dovrebbe perlomeno riconoscere che figuri, in cammino, anche la sua controparte orientale che, sviluppandosi nell’acceso confronto con l’Occidente, non di rado si raccoglie entro l’orizzonte di un’ideologia che, senza troppe difficoltà, potrebbe essere definita anti-modernista. Si tratta, in ogni caso, di una delle due grandi categorie impiegate per riferirsi al fenomeno della modernità, della quale vi sono «tante versioni quante sono le culture che esistono sulla terra» (p. 69). Così, anche “internamente”, la stessa modernità occidentale si è sviluppata sulla trama della controversia: se, da un lato, il soggetto cartesiano ha condotto ad «una dinamica di liberazione della persona umana nei confronti delle forme di oppressione tradizionali, sia di carattere naturale […], sia di carattere sociale» (p. 177), dall’altro la modernità ha contraddetto i suoi stessi principi, conducendo ad altre forme di asservimento e producendo una forma di «libertà irresponsabile […] nei confronti dell’ambiente terrestre» (p. 158).
Se, dunque, si fa sempre più stringente la necessità di divellere questo «processo di sradicamento dell’etica» (p. 52), secondo Berque non è all’interno della modernità che si deve operare in ordine alla configurazione di una rinnovata impalcatura etica volta alla tutela della Terra. Ma la costruzione di itinerari alternativi non può delinearsi neanche nell’orizzonte ermeneutico dell’ecologismo contemporaneo che, a detta del geografo francese, si nutre solo dell’illusione di poter contrastare efficacemente l’antropocentrismo di matrice moderna: poggiandosi, infatti, perlopiù su un’ontologia in cui la biosfera (il tutto) prepondera sulle parti e le definisce, spiega perché ma non chi (e, dunque, perché) deve rispettare gli ecosistemi. La fallacia prospettica dell’olismo ecologico – dei quali la cosiddetta deep ecology propone la versione più radicale – risiederebbe, allora, nel richiamarsi ad «un ambiente fisico basato sulla scienza della natura, l’ecologia, la quale in quanto tale astrae dall’umano» (p. 144); in altri termini, in questa cornice, posta una netta linea di continuità e indiscernibilità tra la natura umana e l’ambiente naturale, l’uomo – ente tra gli enti nell’ecosistema-mondo – dovrebbe «definire un’etica (qualcosa cioè che ha a che fare con l’umano) a partire dall’ecologia (qualcosa cioè che attiene alla natura in generale» (p. 42). Detto, ancora, in altro modo: la caratteristica di fondo dell’olismo ecologico consiste nel «negare radicalmente la categoria di essere che è propria dell’umano, ossia la soggettità» (p. 87) – laddove per soggettità, Berque intende la consapevolezza di essere un soggetto dotato di una volontà e non il semplice “possesso” di una prospettiva (soggettività). Pur condividendone l’assunto di fondo – il tentativo di smussare l’atteggiamento smisuratamente antropocentrico di matrice moderna – Berque addebita all’ecologismo contemporaneo lacune di matrice ontologica, passando in rassegna una sequela di scenari che mostrano non solo l’incoerenza ma, addirittura, anche l’immoralità a cui potrebbe condurre la concezione olistica; tra i casi riportati spiccano le posizioni estreme assunte dichiaratamente da una schiera di ecologisti che si dichiarano ben disposti a eliminare una percentuale considerevole della popolazione mondiale al fine di ripristinare gli equilibri ecologici del pianeta e di chi preferirebbe uccidere un uomo, piuttosto che un serpente, in ordine alla tutela di un ecosistema fragile in una regione arida.
Al di là dei casi limite, comunque, l’intento di Berque risiede nella salvaguardia di ciò che ritiene l’irrevocabile fondamento dell’etica: la soggettità umana. Misconoscere quest’ultima significherebbe, infatti, non solo ridurre l’uomo alla sua – seppur innegabilmente costitutiva – componente animale, ma anche e soprattutto incorrere nel controsenso di non poter definire il valore etico di qualsivoglia gesto. Come si potrebbe – argomenta il geografo francese – valutare la moralità di un atto senza, preventivamente, stabilire a quale scala dell’essere accade? Chi e perché ha dei diritti e dei doveri nei confronti di chi e perché? Ecco uno degli interrogativi che, agli occhi di Berque, i sostenitori dei “diritti della natura”, lasciano senza risposta, allontanandosi così dalla possibilità di elaborare una legislazione ambientale coerente: «chi parla a nome della natura» (p. 123), se non l’unico ente tra gli enti capace di porsi la domanda? E ancora: «se ciascun soggetto ha il dovere di rispettare il diritto di un altro» (p. 82), in che termini quest’impalcatura simmetrica può avere una valenza al di fuori dell’orbita umana? La natura tout court non ha, dunque, “doveri” nei confronti dell’umano quando, invece, è vero il contrario, proprio in ragione del fatto che l’etica si fonda sulla possibilità, che è propria della soggettità umana.
In questo senso, paradossalmente, esautorare quest’ultima – intendere i «fatti umani come conseguenze di cause naturali» (p. 87) – significherebbe de-responsabilizzare l’uomo di fronte all’ambiente. Solo riconoscendo all’uomo il suo peculiare statuto ontologico si può, invece, comprendere perché, proprio in quanto umani, abbiamo il dovere di agire diversamente nei confronti della Terra: «l’etica è ontologicamente fondata per estendersi agli esseri non umani che ci circondano; ma questo vale in quanto fanno parte del nostro milieu, o dell’ecumene in generale, non di per sé» (p. 109). Quest’ultimo passo di Berque ricade con significativa incisività su quanto si è sostenuto – in apertura – in relazione all’ambiente che, lungi dall’attestarsi come un che di dato una volta per tutte, si configura invece come un «effetto di mondo», «qualcosa cioè che si manifesta in funzione di una medialità e di una epocalità; è questione di mondità, non di universalità dell’oggetto. Lo stesso vale per tutte le entità traiettive, in altre parole per tutti gli “in quanto” di cui è costituita la realtà dell’ecumene» (p. 99). Seguendo Berque: l’ambiente, in quanto – e come ogni altro – concetto-scenario, si dispiega, nell’universo umano, in funzione di un senso da cui l’uomo dipende ma che, al contempo, è funzione dell’uomo. Vivere in un determinato assetto spazio-temporale significa, inevitabilmente, inscriversi nel peculiare – e sempre in cammino – archivio naturale-culturale già scritto; ma conservare, al contempo, la possibilità di continuare a ri-scriverlo in un gesto mai definitivo.
Ciò non significa che l’uomo sia il primo e ultimo costruttore della realtà e che l’impresa della verità si svolga nell’agone di un puro relativismo ma, al contrario, riconoscere – in linea con le più recenti acquisizioni sperimentali delle scienze cognitive – che la natura sia un fatto, ma anche un «racconto di questo fatto a opera dell’Homo narrator» (p. 182). E, a ben vederci, si può parlare di natura – e, dunque, della questione ambientale – solo a partire da quell’atto, propriamente umano, di istituzione della natura. La radice di quest’attitudine complessiva risiede nel peculiare modo di stare al mondo di quel particolare ente – diverso dagli altri ma non per questo dotato di un’intrinseca superiorità ontologica – che è l’umano: «eticamente abita l’uomo» (p. 93), poiché «non vive solamente in una relazione ecologica; egli esiste in quella dimensione che Heidegger definisce mondità […]. Questo significa che l’ecosimbolicità dell’ecumene […] implica in quanto tale un’etica, perché tutti i luoghi sono sempre caricati di valori umani» (Ibidem). A primo impatto, può sembrare che quest’ultima frase sia profondamente intrisa di quello stesso antropocentrismo che Augustin Berque affronta in quanto obiettivo polemico nel corso dell’opera. Ma l’attraversamento di alcuni termini-concetto cruciali – e già ricorrenti negli ultimi passi riportati – chiarirà il senso della manovra teoretico-prassica svolta da Berque. Tra questi, svettano medialità, traiettività e, soprattutto, ecumene – dato che Principi di etica dell’ecumene è il sottotitolo di Essere umani sulla terra.
Il primo, costruito dal geografo francese in stretto dialogo con l’opera del pensatore giapponese Tetsurô Watsuji, può essere definito «il senso di un milieu, cioè il senso della relazione di una società con la superficie terrestre» (p. 95); potrebbe, in altri termini, intendersi come il corrispettivo spaziale del concetto di epocalità che, invece, rimanda al senso – per così dire – “temporale” di una determinata epoca. Se medialità ed epocalità – come si è visto nel caso dell’ambiente – istituiscono i fenomeni dell’universo umano, è pur vero che «non riguardano solo questioni di carattere semantico; questi due concetti implicano anche relazioni ecologiche» (p. 97).
E questo accade nella misura in cui, secondo Berque, la realtà è traiettiva, si dispiega come un andare-e-venire che orbita tra i due poli teorici del soggettivo e dell’oggettivo, non riducendosi né totalmente all’uno né totalmente all’altro. Entro quest’orizzonte occorre, dunque, riconoscere che la libertà che discende dalla soggettità umana non sia assolutamente scissa dal mondo, così da potersi imporre in guisa di un individualismo assoluto indifferente all’alterità costituita dall’ambiente; la libertà umana, al contrario, emerge nel mondo – suo luogo di appartenenza – pur non essendone del tutto soffocata: «quello che conta è che non esiste un io completamente distinto dal resto del mondo. Se non c’è soluzione di continuità tra l’io e il mondo, ci sono tuttavia dei limiti o dei livelli di dispiegamento dell’essere» (p. 134). Ecco l’itinerario che Berque propone, in alternativa al soggettivismo moderno e all’olismo ecologico, per la strutturazione di una rinnovata etica che si fondi sull’inestricabile relazione tra l’essere umano e la terra. Paradigma per il quale il geografo francese considera la nozione di ambiente – considerato come il naturale non-umano – insufficiente: non si tratta, a suo dire, di tracciare un ponte tra l’umano e la natura, ma di istituire un’etica nel solco della peculiare e irrevocabile relazione tra uomo e terra. In questo senso, allora, introduce il concetto di ecumene, che è «al tempo stesso la Terra e l’umanità; ma non è né la Terra più l’umanità, né il contrario; è la Terra in quanto è abitata dall’umanità, ma è anche l’umanità in quanto abita la terra […]: l’ecumene è la relazione dell’umanità con l’estensione terrestre» (p. 91).
È in quanto essere propriamente umani che abbiamo un dovere nei confronti di un luogo che, riconosciuto e istituito come tale, siamo tenuti a preservare. Un luogo che è, al contempo, condizione necessaria dell’emersione della nostra libertà, il cui esercizio non può che realizzarsi attraverso l’appartenenza al nostro mondo-ambiente. Un luogo, l’ecumene – la terra abitata dall’uomo – che oggi ha assunto una dimensione globale e che, più che mai, ci richiama ad un’etica ecumenale. Nell’epoca dell’Antropocene, le parole di Berque risuonano con garbata impetuosità: a noi tocca porci in ascolto e, ognuno secondo la propria misura, agire responsabilmente. In quanto esseri umani sulla terra.