Dune

Recensione a:

Dune, di Denis Villeneuve, USA, 2021

Con: Timothée Chalamet (Paul Atreides), Rebecca Ferguson (Lady Jessica), Oscar Isaac (Il duca Leto Atreides), Stellan Skarsgård (il barone Harkonnen), Josh Brolin (Gurney Halleck), Charlotte Rampling (La reverenda madre Mohiam), Chen Chang (il Dottor Wellington Yueh), Jason Momoa (Duncan Idaho), Javier Bardem (Stilgar), Zendaya (Chani)

di Davide Amato

Alla fine del 2023 uscirà il secondo film di Dune, un ciclo cinematografico concepito come trilogia, basato sull’omonimo romanzo di Frank Herbert.

Si tratta di una storia epica, tratta dal romanzo sci-fi fra i più ricchi e innovativi di tutti i tempi. Dune ci introduce in universo fatto di macigni, di strumenti meccanici grandi quanto montagne, di ambienti inospitali e, soprattutto, di uomini. La creazione di Frank Herbert riesce a coniugare ecologia e antropologia, creando una connessione profonda tra lo sviluppo della natura e l’incremento delle capacità umane.

Dune non è infatti soltanto una serie di romanzi (e ora di film), ma è innanzitutto un ecosistema. Il nucleo attorno al quale si sviluppa l’intera trama è l’incredibile ricchezza del suo sistema ecologico, al punto che si può dire che esso è il vero protagonista del racconto, quello cioè che determina (ancor più delle scelte dei vari personaggi) il suo esito finale.

Herbert, nell’immaginare il pianeta Dune – un pianeta desertico le cui condizioni metereologiche rendono la vita precaria e costantemente in pericolo – ebbe la lungimiranza di guardare più lontano che alla sola società americana. Si lasciò ispirare dalle storie dei nomadi del deserto delle società arabe, cui sono palesemente ispirati i nativi del pianeta Dune: i Fremen. La loro vita di stenti, alla continua ricerca di acqua e il suo parsimonioso razionamento, nonché alle loro leggi brutali connesse all’attaccamento religioso al proprio clan, è evidentemente ispirata alla complessità dei popoli nomadi del deserto medio-orientale.

I Fremen lottano non solo contro le infernali condizioni climatiche del loro pianeta, ma anche contro un impero straniero dal quale vogliono liberarsi (da cui il nome: Free Men). Mentre l’impero galattico usa la ‘spezia’ (una sostanza rarissima che viene estratta solo sui deserti di Dune) per arricchirsi, i Fremen sognano invece di trasformare Dune in un paradiso in terra: di renderlo umido liberando le acque sotto il deserto.

Non c’è dunque solo l’uomo che sfrutta gli ecosistemi, non solo le società che distruggono la natura per arricchirsi a sue spese. Anzi, in Dune si vede chiaramente come nelle più propizie condizioni storico-sociali l’umano è capace di liberare le proprie potenzialità creative e trasformarsi in un agente positivo, aiutando la natura a svilupparsi armoniosamente al fianco delle società umane.

Ecco allora che l’uomo diventa il centro della scena. Si potrebbe dire che c’è tutto, in questo ciclo di Dune: potere, ricchezza, religione, mito, guerra. Tutto ciò ruota attorno al pianeta infernale ma anche al protagonista, Paul Atreides, il cui nome è un chiaro rimando da un lato a Paolo di Tarso e dall’altro agli Atridi del mito greco. Una combinazione che può inizialmente stupire, ma che diventa più chiara quando si capisce la natura di questo personaggio. Nel suo percorso di crescita egli finisce per diventare una sorta di monaco-guerriero, destinato a un’impresa messianica. È lui che i Fremen attendono con inquietudine religiosa, sia per aiutarli a liberarsi dal giogo che li opprime che per trasformare Dune in un paradiso.

Herbert descrive Paul, peraltro, come l’incarnazione di due sogni antichissimi della storia filosofico-politica in Occidente: l’eugenetica e l’educazione universale. Il protagonista è infatti il frutto di una selezione genetica accuratissima, per far emergere il meglio da ciascuna dinastia nobile, e anche di una educazione severa e completa (alla lotta, alla politica, al potere mentale, al calcolo, alla cultura umanistica, e infine alla sopravvivenza nel deserto).

Basterebbe questo per notare la ricchezza antropologica e filosofica di Dune, ma aggiungerò un’ultima (e credo molto rilevante) osservazione. L’antropologia proposta da Frank Herbert, lontana dal dualismo cartesiano che caratterizza la maggior parte delle opere fantascientifiche, è unica nel suo genere proprio in quanto profondamente monistica. L’umano è qui considerato come l’unione inscindibile tra il suo corpo e la sua mente, decisamente superiore (ma anche ontologicamente diverso) rispetto alle intelligenze artificiali, infatti del tutto assenti dalla sua trama (un caso unico per film e romanzi di questo genere). A differenza di quello che sostengono gli apologeti del transumano, noi non siamo, al pari di un computer, la somma di un hardware (il corpo) e un software (la mente), ma l’unione inscindibile di essi.

In Dune infatti la razionalità più fredda si coniuga alle passioni più estreme. L’avanzamento tecnologico senza precedenti è accompagnato da un ritorno al mito, ai riti tribali, all’escatologia religiosa. Perché noi umani siamo anche questo, in ogni epoca: un grumo di passioni che vibra in un universo silenzioso, insieme alla razionale aspirazione di poterlo manipolare a nostro beneficio.

Queste due parti non confliggono, non sfociano nella svalutazione assoluta del corpo e quindi nell’esaltazione delle intelligenze artificiali, ma anzi si amalgamano dimostrando l’inscindibilità del σῶμα (corpo) e della ψυχή (mente). Certo, il corpo è pur sempre una componente da controllare, che solo subordinandola al governo della mente realizza il suo pieno potenziale. E tuttavia il sensibile non è mai per questo inferiore all’intellegibile: anche il razionale deve talvolta cedere di fronte all’incertezza del divenire.

Insomma, sembra di essere tornati ai guerrieri omerici, quando ancora nella grecità non aveva fatto capolino quella distinzione orfico-pitagorica tra il corpo e l’anima. Attraversando il mondo di Dune si torna ai temi del viaggio, della guerra, della religione; si respira l’atmosfera dell’Iliade e dell’Odissea.

In Dune sono gli uomini a dover realizzare le proprie potenzialità ignote, scavando dentro se stessi e dentro la realtà ultima del mondo. Una realtà che non è fatta di informazione, di linguaggio binario, di codici informatici, ma è il risultato di una relazione profonda tra le cose.

Così si spiega la frase a mio giudizio più significativa del film: «The mistery of life isn’t a problem to solve, but a reality to experience. A process, that cannot be understood by stopping it. We must join with the flow of the process» (Il mistero della vita non è un problema da risolvere. È un processo, che non può essere capito fermandolo. Dobbiamo unirci al flusso del processo).