Giuliano

Recensione a:

Gore Vidal
Giuliano
(Julian, 1964)
Traduzione di Chiara Vatteroni
Fazi Editore, Roma 2017
Pagine 575
€ 19,50

di Simona Lorenzano

Perché scrivere un’opera sull’imperatore Giuliano? Gore Vidal probabilmente racchiude le sue ragioni nelle parole che attribuisce a Libanio, maestro di Giuliano, in una lettera rivolta a Prisco: «Possiamo riabilitare la sua memoria e dimostrare […] la giustezza della sua lotta contro il cristianesimo»[1]. Bisogna tuttavia sottolineare che scrivere in memoria di Giuliano nel IV secolo e.v. era cosa assai diversa rispetto a farlo ai nostri giorni. Con l’emissione dell’Editto di Tessalonica (380 e.v.) il cristianesimo diventò religione ufficiale dell’impero; Teodosio si scagliò con veemenza contro l’arianesimo e contro i culti pagani, conferendo così maggiore solidità a quel “trionfo del cristianesimo” che era già iniziato al tempo di Costantino. Prendere posizione contro il cristianesimo esaltando Giuliano era dunque oltremodo pericoloso, ma Libanio era temerario: «Alla luce del nuovo editto, dico: basta con la cautela! Abbiamo solo queste due vecchie carcasse da perdere»[2]. Prisco però non la pensava allo stesso modo. Non aveva nessuna voglia di «essere bruciato vivo, lapidato o inchiodato sul portone di una chiesa»[3] e declinava così, senza tanti giri di parole, la proposta, sottolineando di non avere intenzione di scrivere nemmeno una riga su Giuliano. Per Libanio invece preservare il mondo che amava era più importante della sua stessa vita: «Intrecciamo insieme un’ultima ghirlanda d’apollineo alloro per incoronare la fronte della filosofia, come gesto coraggioso contro l’inverno che minaccia questa burrascosa stagione del mondo. Voglio che i posteri si rendano conto delle speranze che avevamo e che vedano come il nostro Giuliano fosse quasi riuscito a debellare il morbo galileo. […] Sarebbe come un seme piantato in autunno in attesa del risveglio del sole e della nuova fioritura»[4].

Il romanzo di Gore Vidal, descrivendo il periodo storico di Giuliano, ci ricorda di come dal mondo classico provenisse ancora una convinta resistenza che si scagliava contro il morbo galileo. Una testimonianza importante del fatto che, al momento della sua affermazione, non tutti intonavano cori di giubilo per il cristianesimo, come per secoli ha voluto far credere la storia scritta dai vincitori. Dunque, ricordare Giuliano perché «noi non abbiamo nulla da perdere. Il mondo, invece, ha molto da guadagnare»[5].

Durante la sua giovinezza Giuliano era stato educato come un cristiano, ma sin da allora si rendeva conto delle contraddizioni insite in quella religione. Il padre di Giuliano era stato ucciso per ordine del fratello Costanzo che temeva una possibile usurpazione. Costanzo si fregiava di essere un cristiano devoto, eppure aveva ucciso la carne della sua carne e il sangue del suo sangue. Era evidente che «se poteva essere allo stesso tempo un buon cristiano e un assassino, allora nella sua religione c’era qualcosa di sbagliato»[6]. Un altro episodio significativo della giovinezza di Giuliano risale a quando, mentre si trovava in giro per Costantinopoli con il suo maestro Mardonio e il fratello Gallo, si imbatté in una dozzina di monaci che inseguivano rabbiosamente due vecchietti apostrofati come “eretici”. Una volta raggiunti, i due vennero picchiati dal gruppo di monaci, e anche Gallo – «che già si comportava come un feroce settario»[7] – scagliò una pietra contro di loro con estrema precisione. Eppure, si trattava di due vecchi inoffensivi, come aveva sottolineato il giovane Giuliano, indignato di fronte alla scena. La loro colpa era semplicemente quella di essere atanasiani, cioè seguaci del vescovo Atanasio, considerati come un gruppo di «pazzi scriteriati, convinti che Gesù e Dio siano la stessa cosa»[8]. A essere perseguitati con ferocia allora non erano solo i pagani, coloro che credevano in divinità diverse dall’Unico Dio, ma la stessa ferocia poteva essere utilizzata anche verso quelli che pur essendo cristiani si erano schierati con la parte “sbagliata” del gruppo. A proposito dei due vecchi atanasiani, infatti, Mardonio precisa: «Sì, sono cristiani anche loro, ma vivono nell’errore»[9].

Giuliano ritiene che la sua mente si sia liberata di un primo anello della catena che lo teneva legato al cristianesimo proprio quel giorno, alla vista di quei dodici monaci che aggredirono per strada quei due vecchi inoffensivi. Ciò dimostra che «persino un bambino è in grado di vedere la differenza tra quello in cui i galilei dicono di credere e quello in cui effettivamente credono, come dimostrano le loro azioni»[10]. Sin da allora Giuliano aveva iniziato a comprendere che «una religione fondata sulla fratellanza e la bontà che quotidianamente condanna a morte chi non è d’accordo con la sua dottrina, non può che essere ipocrita, come minimo»[11]. Lo stesso Giuliano fa notare che dall’esempio di suo zio, l’imperatore Costantino detto il Grande aveva imparato quanto fosse pericoloso schierarsi «con qualsiasi fazione dei galilei, poiché essi intendono celare e distruggere tutte le cose veramente sacre»[12].

«Sono Giuliano […] della famiglia di Costantino»[13], così il futuro imperatore si presenta a Massimo, una frase significativa che mostra come due membri della stessa famiglia siano stati nella storia due figure simbolo di idee del tutto opposte: Giuliano, l’Apostata, il restauratore del paganesimo; Costantino, l’Isoapostolo, il primo imperatore romano ad abbracciare la fede cristiana. Eppure, quest’ultimo non era mai stato un vero galileo; come riferisce il nipote «si è semplicemente servito del cristianesimo per estendere il proprio dominio sul mondo»[14] e anche perché era l’unica religione a potergli garantire il perdono per le empietà che aveva commesso. Su questa e su altre contraddizioni del cristianesimo Giuliano aveva cominciato a riflettere insieme a Massimo che, sotto questo punto di vista, fu per lui un importante maestro. Discutevano, ad esempio, sul fatto che era stato Paolo di Tarso a cercare di dimostrare che il «dio tribale degli ebrei»[15] era l’unico Dio dell’universo, nonostante i testi sacri ebraici fossero in contraddizione con le sue parole. Dunque, «se questo Dio degli ebrei fosse davvero, come sosteneva Paolo, l’Unico Dio, perché mai […] avrebbe dovuto lasciare il resto dell’umanità nelle tenebre, ad adorare i falsi dèi, per migliaia di anni?»[16]. A questo bisogna aggiungere che «gli ebrei riconoscono che si tratta di un “Dio geloso”. Ma che cosa strana per l’Assoluto! Geloso di che?»[17].

Massimo, inoltre, si appella all’impossibilità di negare la molteplicità: le emozioni umane sono differenti tra loro, ogni popolo ha qualità diverse e adora dèi diversi, «ogni divinità ha molti aspetti e molti nomi perché in cielo c’è la stessa varietà che esiste tra gli uomini […] Ora, i cristiani vorrebbero imporci un mito rigido e definitivo su cose che sappiamo varie e stranissime»[18]. In realtà, non si tratterebbe neppure di un mito, dal momento che Cristo era un uomo in carne e ossa, mentre gli dèi romani sono piuttosto poteri e qualità divenuti poesia, affinché ne ricavassimo un insegnamento. «Con il culto dell’ebreo morto, la poesia è finita. I cristiani vorrebbero rimpiazzare le nostre bellissime leggende con la fedina penale di un rabbino riformatore»[19]. I seguaci del Nazareno vorrebbero sintetizzare in modo definitivo tutte le religioni e si appropriano dei rituali delle altre, ma senza mai ammetterlo. Chiamano i propri sacerdoti “padri”, come si fa con i sacerdoti di Mitra di cui imitano anche la tonsura. Anche il fatto di mangiare pane e vino non è una novità cristiana: come sintetizza Prisco, «i cristiani hanno subdolamente incorporato nei loro riti la maggior parte degli elementi popolari di Mitra, Demetra e Dioniso. Il cristianesimo moderno è un’enciclopedia della superstizione tradizionale»[20]. Non solo, l’espressione rituale attribuita a Cristo «chi mangia il mio corpo e beve il mio sangue otterrà la vita eterna»[21], in realtà venne pronunciata, solo con qualche differenza, dal profeta persiano Zarathustra, vissuto sei secoli prima della nascita del Nazareno. Il suddetto profeta prima di morire ucciso dai suoi nemici disse: «Che Dio vi perdoni, come vi ho perdonato io»[22]. Anche queste parole farebbero pensare a un’altra “significativa coincidenza”.

Pur avendo la consapevolezza di queste contraddizioni, nel periodo della sua giovinezza Giuliano fu costretto a sforzarsi di sembrare cristiano per sopravvivere. «Fuori dalla Chiesa non può esistere salvezza»[23], affermava Giorgio, il vescovo di Alessandria: un monito che già in quegli anni poteva essere inteso in senso letterale. La distruzione cristiana del mondo classico era cominciata e Giuliano ne stava facendo esperienza. Basti pensare al fatto che già Costantino per arricchire di bellezza la sua città non aveva esitato «a rubare anche la più sacra delle reliquie»[24], depredando la Grecia di statue, obelischi, monumenti di bronzo e colonne: quelle opere si trovavano sotto gli occhi meravigliati di Giuliano in visita a Costantinopoli. Altrettanto emblematico è l’episodio in cui Costanzo entra dentro un tempio dedicato a Ermes e urina sul pavimento, mentre Giuliano coglie da terra un fiore appassito e non riesce a trattenersi dal dire che era un peccato che quei templi fossero andati in rovina. «Un peccato? Dovrebbero essere demoliti tutti», questa la risposta del cristiano Costanzo che poco dopo aggiunge: «Qui ci separiamo»[25]. Si separavano sia in senso stretto, in quanto Giuliano era stato appena nominato Cesare (355 e.v.) e stava per andare in Gallia per ristabilire l’ordine compromesso dalle tribù germaniche; si separavano però anche in senso metaforico, in quanto l’uno era cristiano e voleva distruggere gli antichi dèi, mentre l’altro cercherà, poco tempo dopo, di restaurarne il culto. Nel frattempo, i cristiani avevano cominciato a distruggere le idee del mondo classico: si può anche studiare la filosofia – dice a Giuliano il vescovo Giorgio – «ma poi si arriva alla storia di Gesù, che è il principio e la fine della conoscenza»[26]. Si fa portavoce di questo “amore per l’ignoranza” anche un diacono che davanti a Giuliano descrive Porfirio e Plotino come due filosofi pericolosi. Per quale motivo sarebbero stati tali? Non era in grado di spiegarlo perché non aveva mai letto i loro libri, anzi «nessun cristiano dovrebbe farlo»[27].

Eppure, si può davvero pensare che non ci fosse nessun dio «prima della comparsa di quel falegname sobillatore, che è avvenuta solo trecento anni fa? Non ha senso pensare che l’epoca più grande dell’umanità sia stata un’epoca senza dio»[28], dice Giuliano conversando con Macrina. In quegli anni, in realtà la maggior parte degli abitanti dell’Impero non era né pienamente ellenistica, né pienamente galilea e di questo Giuliano era ben consapevole, come dimostra in una conversazione con Proeresio, del quale dice che «come molti, vive in una specie di limbo tra l’ellenismo e questo nuovo culto della morte»[29]. Sapeva anche che molta gente odiava i galilei, e aveva tutte le ragioni per farlo: «Basta menzionare l’assassinio del vescovo Giorgio ad Alessandria, per rammentare […] quanto sia feroce questa religione, non solo verso i suoi nemici (i cosiddetti “empi”), ma anche verso i suoi stessi seguaci»[30]. Nonostante comprendesse le ragioni di Giuliano, Proeresio si dimostra lungimirante: «Il movimento ormai ha preso piede. I cristiani governano il mondo grazie a Costanzo. Da quasi trent’anni godono di ricchezza e di potere. Non si arrenderanno facilmente. Arrivi troppo tardi, Giuliano»[31].

Giunto in Gallia, venne acclamato con grande entusiasmo dagli abitanti, perché era il primo Cesare legittimo a recarsi in quei territori che tradizionalmente erano luogo di usurpatori. Mentre gli abitanti si erano radunati per acclamarlo, una vecchia cieca sollevando gli occhi al cielo con voce profetica proclamò: «Quest’uomo restaurerà i templi degli dèi!»[32]. Fu in Gallia che Giuliano conobbe Sallustio, che gli era stato assegnato da Costanzo come consigliere militare. Sallustio era, al tempo stesso, un soldato romano e un filosofo greco; aveva un’intelligenza pronta; era amico di ellenisti come Simmaco e soprattutto non aveva mai abbandonato gli antichi dèi. Fu un incontro significativo, tanto che Giuliano lo descrive dicendo: «Sallustio rappresenta per me tutto quello che un uomo dovrebbe essere»[33]. In altre parole, probabilmente fu una delle persone che maggiormente sostennero Giuliano nel suo progetto di ritornare alla religione degli dèi e che condivisero la sua insofferenza verso l’Unico Dio. Il Cesare si trovava a Vienne durante la ricorrenza dell’Epifania e trovandosi in dovere di presenziare a una celebrazione cristiana, racconta che al momento della preghiera le sue parole erano rivolte al Galileo, ma il suo cuore parlava a Zeus.

La mente di Giuliano era illuminata da un’intenzione chiara: avere il tempo per ringiovanire un mondo invecchiato, per trasformare l’inverno del cristianesimo nella primavera del paganesimo. Da qui un’invocazione: «Dammi solo vent’anni, Elios, e colmerò la terra di lodi alla tua luce, illuminando gli angoli oscuri del regno di Ade! Proprio come Persefone tornò da Demetra, anche i morti viventi del nostro tempo torneranno tra le tue braccia – che sono luce, che sono vita, che sono tutto!»[34].

Alla domanda dell’amico Oribasio «cosa ti piace?», risponde «la vita»[35]. Giuliano ha uno spirito profondamente pagano: probabilmente nessun cristiano, almeno a quel tempo, avrebbe dato una risposta simile, perché per i galilei la vita vera è la vita eterna, quella che si raggiungerebbe dopo la morte nell’incontro con Dio. Per Giuliano invece è durante la vita che si incontra il divino, da qui l’urgenza del suo «voglio ripristinare il culto gli dèi»[36]. Il futuro imperatore però non ha nessuna intenzione di eliminare i cristiani: intuisce acutamente che facendolo avrebbe piuttosto dato loro «la gioia del martirio»[37] e considerando la frequenza con cui si uccidono tra di loro, il suo intervento sarebbe stato superfluo. «No, li combatterò con la ragione e l’esempio. Riaprirò i templi e riorganizzerò i sacerdoti. E l’ellenismo rifiorirà a tal punto che il popolo lo sceglierà di sua sponte»[38]. In altre parole, Giuliano per ripristinare il culto degli dèi non voleva usare il sangue e la spada, bensì la ragione, il peggiore nemico della fede e delle superstizioni, come il cristianesimo delle origini era considerato dai pagani. Il potere di Giuliano era molto cresciuto da quando era stato acclamato Augusto dai Galli, «non dai romani, né secondo l’uso romano, ma dai barbari, secondo i loro rituali»[39]. I suoi progetti, tuttavia, non potevano ancora concretizzarsi perché sarebbero di certo entrati in conflitto con le idee di Costanzo. «L’unica certezza – afferma Giuliano – era che, non appena mi fosse stato possibile, avrei ripudiato pubblicamente il Nazareno»[40]. E quando finalmente divenne l’unico Augusto, tutto questo fu davvero possibile.

Ogni qualvolta Giuliano sta per avere un momento di gloria, Gore Vidal lo introduce attraverso un espediente letterario, quello di ricreare l’immagine in cui su di lui cade qualcosa di inaspettato: una ghirlanda che si scioglie da un albero e gli si posa sul capo nel caso dell’arrivo in Gallia; il cerchietto di un soldato quando venne acclamato Augusto d’Oriente. Nel caso dell’ingresso a Sirmio (città che si arrendeva senza opporre resistenza ai Romani), Giuliano venne colpito da un grande mazzo di fiori. È l’ennesimo simbolo di un riconoscimento inatteso che arriva dall’esterno: stava per succede qualcosa di importante. Eppure, la situazione era molto precaria, in quanto Costanzo poteva sbarcare ad Aquileia da un momento all’altro per cacciarlo dall’Italia e dalla Gallia, e Giuliano era convinto che gli dèi l’avessero abbandonato. All’improvviso, Oribasio giunse sconvolto da una notizia: Costanzo era morto. Giuliano divenne così l’unico Augusto «miracolosamente – solo perché il respiro di un uomo s’era fermato»[41].

Era il 360, da quel momento in poi le cose cominciarono a cambiare. «Il 4 febbraio 362, proclamai la libertà di culto in tutto il mondo. Ognuno poteva adorare la divinità che preferiva, nel modo che preferiva»[42]: in questo modo il cristianesimo non era più la religione di Stato e i sacerdoti galilei non erano più esentati dal pagamento delle tasse. Inoltre, «sarebbero state adorate tutte le divinità conosciute dal popolo, sia maschili che femminili, sotto qualsiasi nome o aspetto, per quanto strano potesse essere, perché la molteplicità è la natura stessa della vita»[43]. Ma da cosa discende tutta la vita, divina e mortale? Esiste una molteplicità inesauribile di risposte, qual è la verità? «La ricerca è lo scopo della filosofia e dell’esperienza religiosa. L’eresia galilea proclama invece che la ricerca è finita trecento anni fa, quando un giovane maestro è stato giustiziato per tradimento»[44].

Giuliano si sofferma a riflettere sul fatto che Cristo aveva promesso ai suoi seguaci che sarebbero stati ancora vivi il giorno del giudizio; tuttavia, i suoi discepoli erano morti tutti, secondo il normale corso della vita. I vescovi cristiani in attesa della beatitudine eterna, accumulavano intanto ricchezze sulla terra, mentre lo Stato romano si indeboliva e languiva minacciato dai barbari. Secondo l’imperatore la caduta dell’ellenismo si poteva ricondurre, in gran parte, a un problema di carattere organizzativo: «Roma non ha mai cercato di imporre i suoi culti ai paesi che conquistava e civilizzava; anzi, è vero il contrario. Roma era eclettica»[45]. Tutte le religioni avevano le stesse opportunità; perfino Iside, dopo alcune resistenze venne accolta nel pantheon romano, tanto che questo comprendeva almeno «un centinaio di divinità importanti e una dozzina di misteri»[46]. Nel corso del tempo, i riti romani avevano cominciato a svuotarsi di valore, fino a diventare quasi delle ricorrenze formali, il ricordo rassicurante del periodo di più grande splendore della città. In questa maniera, «mentre le espressioni religiose dello Stato diventavano sempre più rigide e vuote, il popolo cominciava a interessarsi ai culti misterici»[47] e ad altri culti come quello cristiano che si fonda sul concetto di un Unico Dio. Secondo Giuliano, inoltre, Gesù era soltanto un sacerdote ebreo riformatore, «un ribelle che cercava di autoproclamarsi re degli ebrei» e soprattutto «i suoi problemi con Roma non sono stati religiosi (quando mai Roma ha perseguitato qualcuno per il suo credo religioso?), bensì politici»[48]. Negli archivi di Roma esistevano molti resoconti sulla vita del Nazareno, se non fosse che vennero distrutti per ordine di Costantino. Riguardo alla predicazione morale di Gesù, Giuliano era tuttavia meno tagliente, perché riconosceva il valore dell’onestà, della sobrietà, della bontà e dell’ascetismo che lui stesso praticava, seppur motivato da riflessioni diverse. Rimaneva comunque sorprendente come «questo ingenuo sacerdote di provincia sia stato incredibilmente trasformato in un dio da Paolo di Tarso, che ha superato in ingegno tutti i ciarlatani e gli imbroglioni di ogni tempo e luogo»[49].

Nonostante gli attacchi al vetriolo che scagliava contro il cristianesimo, Giuliano rimaneva comunque coerente con la sua idea: durante il suo impero, nessuno avrebbe sofferto a causa della sua religione. In quanto Augusto era anche pontefice massimo, dunque, per sottolineare di avere la titolarità delle scelte su tutto ciò che riguardava la religione, decise di convocare i vescovi a palazzo. Introdusse l’incontro dicendo: «Non starò a elencare i crimini che avete commesso, o che avete autorizzato: omicidi, ruberie, crudeltà, che si addicono più alle belve che ai sacerdoti»[50]. Proseguendo Giuliano non risparmia di sottolineare alcune delle più evidenti contraddizioni cristiane:

«Vi hanno detto che non dovreste vendicarvi, quando subite un torto, […]; che è sbagliato rispondere al male con il male. E invece vi accanite gli uni contro gli altri, in bande scatenate, e torturate e uccidete quelli che non la pensano come voi. Avete messo in pericolo non solo la vera religione, ma la stessa sicurezza dello Stato […]. Se non riuscite a vivere secondo quei precetti che siete disposti a difendere con le armi […] che cosa siete, se non degli ipocriti?»[51].

Andando al di là delle critiche, alla fine dell’incontro Giuliano evidenziò che sarebbe stato comunque pronto a dare al Nazareno un posto tra gli dèi, perché il suo obiettivo era mantenere la pace e ricordare ancora che «la grandezza del nostro mondo ci è stata donata da altri dèi, e da una filosofia diversa, ben più profonda, che rispecchia la varietà della natura»[52]. Sentendo queste parole i vescovi lanciarono maledizioni contro Giuliano, che venne schernito come “apostata”, colui che ha rinnegato la propria religione, come se prima del cristianesimo non ce ne fosse stata alcuna.

Giuliano fece riaccendere tra coloro che erano rimasti pagani la speranza che qualcuno sarebbe riuscito a fermare «il cocchio che precipita nel sole»[53]; purtroppo il suo impero fu breve perché la sua vita venne stroncata in battaglia, e non da un’arma nemica bensì da una lancia romana.  «Nell’ora più opportuna abbandono questa vita, felice di restituirla alla Natura, che me lo chiede», queste le parole con cui Giuliano si congeda in modo definitivo. Come scrive Prisco a Libanio, «è un privilegio dei potenti, riscrivere il passato»[54]. Dunque, morto Giuliano, affinché potesse nascere l’impero cristiano era necessario cancellare il ricordo di questo imperatore, o quantomeno trasformarlo in un mostro, il deprecabile “Giuliano l’Apostata” con cui la storia cristiana lo ricorda. Anche in questo caso, è significativo ciò che disse lui stesso ai vescovi a proposito della religione pagana: «Il passato non cessa di esistere solo perché voi vi ostinate a ignorarlo»[55].

[1] G. Vidal, Giuliano (Julian, 1964), trad. C. Vatteroni, Fazi Editore, Roma 2017, p. 24.

[2] Ibidem

[3] Ivi, p. 27.

[4] Ivi, p. 31; il corsivo è mio.

[5] Ivi, p. 25.

[6] Ivi, p. 44. 

[7] Ivi, p. 46.

[8] Ivi, p. 45.

[9] Ivi, p. 46. 

[10] Ivi, pp. 46-47.

[11] Ivi, p. 47.

[12] Ivi, p. 35. 

[13] Ivi, p. 108.

[14] Ivi, p. 37.

[15] Ivi, p. 110. 

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 111.

[19] Ibidem

[20] Ivi, p. 115.

[21] Ivi, p. 112.

[22] Ibidem.

[23] Ivi, p. 79. 

[24] Ivi, p. 376. 

[25] Ivi, p. 228. 

[26] Ivi, p. 55.

[27] Ivi, p. 58.  

[28] Ivi, p. 198.

[29] Ivi, p. 179; il corsivo è mio.

[30] Ibidem.

[31] Ivi, p. 180.

[32] Ivi, p. 237.

[33] Ivi, p. 246.

[34] G. Vidal, Giuliano (Julian, 1964), trad. C. Vatteroni, Fazi Editore, Roma 2017, p. 246.

[35] Ivi, p. 328. 

[36] Ibidem

[37] Ibidem

[38] Ibidem

[39] Ivi, p. 299.

[40] Ivi, p. 329.

[41] Ivi, p. 333. 

[42] Ivi, pp. 376-377. 

[43] Ivi, p. 380. 

[44] Ibidem. 

[45] Ivi, p. 381.

[46] Ibidem. 

[47] Ibidem

[48] Ivi, p. 383. 

[49] Ibidem.

[50] Ivi, p. 388.

[51] Ibidem

[52] Ivi, p. 390.

[53] Ivi, p. 380.

[54] Ivi, p. 464.

[55] Ivi, p. 391. 

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